martedì 8 dicembre 2015

Della grande ignoranza

Santa ignoranza.
Dotta e foriera di frutti ancora acerbi.
Un mondo è andato.
Non del tutto la sua ombra pesante.
Liberarsene prima possibile.
Senza rimpianti.
Viva la nuova ignoranza.
Grado zero di sapere.
Segno di massima liberazione.
Da tutto quanto ci legava.
Senza più il ricordo della finalità o del senso.
Solo l'inerzia residuale di quanto non c'è più.
Già al tramonto da chissà quanto.
Resta ancora una vibrazione lenta.
Di qualcosa scomparso per sempre.
In molti a lagnarsi dell'ignoranza delle nuove generazioni.
Gli stessi ancora avvinti nelle maglie di un sistema all'apparenza incapace di arrestarsi.
Tutto è già compiuto.
Ricapitolato.
Rimane solo la contemplazione stupita di quanto fu nella potenza, libera ora di gettare nuovi semi, scintille di luce invisibili ai più.

domenica 8 novembre 2015

A 14 2015

A fare autostop erano rimasti in pochi.
Tante cose erano cambiate. La società attuale non rispecchiava più i valori libertari di una volta. Si era preferito piuttosto affermare un senso di sicurezza al di là di ogni logica. Complici i media, un sistema onnipervasivo incentrato sulla legalizzazione di ogni manifestazione, capace di riprodursi viralmente in ogni luogo, situazione. A volte appena saliti si sentiva dire di essere il primo autostoppista a bordo da sempre. Una specie rara oramai estinta da tempo. Spesso a fermarsi erano proprio quei figli di fiori alla lunga riassorbiti dal sistema, dalle logiche familiari, dal lavoro al punto di non riuscire più a vedere alcun punto di contatto con quelle immagini esotiche celebrate da tanti film. Eppure tanti suoi giovani amici avevano ripreso quella tradizione con nuovo entusiasmo. Non di rado si spingevano oltre le alpi diretti in francia, germania, là dove ancora l'autostop è una pratica condivisa. Di certo il più atipico di tutti era fabrizio spesso con siddharta. Lui sessantacinque anni, nemmeno dieci suo figlio. Capelli lunghi e barba bianca, lo sguardo profondo, sincero, un sorriso rassicurante utile per fronteggiare le emergenze più ricorrenti. In particolare l'arrivo della polizia allertata dagli automobilisti preoccupati per le sorti del bambino. A facilitare il loro compito una rete globalizzata di sguardi, parole. Controllori di tutto a loro volta sotto controllo perenne. Immancabile l'intervento della volante dopo le chiamate di avvertimento.
Documenti... dove andate... da dove venite...
insomma le solite domande.
Fabrizio e siddharta non erano caduti in quella rete stritolante, o almeno avevano provato a allentarne la presa anche per inseguire un senso di libertà ai più sconosciuto. Non senza pagare pegno.
Quel giorno era partito di sabato.
Salutati gli amici, i genitori via verso il casello per fare ritorno a casa. Là dei provetti panificatori operavano una volta ancora la trasformazione dell'acqua e della farina in un pane buonissimo. Voleva essere presente anche lui.
Che la giornata non fosse partita bene si era visto subito. Era sabato cazzo. I viaggiatori esperti si riposavano a casa. Lungo la strada solo i guidatori distratti del sabato spesso con utilitarie scassate, la famiglia al seguito. Irraggiungibili le poche macchine di grossa cilindrata, i suv con i vetri scuri rigorosamente dotati di pass pronti a sfrecciare più velocemente possibile. Difficile intercettare i loro sguardi, impossibile scambiare anche una sola parola.
Fare autostop oggi non è certo una passeggiata.
Per carità i tempi di percorrenza sono veloci, tre ore quando va male, due se tutto fila liscio per coprire un paio di cento chilometri. Sempre meglio del treno regionale. Lì non sai mai se arriverai a destinazione. In quel frangente poteva succedere di tutto. Sempre all'erta. Con le antenne dritte per riuscire a leggere al meglio ogni istante presente, per dare le risposte giuste. E non c'era regola a tenere. Ogni volta bisognava improvvisare con la massima celerità possibile. Questioni di secondi. Una parola sbagliata. Tutto da rifare daccapo.
Quel giorno sembrava eterno. Ma disperarsi non serviva. Meglio lasciare sgomberi i pensieri per ottimizzare le forze.
Poi come d'incanto un passaggio fino a fano prolungato miracolosamente fino a rimini sud.
Rimini sud.
Quella era la barriera più difficile.
Una sorta di spartitraffico tra le marche e la romagna.
La prova da superare prima del premio finale.
Nonostante l'enorme traffico pochi disposti a ascoltarti.
A peggiorare le cose solerti casellanti pronti a uscire dalla cabina per mandarti via a suon di urla e di minacce. Neanche avessero visto il demonio.
Qui non puoi stare.
Te ne devi andare subito.
Frasi pronunciate con gli occhi strabuzzati, la bava alla bocca.
Oramai ci aveva fatto il callo.
Pronta la risposta.
Da qui non me ne vado.
Cercando di mantenere tutta la calma e il distacco possibili.
Ah no? Allora chiamo la polizia.
Libero di farlo la replica.
Da quel momento il countdown attivato per non essere inquadrati nel mirino del sistema.
Andare via prima possibile.
Alla velocità della luce.
Fino a diventare inconsistenti come un fotone.
Via tutte le maschere.
Decisi come se in palio ci fosse la vita.
Un casello vale l'altro.
Anche il più vicino.
Ovvero rimini nord.
In tali frangenti qualcosa di speciale succede.
Chi sta dentro la macchina percepisce qualcosa.
Via le barriere usuali.
Tutto sembra facile.
E in pochi istanti voilà il passaggio per rimini nord.
Il minimo.
Ma non importa.
Arrivare là è come mettere piede oltre il confine.
Da lì in poi tutta un'altra musica.
A forlì una signora cinquantenne anche lei autostoppista da giovane. Ha la voce un po' rauca per il fumo. Ma è simpaticissima. La pecora nera del paese. Quella ribelle per natura. Certo alla fine normalizzata pure lei.
Va a bologna per trovare un amico.
Abita in via guelfa.
La stessa strada di camere d'aria dove c'è parcheggiato il forno a legna.
Stupiti non poco dalla coincidenza ci si lascia con un abbraccio caloroso.

mercoledì 9 settembre 2015

E notte fu...

Da vari anni non tornava in quel luogo.
Da quando partito un mondo se ne era andato.
Di botto.
Una vera apocalissi.
Il tempo a venire per realizzarlo.
Capisci allora dell'inconsistenza di quanto ci circonda, di quanto all'apparenza sembra contare.
Basta spostarsi di poco.
E tutto cambia senza ritorno.
Allo stesso tempo comprendi la forza dei propri desideri, della volontà, dell'amore, dell'intento sottaciuti.
Uno sguardo non indifferente capace di trasmutare la materia grezza, la povera realtà in un mondo magico bellissimo. Certo con le sue ombre, le idiosincrasie opportunamente silenziate.
Forse è proprio questo uno dei possibili sensi del portare la luce dove prima era buio. In fondo c'è notte e notte. E la più nera non sempre ha un risvolto negativo. Così spegnere tutte quelle luci artificiali può essere l'occasione per saper captare nell'oscurità scintille di luce. Insomma per vedere meglio a volte bisogna prima fare buio. Allora in certi momenti di illuminazione scopri che non tutte le vacche sono nere. Anche avvolti in tanto nero qualcosa di residuale trapela. Forse lì si annida l'essenziale. Buio e silenzio gli strumenti da sempre per fare questo vuoto. Per andare oltre quella illusoria continuità percettiva. Il punto (quasi) zero da conquistare. Quel non luogo foriero di possibilità infinite se solo lo si cercasse senza se e ma.
Ma il discorso oggi prende un'altra piega.
Qui lo sguardo è più quello dell'angelo benjaminiano intento a volgersi a tergo per mirare le macerie della storia.
In questo caso i cumuli di rovine sono soltanto la realtà grezza, il substrato rimesso a nudo.
Finito l'amore, il collante di quel mondo, rimane solo questa materia povera, basilare pronta per nuove doglie. Intanto però niente più scintille capaci di illuminarla solo a volerlo. Da soli o insieme. Lo sforzo collettivo nel tentativo magico di attivare livelli inauditi in potenza, bellezza. Senza quel carburante impossibile elevarsi. Avoja a pronunciare parole magiche, a scuotere bacchette, vincastri.
Ecce realtà nuda.
Soltanto.
La più vicina alla sensazione pura.
Il bicchiere mezzo vuoto.
Niente più trasporto.
Come se ogni cosa avesse perduto l'anima.
In giro solo fantasmi, no... zombie.
Vedo anche cri.
La guardo.
È a pochi passi da me.
Lontana all'infinito.
Di un'altra dimensione.
Preferisco tacere.
Non annodare discorsi inutili.
Impossibile incontrarsi con lo sguardo.
Niente più riflette.
Come vivessimo due realtà separate da una membrana trasparente anonima.
Fra tanta gente nessuno mi riconosce più.
Anche quando provo a salutare.
Come fossi trasparente, etereo.
In loro si rispecchia solo il fantasma di quel marco che fu.
Terminiamo il giro con gli amici stranieri.
La sensazione di stare girando nei corridoi di un museo a ciel sereno. A mirare oggetti, situazioni anonimi oramai al di fuori da ogni uso se non quello della contemplazione distaccata.

giovedì 3 settembre 2015

Ecologia dello spirito

Oggi non ce la faccio.
Come fossi di cemento.
Ogni gesto è difficile, vischioso.
Ieri ho scoperto quanto avrei già dovuto sapere da un pezzo.
L'occhio destro vede sempre di meno.
Oggi ho contattato l'oculista della prima lontana operazione laser.
Essersi abituati bene.
Questo il problema.
Difficile l'idea di essere tornati indietro.
Ma non è solo questo.
Vedere il corpo disfarsi lentamente.
E' questo quanto provato dalla zia operazione dopo operazione?
Quando al risveglio si scopriva privata di parti di sé, di funzionalità irrecuperabili.
Difficile anche accettare l'idea di stampo spirituale del corpo come grave, peso, croce.
Ecco allora tanta industria per immobilizzarlo, privarlo dei piaceri, metterlo a regime.
Certo per seguire la via dello spirito per liberarlo.
Un lungo viaggio a ritroso dopo aver ceduto alla tentazione dell'incarnazione.
Moh che si fa?
Non è affatto pacifico abbandonare la nave che affonda centimetro dopo centimentro.
Anche perché per molti di loro l'identificazione con l'infinito, con la coscienza cosmica indeterminata è un fatto assolutamente normale.
Come se vivesserogià da un'altra parte oltre questa dimensione.
Certo rimane l'annosa questione di come ridare dignità, consistenza, essere a questo abbaglio ancestrale. La macchina fisica, quel corpo fragilissimocome un cristallo sottilissimo.
Arrivederci a tutti e buonasera.
No, questo non riesco ancora a pronunciarlo.
Qualcosa mi trattiene ancora.
Quegli stessi così veloci a abbandonare la nave quanto a rimpolpare questa esistenza progettando futuri improbabili mossi da una fede un ottimismo ogni oltre logica nel migliore dei casi.
No non mi sento così.
Se proprio devo, ripeto devo, perché altra via non vedo, lo faccio a malavoglia.
Non senza dare uno sguardo indietro, memore delle macerie lungo la strada. Non senza disappunto.
Certo una via bisogna pure trovarla, una soluzione la più folle che ci sia.
In fondo si trattasolo di abbandonarsi all'infinito.
Soprattutto saper scompariresenza lasciare tracce a venire.
Nel rispetto delle migliori regole ecologiche

mercoledì 22 luglio 2015

Odissea nello spazio e nel tempo di ora

Come sia nato l'uomo rimane un mistero.
Da circa 250000 anni si sono succedute tante variazioni spesso inspiegabili fino a giungere ai nostri giorni.
Circa 10000 o 20000 anni fa, cosa cambierebbe, l'ultimo uomo, quello sapiens o anche faber, tecnologico. Apparso tra le valli della Mesopotamia, dell'India fino all'Africa nord orientale. Ma poteva essere la Siberia, o il freddo nord Europa, o il centro America. Di punto in bianco ecco apparire anche il grano come lo conosciamo oggi, gli animali domestici e via dicendo.
C'è chi attribuisce tale passaggio a qualche cultura aliena. Un esempio per tutti Kubrick e il suo 2001 Odissea nello spazio. Per Castaneda si tratta piuttosto di essere spirituali predatori (I Voladores) venuti a colonizzare la terra per utilizzare la macchina uomo al suo servizio come in Matrix. La stessa Bibbia narrerebbe secondo la traduzione letteraria di Mauro Bilino dell'alleanza con Javè, uno dei tanti Eloim venuti per governare l'umanità. Gli Eloim ovvero un'altra etnia, civiltà aliena evoluta capace di indossare i panni umani, di generare insieme discendenze semidivine (come nelle mitologia greca).
Avanzati al punto da riuscire a modificare geneticamente l'uomo per farne un docile strumento di controllo grazie al potenziamento/innesco della mente sopra le altre funzioni biologiche “naturali” cioè avvenute per mutazione spontanea. Tale scenario è in parte lo stesso ipotizzato da Stargate.
Ora che fine hanno fatto gli Eloim nessuno lo sa. La maggior parte dell'umanità se ne è dimenticata, anche per il tentativo di nascondimento, traviamento operato da certe istituzioni secolari statali o religiose che siano,
C'è invece chi li vede ancora come Caterina Stefania una “aperta” capace di andare “oltre la barriera”, alias velo di Maya, Matrix. Con lei padre Tomislav uno dei frati protagonisti a Medjogore. Ora entrambi in abruzzo in una comunità mistica intenti a fare rituali cosmici ai quali parteciperebbero pure entità aliene.
Anche Castaneda a suo modo parla della stessa cosa, di piani di realtà differenti al di là della matrice interpretativa di questo mondo, di un cosmo popolatissimo aventi finalità predatorie.
Ma torniamo agli Eloim, scomparsi certamente dal piano visivo non prima di aver innescato nell'uomo quei dispositivi culturali alla Foucault capaci di imbrigliarlo entro maglie fitte, la grande barriera, con lo scopo di predisporlo al lavoro, alla conservazione della specie per farne carne da sfruttamento. Insomma l'uomo come schiavo. Lo stesso prefigurato da Platone dentro la caverna, cieco fino alla paranoia. L'uomo macchina imperfetto, perché frutto di una sintesi approssimativa. L'unico animale sulla terra senza ambiente, produttore di mondo artificiale, sfruttato da potenze superiori per depredarlo del suo lavoro, della sua conoscenza, della sua energia.
Questo lo scenario più ampio del potere rispetto a quello ipotizzato politicamente dalla comunità invisibile.
Rimane lo stesso unico fine possibile, quello della liberazione assoluta dell'uomo da tutto quanto ci predispone, ci obbliga alle nostre spalle sia come forze occulte, sia come poteri secolarizzati e via dicendo. Se per Colombo andare oltre la barriera significava superare spazialmente le colonne d'Ercole. Oggi i nuovi confini da superare in un mondo globalizzato sono oltre l'u-topia intesa almeno entro queste leggi fisiche Per rilanciare in un inaudito “non luogo” dove tutto è possibile, tutto è connesso, tutto può nascere. Luogo, mondo spirituale di connessioni inimmaginabili, l'oceano infinito da solcare grazie al nostro doppio, il corpo energetico recuiperato, ristrutturato, rivitalizzato, potenziato, fatto sorgere alchemicamente da quella macchina fisica usata primariamente per semplici scopi materiali di sfruttamento quotidiano, al massimo di sopravvivenza. Grazie a un altro uso dello stesso, a una economizzazione delle energie per mettere la macchina a regime fino al punto sogliare della trasformazione-trasfigurazione-precipitazione alchemica nell'uomo spirituale. L'unico a saper andare oltre la barriera, di “vedere”, “conoscere” silenziosamente attingendo a quell'infinito oceano di conoscenza di energia a cui avrebbe accesso.
È sempre un problema di pratiche, del fare, il “grande fare” come lo definisce Gurdjeff. Ma prima dobbiamo conoscersi meglio, come siamo fatti, quali sono le nostre potenzialità al di là dei limiti imposti dal sistema. La via politica da sola non basta per rispondere a tali questioni. Certo è di grande aiuto per svelare certi dispositivi, per cominciare il processo di liberazione. Ma è solo l'inizio. Certo è sempre un problema di economia, di buona amministrazione. Ma il problema va spostato su tutti i livelli possibili. Dal macro al micro e viceversa. Dal fisico, al mentale allo spirituale, dall'infinitamente piccolo fino al cosmico. Antropologia spirituale la più materialistica possibile. Poi si vedrà.

lunedì 1 giugno 2015

Oltre l'orto...

La terra di nessuno
Neverland
L'isola che non c'è.
Per accedevi basta superare le barriere.
Staccarsi da terra.
Saper volare
Oltre l'immaginato.
Il già dato.
Trovare l'isola che non c'è
non è tanto uno spostarsi in un luogo remoto
una terra esotica
come molti credono.
E' lì a portata di mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un mondo apparirà.
Di una luce, una completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo.


Il giorno x era arrivato.
Almeno sulla carta quella domenica ci sarebbe dovuto essere “oltre l'orto...” L'evento pensato insieme con quelli di tessuto da varie settimane.
Oltre l'orto... un nome un programma.
L'intento di trascendere quanto conosciuto.
La sfida mirabile di aprire nuovi sentieri per testimoniare di mondi impensabili. Per non ripiegarsi sul triste presente, per non fermarsi alle solite comprensibili posizioni recriminative, di denuncia. Oltre quel sacrosanto urlo esistenziale per diventare affermazione pura. Nella speranza di tentare l'impossibile. Non senza provare prima a flirtare con la magia, la follia.
I giorni appena trascorsi era piovuto. Il terreno incolto fuori il recinto dell'xm era diventato inagibile.
Senza lasciarsi prendere dallo sconforto si era deciso di spostarsi dentro il centro sociale. Rinunciando agli spazi vergini fuori dell'orto. La neverland desolata, la terra di nessuno abbandonata dove prima c'era il vecchio mercato ortofrutticolo. Il luogo dove sarebbe dovuto sorgere un quartiere residenziale nuovo di pacca. La trilogia navile, un centro abitativo non certo popolare. L'ennesimo piano regolatore per nascondere la solita speculazione edilizia.
Gli edifici tre grossi palazzi a spezzare prepotentemente la linea infinita dell'orizzonte fino a nascondere i bellissimi tramonti di una volta.
Fallite le ditte erano stati abbandonati al loro destino nell'attesa di tempi “migliori”.
Al momento restava solo lo scheletro nudo di quanto appariva in bella mostra sulla carta, oltre la terra smossa, le montagne di detriti sommersi, le macerie disperse qua e là a pioggia. Al punto di rendere quelle zone ancora più desolate di prima.
Di per sé non era un male.
Almeno per tutti quegli animali selvatici lì trasferitisi da tempo. Lepri, lucertole di ogni grandezza, tipo, piccioni metropolitani, gatti sempre più randagi.
Anche per la pioggia di quei giorni la vegetazione era più rigogliosa che mai. Cicorie, cardi, ortiche e tante altre piante selvatiche avevano infestato ogni anfratto colorando quelle terre amorfe di un verde intenso.
In mezzo a quella landa desolata le vestigia di quattro piante giganti sradicate. I ceppi oramai a nudo sulla superficie in lotta con le fitte erbacce per non essere sopraffatti. Una battaglia impari.
Quelle possenti rovine solitarie cariche di storia conferivano al posto un non so che di arcano, di magico. Il luogo ideale per celebrare riti antichi nel tentativo di connettersi con le energie cosmiche nascoste.
A accentuare tale sensazione di straniamento la sagoma maestosa sullo sfondo del nuovo comune del tutto scollegato con il resto. A seguire le volte snelle del vecchio mercato, un gioiello di architettura degli anni sessanta, oramai private di ogni utilizzo pratico. Prima mercato, poi macerie all'aria aperta, infine garage per auto, ora solo piloni snelli slanciati verso l'alto per il puro piacere dello sguardo. Specie durante i tramonti quando la luce del sole gioca a rimpiattino tra le grosse finestre di vetro sul tetto scolpendo le volte in controluce.
Subito di fianco l'entrata del vecchio mercato, già convento negli anni venti. Una struttura in pieno rigore metafisico dalle linee pulite, essenziali. Forme pure, lisce come monoliti astratti.
Un coctel di mondi andati e a venire da vertigine.
Luogo indefinito disarmonico, fuori oltre ogni misura.
Non certo adatto per essere abitato se non occasionalmente da coppiette furtive, tossici, fanciulli all'avventura.
Come appena detto, l'idea di occupare per un pomeriggio tale ambiente ameno era stata a malincuore abbandonata per ripiegare sulle più familiari tettoie dell'xm poste a est dell'orto.
Niente più slanci verso l'ignoto. All'apparenza un ripiego. Nei fatti una sfida ancora più grossa.
Trasformare quel luogo sinistro, sporco, opprimente in un rifugio accogliente, facendo emergere da quel substrato amorfo, oscuro un nuovo mondo inaspettato. Questa la magia da compiere quel giorno. Per questo si era pensato di tagliare in due il grosso lungo spazio sotto la tettoia per sfondarlo in larghezza sfruttando l'apertura naturale verso l'orto antistante. Escludere il bar e tutto quanto a seguire, i luoghi di solito più frequentati, per occupare quegli ambienti invece più in ombra. Il cuore pulsante dell'impianto la palestra con lo spazio antistante, l'ultimo edificio prima dell'uscita. Quanto doveva essere abbattuto secondo i piani maldestri di certi speculatori assecondati politicamente. Svuotato di tutto era diventato la superficie ideale da trasformare in sala da ballo privè. I grossi bancali di solito lì davanti parcheggiati erano stati spostati al centro dello spazio circoscritto. Messi in mezzo in modo asimmetrico per spezzare la linearità da caserma dell'ambiente precedente. Sarebbe stato il divano per eccellenza da dove poter mirare lo spettacolo. In particolare di quello offerto sui due tessuti appesi sulle possenti travi del tetto metallico.
Oltre il cancello l'orto, la fuga naturale verso il fuori. L'intermezzo con la natura selvaggia, lì addomesticata nelle vasche da bagno, nei secchi di plastica, nelle ruote da bici. Lo spazio preferito dagli abitué del giovedì quando si svolgeva il mercato di campi aperti.
Eppure tutto questo non era ancora sufficiente per compiere il miracolo. Mancava il tocco finale capace di operare il salto nel nuovo cosmo. A svolgere tale compito sarebbero dovute essere le note soffuse della filodiffusione. Tredici piccole casse per riempire con leggerezza ogni angolo di musica chillout senza arrecare disturbo. Anche per affermare un'idea alternativa alla solita musica sparata da casse mega pompate desiderose di sovrastare tutto. Timbriche fatte per aggredire, sfogare muri di frustrazione, abbattere barriere di insensibilità programmata dal regime quotidiano del sistema. Una rabbia dentro canalizzata per alimentare orge trash, serate tekno votate spesso più alla (auto)distruzione, non prima di aver attinto ad ampie mani all'energia necessaria per tirare l'alba. Fino a quando sperperata ogni forza vitale ci si trascina come zombie per depositare da qualche parte le carcasse vinte dalla stanchezza, dagli eccessi.
A dispetto di tale trend si voleva utilizzare quei luoghi per un altro uso più incline a rigenerare l'energia. Per ottenere tale obiettivo c'era alberto con il reiki, olga con lo yoga, più la sessione finale del laboratorio di dance trance. Alberto con i suoi amici avevano anche allestito di fianco alla palestra il loro banchetto di erbe sacre, infusi miracolosi, dolcetti vegani attingendo ampiamente all'esperienza maturata da alcuni di loro nel lungo ritiro shamanico in perù. Fuori il banchetto, dentro la stanza adibita a tessuto i materassi necessari per equilibrare l'energia dei centri vitali intasati con quella cosmica.
L'appuntamento per tutti gli organizzatori era per il primo pomeriggio, anche perché l'evento sarebbe cominciato in teoria per le quattro. Alle quattro e quaranta, tolto il puntualissimo gruppo reiki, degli altri nessuna traccia. Le casse, lo strumento magico per creare il miracolo di “oltre l'orto...”, ancora parcheggiate dentro casa sound. Cosa ci vuoi fare. Fino alla fine sul filo di lana. Secondo una lontana tradizione del posto. Quando già inizia a arrivare la gente si comincia con la relativa calma l'opera di trasformazione. Nell'attesa va bene pure un vecchio stereo portatile preso dalla palestra dal costa. Quanto basta per diffondere vecchie arie di blues elettrico. Alla fine arrivano tutti. Per ultimo jimmi l'esperto del suono. Senza pensare ad altro ci si mette all'opera. Si stendono i fili tutto intorno, si collegano le tredici casse posizionate in serie una dietro l'altra lungo il perimetro, sotto i bancali per inondare di suoni l'atmosfera con naturalezza. Alle sei in punto tutte le casse sono collegate non senza aver prima dovuto risolvere una serie infinita di problemi tecnici contingenti. Per chi ha lavorato di forbici e cacciavite è già un miracolo essere riusciti a tanto. Un'impresa all'apparenza disperata. Eppure vuoi per l'aiuto degli amici, vuoi per l'esperienza di jimmi, non senza fortuna il miracolo si compie. Ora la prova della verità. Un attimo di silenzio. Vai con il volume. Voilà la musica mixata da jaba ad avvolgere i presenti dal basso, di lato con la stessa fragranza del cottonfioc. La stessa sensazione di quando si accende la televisione. Un nuovo mondo all'improvviso come se tutto quanto prima non fosse mai stato. Un miraggio condiviso. Una visione per un giorno. Un universo sorto dall'intento comune di far emergere qualcosa di bello prima di sottrarsi di nuovo a fine serata nell'oscurità, nel silenzio. Per nascondersi ancora in qualche luogo arcano in attesa di manifestarsi ancora sotto nuove forme.
Intanto però le vecchie sedie arrugginite, i tavoli di legno consunti, i banconi della mensa prendono vita, si animano di luce. Una leggera vibrazione attraversa tutti. Le ragazze di tessuto mettono a disposizione i cibi cucinati in casa. Si prepara al volo le tisane di salvia, rosmarino, finocchio selvatico. Si riempono i bicchieri con lo sciroppo di sambuco, il caffè d'orzo della zia anita. Si mescolano animosamente i dieci litri di sangria nel pentolone.
Mezzanotte.
Come d'incanto si chiude il sipario.
La gente lascia lentamente il palcoscenico.
Si spera più felici di prima.
Si spengono le luci, la musica.
A un tratto gli oggetti tornano nell'oscurità, le panche a essere solo vecchi pezzi di legno tarlato. Le poche persone che restano si confondono con la tappezzeria del posto.
Da fuori solo il rumore sordo delle ruote sull'asfalto a rompere il silenzio sottile piombato all'improvviso.



martedì 19 maggio 2015

Un forno impossibile o il teatro delle celebrazioni

Lo avevano concepito in inverno.
Un'idea semplice.
Fare il pane con gli amici.
Autoproduzione come oggi si sente spesso dire.
Non solo.
A muoverli un certo fascino per il fuoco.
Uno dei quattro elementi fluidi insieme all'acqua, l'aria e la terra. Per il suo potere di trasformazione.
Vi va di costruire un forno a legna?
Stavamo pensando la stessa cosa.
Occhei. Facciamolo.
A natale scesero tutti a campobasso.
Per quasi una settimana studiarono il modo.
Poi un giorno ecco il progetto prendere corpo.
Anche perché come un'idea contagiosa tutti intorno a loro si erano fatti in quattro per renderlo possibile a partire dalla ricerca delle materie prime.
Una mattina presto dentro il garage del nonno vincenzo, le vecchie e le nuove generazioni decisero di mettersi all'opera.
Esperienza da vendere unita al vitalismo, alla spensieratezza senza tempo. Ora dopo ora il forno cominciava a prendere forma sopra un carrello industriale a tre ruote arrivato lì in qualche modo.
Già questo venne percepito come un piccolo miracolo.
Ma senza immaginarlo si era solo all'inizio.
Il problema ora era dove portarlo.
Vari tentativi in alcuni centri sociali, associazioni culturali.
Senza mai trovare la quadratura del cerchio.
Poi un giorno l'intuizione giusta.
Camere d'aria.
Lo spazio dei laboratori partot, del festival della zuppa.
Un po' fuori dal centro.
Quanto basta per non essere sopraffatti dal caos cittadino, dalla frenesia contagiosa degli studenti. La distanza giusta per vedere le cose con distacco, lì a un passo dai binari della ferrovia, barriera insormontabile ma anche punto di fuga verso l'infinito.
A vegliare in silenzio sopra tutto santa rita da cascia la patrona del quartiere, la santa dell'impossibile manco a dirlo.
Trovato il posto ora bisognava capire come spostare il forno a ruote di cinquecento chilometri. Un carretto mobile si fa per dire di più di mille chili.
Senza mai un dubbio.
Con una certezza cieca di riuscire.
Tutto il prestigio di una vita, le conoscenze giuste del nonno vincenzo per trovare un camion diretto a nord.
Ma non bastava.
Una volta arrivato come scaricarlo a destinazione?
Niente paura. Ecco comparire dal nulla branco un rom bosniaco. Lui non abita nei campi ma in una casa con la famiglia. Per vivere raccoglie ferro vecchio con il suo furgoncino munito di gru.
È lui a prendersi l'onere di sollevare il forno per poggiarlo nel giardino di camere d'aria.
Più facile a dirsi.
Anche perché del forno si era vista solo qualche immagine digitale.
Alla fine il grande giorno era giunto!
La mattina dopo averlo sistemato nel retro del camion con un muletto era partito in direzione nord.
Lo si aspettava per sera.
Verso il tramonto.
Fino a allora tutti in trepidazione.
Un giro di voce per mettere insieme braccia robuste e intelligenti. Non si sa mai.
L'appuntamento fuori l'uscita della tangenziale.
Alla fine ci si trova un poco più in là lungo la rotonda sotto la tangenziale a un passo da via massarenti.
Un camion, meglio un tir con rimorchio tutto bianco.
Mastodontico.
Oltre ogni aspettativa.
Sorpresi da tanto si va verso camere d'aria passando per viuzze strette. Via guelfa la destinazione. Un via costruita per andarci a cavallo in carrozza non certo per lanciare i 1000 cavalli ruggenti tenuti a freno sotto l'acceleratore.
Branco con il camioncino è già a camere d'aria.
Non senza difficoltà arriviamo a destinazione.
La strada antistante viene completamente saturata dal camion.
Il traffico bloccato.
Impossibile realizzare l'intento lì.
Non c'è abbastanza spazio.
Dall'alto della sua esperienza tiziano, il camionista dà la soluzione.
Cercare uno spazio aperto dove caricare il forno sul camioncino di branco.
Per uscire da quel buco una curva a novanta gradi.
Le macchine parcheggiate a stringere la carreggiata.
Si sfiorano gli specchietti retrovisori.
La velocità quella di una lumaca.
Come pensare di passare tra calli e canali con un transatlantico.
Alla fine riusciamo a prendere il largo.
Con branco in testa usciamo dal centro abitato.
Ora il motore può ruggire tutta la potenza fino allora frenata.
Giunti in un grande parcheggio i due mezzi si affiancano.
La stessa manovra di una piccola astronave in procinto di attraccare sull'astronave madre.
Tiziano dopo aver visto i mezzi a disposizione sembra sconfortato. Non dice nulla. Lo si vede chiaramente. Nessuno osa dire una parola. L'aria è sospesa. La tensione a mille.
Non c'è tempo di fare previsioni.
Si può solo agire incrociando le dita.
O la va o la spacca.
Tertium non datur.
Tiziano si muove sul camion come una scimmia.
Salta da tutte le parti, si arrampica fino al soffitto.
Tocca bottoni per aprire il tetto.
Scioglie nodi per liberare il forno dai lacci.
Ora tocca a branco.
Dopo aver avvolto in fasce il forno, averlo assicurate al gancio del braccio meccanico sale in sella alla gru.
Nessuno batte ciglia.
Tanta la souspance.
Il motore sotto sforzo fa la voce grossa.
Sbuffa come un toro legato al palo.
Per il peso il camioncino oscilla paurosamente.
Tutto è in tensione.
Uno sforzo di troppo potrebbe innescare reazioni imprevedibili.
Meglio stare distanti.
Non si sa mai.
Il forno alla fine si solleva leggermente.
Quasi incollato a una calamita.
Un ulteriore colpo all'acceleratore.
Preso per le corna il toro alla fine molla la presa.
Non senza rumori sinistri.
Un attimo di sospensione in aria.
Poi lentamente si accovaccia dentro la pancia vuota del camioncino schiacciandolo a terra.
Metà lavoro è fatta.
Per difenderlo dalle forze centrifughe si decide di lasciare la gru con i cavi in tensione.
Moh bisogna spostarlo più lentamente possibile in direzione di camere d'aria.
Metro dopo metro la meta si avvicina.
L'ostacolo più grosso un passaggio a livello.
I fili elettrici a una spanna dalla sommità della gru. Ce la farà? Tutti a trattenere il respiro. Dentro una fiducia irreale. Oltre ogni ragionevolezza. Questioni di centimetri. Il camion passa. Salvata la pelle anche questa volta. Osare senza se, senza ma.
L'ulteriore prova i dissuasori del traffico.
Superati alla velocità di una formica.
Il freno tirato per annullare il dislivello senza danno.
Arriviamo a camere d'aria sulle ali dell'entusiasmo.
Niente sembra riuscire a fermare l'allegra brigata.
Branco branco, leò leò.
Con meno patemi si sposta il forno nel suo luogo naturale di fianco al muro dell'edificio. Non prima di aver dovuto superare la recensione alta un paio di metri. Come un salto in alto prima di atterrare sull'erba morbida.
Anche stavolta tanti i problemi da risolvere ma con la consapevolezza di averlo già fatto.
Alla fine tutti a guardare increduli il forno a terra.
Una cosa impensabile fino a pochi minuti prima.
La sensazione di aver partecipato a qualcosa di straordinario.
Un miracolo degno della santa dell'impossibile.
E non si pensi ai rom solo come ladri.
Le parole soddisfatte di branco.
Affaticati più per lo sforzo mentale a fronte di tanto eccesso, con lo stomaco vuoto è ora di terminare la serata in cucina.
A attenderci i resti della cena della sera prima.
Finalmente un po' di pace.
Seduti sul terrazzo all'aperto a rivivere quei momenti impressi a fuoco sulla retina. Un vertice esperienziale difficile da descrivere a parole, da riuscire a comunicare ai più.

sabato 16 maggio 2015

Neverland

Per accedere all'isola che non c'è
bisogna staccarsi da terra.
Saper volare.
Andare oltre le apperenze
la sensibilità comune.
Non si tratta tanto di spostarsi in un luogo remoto,
in qualche spiaggia esotica
come qualcuno crede.
E' lì a portata di mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un mondo apparirà.
Di una luce, una completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo

venerdì 13 marzo 2015

Byrdman 2

Una vita allo specchio.
La caduta dal paradiso sembrerebbe quella di essere entrati nel mondo della dualità, dell'immagine riflessa, del giudizio dell'altro, il dover essere secondo il proprio ideale, gli altri, la società. Tutto ciò per nutrire la propria presunzione, hybris.
Il teatro, ma più in generale la città, il luogo labirintico, claustrofobico della mente dove si gioca il ruolo del soggetto rappresentato. Sia nella scena ma soprattutto dietro le quinte, nel camerino, al bar, per strada. È lì che la “macchina antropologica” lavora sotterraneamente nella costruzione delle parti, nell'identificazione ripetuta dei ruoli fino a incarnarli profondamente. Luogo eminente dello specchio. Sottolineato dalla presenza costante degli specchi. Sia reali nel camerino dove guardarsi, identificarsi in un ruolo, sia simbolici come il volto dell'amata o la critica, il pubblico durante la rappresentazione per sedurli con il proprio fare.
La vera battaglia non è tanto quella di convincere di essere autorevoli, di crearsi un prestigio, quanto uscire da quella macchina diabolica nel senso letterale di macchina della divisione, della scissione tra la vita e la conoscenza e della riarticolazione delle parti. I frammenti da riassemblare, mettere insieme all'infinito. Uno sforzo pari a quello di Sisifo.
Aprire una finestra verso l'ignoto l'unico modo reale di trovare la via della libertà.
Dal punto di vista formale la continuità della vita prima e dopo l'incidente, Un piano sequenza ininterrotto. Il rullo dei tamburi gli accenti emotivi a colorare la continuità. In mezzo c'è il suicidio tentato poi il sonno, il coma. Un momento di sospensione dove trovare pace, un insieme di immagini discontinue, fino a arrivare a vedere le stelle, la luce. Ma non è ancora tempo. La morte non è stata perfetta. Giù allora gettati di nuovo a incarnare una nuova “vita”. Al punto che tra il prima e il dopo lo stesso personaggio sembra irriconoscibile, direi un altro attore, sottolineato dalla tumefazione tra occhi e orecchio come una maschera nera a nasconderlo ancora come una foglia di fico.

lunedì 2 marzo 2015

Byrdman

Birdman come il nome dice è l'uomo uccello.
Suo anelito quello di volare, vincere la gravità.
Per tomshon l'aver interpretato il ruolo di super eroe a hollywood non basta più. Là si gioca ancora con la finzione, si fa cinema d'intrattenimento.
A teatro invece tutta un'altra musica.
In attesa della prima.
Il punto di collasso dove la vita reale coincide con il copione trasfigurandosi.
Teatro di vita dove si mette in scena la verità, se stessi a nudo.
E non si gioca più.
All in.
Tutta la personale reputazione, il prestigio, per non parlare del denaro, ma ancor più la propria vita sul piatto.
Si può vincere o perdere tutto.
La sfida è comunque di superare il limite.
Quel confine tra la dura verità quotidiana e i propri sogni.
Il premio il salto.
Per sanare quella schizofrenia delirante tra desiderio e realtà.
Con essa bisogna fare i conti.
Per ottenere tale risultato bisogna riuscire a far andare ogni cosa a tempo debito, controllare le proprie emozioni, gli imprevisti, le idiosincrasie degli attori presenti. La macchina teatrale come una macchina alchemica per funzionare a puntino deve essere perfetta. Ogni tassello da tutto il suo contributo fondamentale. Spendendosi fino all'ultima goccia. Una gara di resistenza a oltranza. Uno sforzo immane. Basta un comportamento automatico agito all'improvviso per far saltare tutto. Ecco allora uno scatto d'ira, di gelosia sottolineati dal rullo dei tamburi. Per evidenziare la deriva macchinica involontaria di ogni personaggio. La catena di risposte automatiche incontrollabili. Un niente per far saltare tutto. Via allora dentro il camerino o qualsiasi altro posto intimo solitario come la ringhiera di un terrazzo a un passo dal vuoto. Il luogo purificatore dove ci si ricostruisce, si trova un equilibrio precario, si mette limiti per ripartire, per superare le crisi d'identità.
In ogni caso dopo lo spettacolo niente sarà come prima.
Perché ogni volta si muore per rinascere ancora.
La speranza quella di spiccare il volo per sempre, non cadere giù di nuovo.
Si vorrebbe essere solo l'eroe invincibile con tanto di poteri.
Triste il risveglio.
Dopo aver toccato il cielo con un dito ci si sveglia nel letto di un ospedale.
Con una nuova maschera, un nuovo volto.
Un attimo per riconoscersi davanti allo specchio per una ulteriore identificazione narcisistica. Il passo necessario per ricominciare un nuovo copione, un'ulteriore storia.
L'alchimia di saltare nella nuova dimensione non ha funzionato.
Il ciclo delle incarnazioni fa il suo giro.
Basta solo averne la coscienza per spezzarlo.
Non giocare più.
Prendere il volo dalla finestra.
L'ultimo atto liberatorio.
Comunque niente di nuovo.
Già edipo, la tragedia greca avevano detto tutto al riguardo.

lunedì 23 febbraio 2015

L'ultimo volo

Una grossa cavalletta comune.
In silenzio.
Per una settimana.
Attaccata a un infisso.
Alla vita.
Inutile il tentativo di spostarsi lentamente in alto.
Un giorno qualunque è caduta giù.
Per terra.
Vinta dalla gravità
Gli ultimi istanti sul pavimento.
Immobile.
Poi piegata di fianco.
Di colpo.
Senza dire nulla.
Un altro passo verso il baratro.
Ma non ancora.
Una lunga matita scesa dal cielo.
La forza ancora di aggrapparsi con tutta se stessa.
Per stramazzare ancora.
Rigida per sempre.
Senza vibrare più.
Solo riflessi automatici delle miofibrille.
Per confermare la sua natura macchinica.
Poi neanche più quello.

martedì 20 gennaio 2015

Una questione di ritmo

Da qualche parte si era deciso il loro incontro.
Anche se non c'era la certezza.
Tante cose dovevano concatenarsi insieme perché succedesse.
Anche quel giorno il sole si era alzato presto.
L'aria era calda.
Quanto bastava per sgranchire le miofibrille.
Fatto capolino dal solito rifugio aveva ripreso a volare ronzando. Un suono così familiare da non sentirlo più. A colpirla invece una strana melodia lontana, una vibrazione bassa ripetuta come un mantra.
Lo stesso giorno rintanato nel solito buco aspettava. Con la luce o con il buio non faceva molta differenza. Da mesi era in attesa. Nel frattempo con tanta pazienza aveva tessuto quel tappeto delicato illuminato la mattina dalle gocce della rugiada attraversate dai primi raggi di sole. Non era molto grande. Quanto bastava per accogliere gli ospiti. Come ogni giorno immobile da un lato pizzicava le corde con sapienza per produrre una vibrazione armonica la più ammaliante. In molti si erano avvicinati per ascoltarla. Qualcuno ogni tanto si faceva avanti. Allora era festa grande.
Mentre volava spensierata quel suono si faceva sempre più presente. Al punto da catturare tutta la sua attenzione. Come attirata da un magnete non riusciva più a filare diritta. Quasi dimentica della meta aveva cominciato a disegnare traiettorie ondivaghe. Come fosse ubriaca. Più si avvicinava più quella musica la conquistava. Da lontano sembrava stesse danzando. Le veniva naturale di muovere il corpo sinuosamente chiudendo gli ocelli. Un giro, un altro ancora. Una picchiata verso terra. Poi a tutta birra verso il cielo. Passo dopo passo stava per arrivare alla fonte di quel suono meraviglioso. Tanto più si avvicinava tanto più le note venivano naturali al suo partner. Entrambi in trance, l'una per il suono, l'altro per la visione di quella danza erano alla ricerca del ritmo perfetto. Quello in grado di accordare pienamente i loro mondi fino al punto di farli coincidere.
Poi di colpo la danza si fermò.
Impossibile muovere le ali.
Come si fossero appiccicate a qualcosa di vischioso.
Ancora in preda a quella frenesia non capiva cosa stava succedendo. Tanta la voglia di ballare ancora.
A un certo punto la musica si arrestò.
Al suo posto solo battiti frenetici di passi in avvicinamento.
Il tappeto sottile dove si era fermata cominciò a ondeggiare paurosamente. Alla fine come previsto si incontrarono.

domenica 18 gennaio 2015

Congedo où les enfants du paradis

Le parole e le cose.
Parole, note, immagini, luoghi svuotati di senso.
Senza più cercare un mondo.
Pensare di averlo sopportato fino a allora la grande sfida, illusione.
Manierismo puro.
L'unica seria possibilità ancora.
Uscire dalla storia.
Senza negarla.
Solo svuotandola da dentro per pienezza.
Lasciandola essere.
La scrittura, la canzone perfette.
Perfettamente inutili.
Inconsistenti.
Con i segni evidenti delle microcrepe sparse dappertutto.
Oltre ogni scrittura del senso.
Autodisgregazione della pagina bianca.
Come don chichotte fa con lo schermo del cinema brandendo la spada nella rievocazione di welles.
Rimane un misto tra ilarità spiazzante e l'ennesima possibilità.
Sapendo questa volta di stare giocando solo col niente, il vuoto da sempre sullo sfondo.
Resta solo la contemplazione pura di una potenza (in questo caso romantica) agita senza altri fini.
Una rievocazione con letizia, con il sorriso sulle labbra.
Come se si stesse rivedendo tutta la vita passata oramai abbandonata però senza formulare giudizi. Osservandola da un altro livello. Nuove vie di fuga vissute, tracciate, create.
In ogni caso niente a che vedere con la nostalgia.
Solo un guardare bonario, pacificato quel passato lasciato essere senza più interrogarlo, indagarlo.
La stessa visione di chi dal paradiso gettasse per un attimo lo sguardo giù nella creazione.
Operazione questa nettamente distinta dalla rievocazione trash.
In quanto libera dalla pulsione di trasgressione, dalla legge del piacere, dal desiderio orgiastico affaccendato a triturare, profanare, desadizzare ogni cosa secondo i propri fini edonistici di transvalutazione. Niente letizia, al massimo un agire consapevole, condiviso, democratico nello scambio dei ruoli quando va bene.
Anche nel congedo si tratta di profanare, liberare tale livello dalla dimensione sacra trascendente per lasciarlo essere pacificamente, rispettosamente. Senza interrogarlo, agirlo ancora secondo una logica economica del valore transvalutato, ricodificato. Tutto è compiuto, realizzato, perfetto senza bisogno di replica. Certo sempre possibile la ricaduta, il rimescolare le carte, la riterritorializzazione. Ma questa è un'altra storia.


Tu sei la luce

mercoledì 7 gennaio 2015

Margini

Da un po' di giorni andava alla ferrovia.
Anche perché c'era un sole insolito per la stagione.
Nel corso degli anni i confini della no man's land si erano fatti ancora più stretti. La città continuava a inglobare nuove fasce di terra prima abitate solo da ratti, senzatetto, clandestini.
Pure le nutrie del canale avevano dovuto fare i bagagli per spostarsi un po' più a valle.
Restava solo quella fascia desolata percorsa da linee ferrate arrugginite raramente in uso.
Altri prima di lui avevano scavalcato la rete, percorso quei sentieri di mattoni in cemento. A testimoniarlo bottiglie vuote, scarpe rotte, vestiti abbandonati.
Da un lato la città, meglio i confini abitati. Dall'altro il CNR, il nuovo polo scientifico in procinto di essere ultimato. Due grossi edifici in muratura rossa ai lati del canale dalle linee possenti. Non senza il vezzo di qualche fuga spiraliforme giusto per ostentare qualcosa.
Lungo il camminamento in cemento tante mattonelle fuori posto. Dentro le canaline i fili elettrici a nudo.
Un saltello e via per continuare il viaggio lungo i binari.
A un certo punto una pietra sistemata al contrario.
Un segno?
La sollevò.
Sotto solo la pelle secca di una biscia.
La tana di muta di una nuova rinascita.
Da alcuni giorni era solito fermarsi a prendere il sole in una di quelle case di manovra a fianco della ferrovia nei posti di snodo.
Per arrivarci bisognava superare il ponte.
Il punto più stretto, il più alto.
Da li sopra si poteva vedere un insolito panorama.
Sotto il canale ridotto a una strisciolina scura ondulata.
Sullo sfondo la città con i suoi palazzi disordinati.
Dall'altro lato la periferia.
Scampoli di campi coltivati a tappezzare gli spazi vuoti tra centri commerciali, capannoni industriali fatiscenti. Un miscuglio confuso di realtà poco conciliabili.
Anche quel giorno prima di passare si assicurò di non vedere nessun treno merci all'orizzonte. Gli unici a solcare ancora quella tratta. Si buttò sul fianco destro del ponte, poi superatolo riprese il sentiero in cemento tracciato a fianco dei binari fino a arrivare a destinazione.
I mattoni rossi della parete erano già caldi.
Il posto ideale per attutire la temperatura nonostante tutto invernale.
Quel giorno si fermò più del solito.
Fino a allora non aveva mai visto nessuno.
Solo tracce di vita randagia qua e là.
Un suono improvviso di frasche mosse lungo il greppo.
Il fumo da una capanna improvvisata in legno e lamiera nascosta tra la vegetazione.
Le voci riverberate dal campo rom non troppo distante.
L'accelerazione di una macchina nella strada secondaria sottostante.
Su tutto il rumore di fondo della città.
A un certo punto la sua attenzione fu catturata dal movimento rapido di un'ombra nera all'orizzonte. Pochi passi veloci per attraversare i binari prima di scomparire nella casa di manovra lì poco lontano.
Dopo un po' dei rumori di sassi calpestati dalla parte opposta.
Un signore con una giacca a vento verde militare.
Ha appena superato il ponte.
Lentamente va dalla sua parte.
Lo vede.
Rallenta vistosamente.
Attraversa indeciso la ferrovia.
Per scomparire da dov'era venuto.
Forse si dirigeva proprio là.
Per sedersi su quella pietra fatta a posta per prendere il sole.
Difficile saperlo.
Con sua sorpresa quei posti all'apparenza deserti erano invece abitati da un'umanità schiva poco incline a lasciarsi inquadrare. Abituata a vivere nell'ombra, lontano più possibile da un certo uomo “civilizzato”.