martedì 20 gennaio 2015

Una questione di ritmo

Da qualche parte si era deciso il loro incontro.
Anche se non c'era la certezza.
Tante cose dovevano concatenarsi insieme perché succedesse.
Anche quel giorno il sole si era alzato presto.
L'aria era calda.
Quanto bastava per sgranchire le miofibrille.
Fatto capolino dal solito rifugio aveva ripreso a volare ronzando. Un suono così familiare da non sentirlo più. A colpirla invece una strana melodia lontana, una vibrazione bassa ripetuta come un mantra.
Lo stesso giorno rintanato nel solito buco aspettava. Con la luce o con il buio non faceva molta differenza. Da mesi era in attesa. Nel frattempo con tanta pazienza aveva tessuto quel tappeto delicato illuminato la mattina dalle gocce della rugiada attraversate dai primi raggi di sole. Non era molto grande. Quanto bastava per accogliere gli ospiti. Come ogni giorno immobile da un lato pizzicava le corde con sapienza per produrre una vibrazione armonica la più ammaliante. In molti si erano avvicinati per ascoltarla. Qualcuno ogni tanto si faceva avanti. Allora era festa grande.
Mentre volava spensierata quel suono si faceva sempre più presente. Al punto da catturare tutta la sua attenzione. Come attirata da un magnete non riusciva più a filare diritta. Quasi dimentica della meta aveva cominciato a disegnare traiettorie ondivaghe. Come fosse ubriaca. Più si avvicinava più quella musica la conquistava. Da lontano sembrava stesse danzando. Le veniva naturale di muovere il corpo sinuosamente chiudendo gli ocelli. Un giro, un altro ancora. Una picchiata verso terra. Poi a tutta birra verso il cielo. Passo dopo passo stava per arrivare alla fonte di quel suono meraviglioso. Tanto più si avvicinava tanto più le note venivano naturali al suo partner. Entrambi in trance, l'una per il suono, l'altro per la visione di quella danza erano alla ricerca del ritmo perfetto. Quello in grado di accordare pienamente i loro mondi fino al punto di farli coincidere.
Poi di colpo la danza si fermò.
Impossibile muovere le ali.
Come si fossero appiccicate a qualcosa di vischioso.
Ancora in preda a quella frenesia non capiva cosa stava succedendo. Tanta la voglia di ballare ancora.
A un certo punto la musica si arrestò.
Al suo posto solo battiti frenetici di passi in avvicinamento.
Il tappeto sottile dove si era fermata cominciò a ondeggiare paurosamente. Alla fine come previsto si incontrarono.

domenica 18 gennaio 2015

Congedo où les enfants du paradis

Le parole e le cose.
Parole, note, immagini, luoghi svuotati di senso.
Senza più cercare un mondo.
Pensare di averlo sopportato fino a allora la grande sfida, illusione.
Manierismo puro.
L'unica seria possibilità ancora.
Uscire dalla storia.
Senza negarla.
Solo svuotandola da dentro per pienezza.
Lasciandola essere.
La scrittura, la canzone perfette.
Perfettamente inutili.
Inconsistenti.
Con i segni evidenti delle microcrepe sparse dappertutto.
Oltre ogni scrittura del senso.
Autodisgregazione della pagina bianca.
Come don chichotte fa con lo schermo del cinema brandendo la spada nella rievocazione di welles.
Rimane un misto tra ilarità spiazzante e l'ennesima possibilità.
Sapendo questa volta di stare giocando solo col niente, il vuoto da sempre sullo sfondo.
Resta solo la contemplazione pura di una potenza (in questo caso romantica) agita senza altri fini.
Una rievocazione con letizia, con il sorriso sulle labbra.
Come se si stesse rivedendo tutta la vita passata oramai abbandonata però senza formulare giudizi. Osservandola da un altro livello. Nuove vie di fuga vissute, tracciate, create.
In ogni caso niente a che vedere con la nostalgia.
Solo un guardare bonario, pacificato quel passato lasciato essere senza più interrogarlo, indagarlo.
La stessa visione di chi dal paradiso gettasse per un attimo lo sguardo giù nella creazione.
Operazione questa nettamente distinta dalla rievocazione trash.
In quanto libera dalla pulsione di trasgressione, dalla legge del piacere, dal desiderio orgiastico affaccendato a triturare, profanare, desadizzare ogni cosa secondo i propri fini edonistici di transvalutazione. Niente letizia, al massimo un agire consapevole, condiviso, democratico nello scambio dei ruoli quando va bene.
Anche nel congedo si tratta di profanare, liberare tale livello dalla dimensione sacra trascendente per lasciarlo essere pacificamente, rispettosamente. Senza interrogarlo, agirlo ancora secondo una logica economica del valore transvalutato, ricodificato. Tutto è compiuto, realizzato, perfetto senza bisogno di replica. Certo sempre possibile la ricaduta, il rimescolare le carte, la riterritorializzazione. Ma questa è un'altra storia.


Tu sei la luce

mercoledì 7 gennaio 2015

Margini

Da un po' di giorni andava alla ferrovia.
Anche perché c'era un sole insolito per la stagione.
Nel corso degli anni i confini della no man's land si erano fatti ancora più stretti. La città continuava a inglobare nuove fasce di terra prima abitate solo da ratti, senzatetto, clandestini.
Pure le nutrie del canale avevano dovuto fare i bagagli per spostarsi un po' più a valle.
Restava solo quella fascia desolata percorsa da linee ferrate arrugginite raramente in uso.
Altri prima di lui avevano scavalcato la rete, percorso quei sentieri di mattoni in cemento. A testimoniarlo bottiglie vuote, scarpe rotte, vestiti abbandonati.
Da un lato la città, meglio i confini abitati. Dall'altro il CNR, il nuovo polo scientifico in procinto di essere ultimato. Due grossi edifici in muratura rossa ai lati del canale dalle linee possenti. Non senza il vezzo di qualche fuga spiraliforme giusto per ostentare qualcosa.
Lungo il camminamento in cemento tante mattonelle fuori posto. Dentro le canaline i fili elettrici a nudo.
Un saltello e via per continuare il viaggio lungo i binari.
A un certo punto una pietra sistemata al contrario.
Un segno?
La sollevò.
Sotto solo la pelle secca di una biscia.
La tana di muta di una nuova rinascita.
Da alcuni giorni era solito fermarsi a prendere il sole in una di quelle case di manovra a fianco della ferrovia nei posti di snodo.
Per arrivarci bisognava superare il ponte.
Il punto più stretto, il più alto.
Da li sopra si poteva vedere un insolito panorama.
Sotto il canale ridotto a una strisciolina scura ondulata.
Sullo sfondo la città con i suoi palazzi disordinati.
Dall'altro lato la periferia.
Scampoli di campi coltivati a tappezzare gli spazi vuoti tra centri commerciali, capannoni industriali fatiscenti. Un miscuglio confuso di realtà poco conciliabili.
Anche quel giorno prima di passare si assicurò di non vedere nessun treno merci all'orizzonte. Gli unici a solcare ancora quella tratta. Si buttò sul fianco destro del ponte, poi superatolo riprese il sentiero in cemento tracciato a fianco dei binari fino a arrivare a destinazione.
I mattoni rossi della parete erano già caldi.
Il posto ideale per attutire la temperatura nonostante tutto invernale.
Quel giorno si fermò più del solito.
Fino a allora non aveva mai visto nessuno.
Solo tracce di vita randagia qua e là.
Un suono improvviso di frasche mosse lungo il greppo.
Il fumo da una capanna improvvisata in legno e lamiera nascosta tra la vegetazione.
Le voci riverberate dal campo rom non troppo distante.
L'accelerazione di una macchina nella strada secondaria sottostante.
Su tutto il rumore di fondo della città.
A un certo punto la sua attenzione fu catturata dal movimento rapido di un'ombra nera all'orizzonte. Pochi passi veloci per attraversare i binari prima di scomparire nella casa di manovra lì poco lontano.
Dopo un po' dei rumori di sassi calpestati dalla parte opposta.
Un signore con una giacca a vento verde militare.
Ha appena superato il ponte.
Lentamente va dalla sua parte.
Lo vede.
Rallenta vistosamente.
Attraversa indeciso la ferrovia.
Per scomparire da dov'era venuto.
Forse si dirigeva proprio là.
Per sedersi su quella pietra fatta a posta per prendere il sole.
Difficile saperlo.
Con sua sorpresa quei posti all'apparenza deserti erano invece abitati da un'umanità schiva poco incline a lasciarsi inquadrare. Abituata a vivere nell'ombra, lontano più possibile da un certo uomo “civilizzato”.