lunedì 28 novembre 2011

Corpo celeste

Eclissato l'universo maschile tra le dune delle canarie, in un casolare di campagna vicino ma non abbastanza, dentro un negozio di bici, impantanato in interminabili questioni tecniche mortali come la noia, rimane solo il femminile.
Un universo parallelo alieno distante all'infinito.
Irriducibile, imprendibile.
Si può solo fingere per provare a stare insieme, per accordarsi un po'. Non senza aver fatto prima i conti con la propria follia. Senza chiedere troppo, dire più del necessario, travisando sempre con ironia delle verità implosive. Solo così si può convivere con quel mondo di carne fantastica, celeste. Perso tra pianeti e costellazioni astrali, tra spiriti della notte e presenze spettrali, secondo i tempi mistici delle coincidenze, del fato. Giocando seriamente(?) tutto (!?). In vista dell'incontro con l'altro. Incontro affatto intellettuale. Solo carnale. Sebbene il più metafisico, impossibile. Assecondando il mistero della carne nuda, la medicina contro ogni male. La sua mancanza un tarlo corrosivo, soffocante. Una castrazione infinita. Solo donandosi all'altro la si può percepire di riflesso quanto basta per riempire il buco. Allora si trova pace. Per una frazione di tempo.
Oltre il banale porno...
Forse è solo porno celeste...
Il più metafisico e carnale allo stesso tempo.
Quasi un esorcismo.
Fiumi di parole per agire sempre allo stesso modo, per nascondere quella voglia atavica dell'altro, del suo corpo, dei suoi organi, delle superfici morbide da accarezzare, mordere, baciare, dei suoi odori forti, dei suoi liquidi vivi. Sospese in attesa del viandante solitario di turno, bisognoso complicemente di un giaciglio. Alimentando nel frattempo la fantasia, il desiderio. Non senza fare i conti con un sentimento di colpa severo capace di irretirle in una ricerca psicologica asfissiante quanto un processo infernale comunque inutile. Spesso basta l'incontro giusto per sgomberare il campo di incertezze... per farvi ritorno in breve... Un ciclo interminabile, uroboro sempre identico a se stesso. Nell'attesa illimitata di una risoluzione definitiva, dello scatenamento liberatorio. In preda a una nostalgia infinita per una perdita incommensurabile suturabile solo con l'Altro. Intanto, nella mancanza, meglio la pulizia periodica delle ragnatele. Tutto per raddrizzare non ho ancora capito bene cosa. Mai rilassate, paghe, oscure in volto, rivendicative con l'altro sesso mentre affilano le unghie. Tutto in proporzione all'età, allo svincolamento dalle gabbie sociali prefissate.
Alla fine sole, come tutti, come tutto.
Al massimo si può provare a condividere le personali esperienze, i propri amori impossibili, asfissianti.
Con ironia quando va bene.
Amiche incapaci di amicizia.
La comunità delle donne infelici a caccia di una soluzione immediata, assoluta.
Mosse da una forza dentro smisurata quanto la loro cecità.
Quanto la mia.

mercoledì 23 novembre 2011

Voodoo Sound

Quel giorno suonavano da Maurizio.
Un buco da aperitivo.
Tanto era piccolo da non starci tutti.
Così erano stati scremati su più piani.
In fondo la sala.
Attaccati alla parete con delle ventose come gechi.
Un miracolo di acrobazia averli incastrati tutti. Compreso il batterista con la batteria in formazione ridotta. Di fianco il basso, sopra il piccolissimo soppalco. A seguire il chitarrista allocato sulle scalette. Sotto ancora, circondato dal pubblico venuto apposta per loro, il frontman, cantante, tastierista, sassofonista...
Appiccicati l'un l'altro come sardine in scatola ci si sorreggeva a vicenda. Difficile, quasi impossibile raggiungere il bancone del bar infestato di corpi appoggiati come cozze patelle sullo scoglio.
Afrobeat il genere.
Musica dionisiaco orgiastica, però profonda, fatta bene, pure impegnata. Ma soprattutto danzereccia. Anche perché immediata nei rif, nelle melodie, nei ritmi neri voodoo in grado di possederti l'anima. Allora ci si lascia andare come marionette muovendo sinuosamente il corpo non senza eccitazione. Insieme, sfregandosi l'un l'altro. Rispondendo con il sorriso a sguardi complici.
Eppure quel giorno non erano partiti bene.
Troppa la fatica di cominciare la cerimonia. Per l'ennesima volta. Un rito infinito, all'apparenza sempre uguale. Difficile divertirsi se è lui a possederti totalmente...
Ma alla fine qualcosa era scattato.
Anhe quel giorno il miracolo si era compiuto, complice la pausa e la reprise.
Erano tornati trasformati.
Come avessero riposto nell'armadio le loro svogliate controfigure.
Si... ora li si riconosceva senza ombra di dubbio.
A dimostrarlo erano i bacini n'roll, le braccia dimenanti, gli occhi chiusi di piacere, le labbra premute delicatamente.
Di colpo era salita la temperatura.
C'era chi si svestiva mettendo a nudo le superfici sudate.
Anche i musicisti provati dallo sforzo erano in apnea.
Presto!
Acqua!
La gola del chitarrista aveva preso fuoco.
Una giovane ragazza in carne con un vestitino nero estivo scollato, lo sguardo vispo come un porto dove affogare per una notte, passa una bottiglia al chitarrista quasi offrisse se stessa. Impossibile rimanere indifferenti a tanta prodiga sensualità.
Come un coccodrillo immobile da tempo dietro un cespuglio, gli occhi del sassofonista si illuminano di botto per inseguire quel movimento leggiadro. Le labbra socchiuse prefigurano un piacere orgasmico. Tutto stando fermo, continuando a suonare come nulla fosse. Per la fiera affamata anche oggi è arrivato il lauto pasto. La vita nuda colta nell'istante del suo donarsi. Prima di vederla nascondersi ancora sotto strati di carne anonima, apatica quanto la superficie di un cadavere.

lunedì 21 novembre 2011

Deserto tartaro

Muoversi da naviganti solitari è sempre più difficile. Specie poi in quei luoghi di periferia dove l'ospite è l'eccezione. Comunque si tratta sempre di problemi di economia, di lavoro, di produzione di valore, di beni, di condivisione.
Una logica ferrea dello scambio, di cosa sia possibile permutare, mettere in comune secondo regole, tempi prestabiliti, si confronta, scontra contro una volontà di non essere inquadrato, poi inglobato all'interno di gabbie relazionali ordinate secondo la pratica del dono controdono obbligatori. Mai un fare qualcosa a perdere, per agire senza calcolo all'interno di rapporti poco commensurabili eppure possibili. A volte basterebbe dare la possibilità di essere al di là di un senso apparente, rassicurante.
Forse era solo il giorno storto.
Quando tutto precipita in fretta.
E non puoi farci nulla se non vedere ogni singolo piano del tuo mondo implodere su se stesso.
Velocemente.
A niente vale resistere.
Tutto frana inesorabilmente.
I tuoi ragionamenti non mi piacciono.
Se non ci fossi io a sostenere la baracca...
Tu prendi solo...
Il succo del discorso.
Ma poi ce l'hai la tessera per entrare?
No!
E bravo!
Neanche ci rispetti.
Non rispondo.
Esco.
Troppi i paletti i se e i ma frapposti.
Faccio terra bruciata.
L'inverno preme.
Anche questo porto andato.
Come sopravvivere qui in provincia.
Cosa inventarsi ancora.
Bandito per l'ennesima volta.
A torto o a ragione.
Chi se ne frega.
Amen.
Adieu.
Intanto dopo l'esorcismo uno spirito ramingo vaga nudo.
Fuori dal corpo sociale.
In attesa di rivestirsi ancora.
Al momento propizio.
Quando un nuovo ambiente meno ostile sarà pronto ad accoglierlo.
Almeno per un po'.
Aspettando primavera.

domenica 20 novembre 2011

Dinosauri

Non gli era rimasto molto.
Il suo carattere poco incline alla comunicazione, la naturale chiusura, l'introversione ne avevano fatto un animale poco sociale.
Ormai viveva quasi da solo. Non fosse per quelle due volte a settimana quando andava a trovare la moglie all'ospedale.
La sera stava in casa.
L'inverno aveva cominciato a farsi sentire.
Nella stanza al buio, coperto per resistere al freddo e all'umidità, guardava la televisione. L'unica apertura verso un mondo fosse anche il più artificiale e indifferente possibile.
Altro non era concesso.
Di più non poteva o voleva fare.
Anche la voce si era trasformata.
Non più avvezza a sfornare parole articolate in un discorso sensato, quando obbligato a rispondere emergeva tutta la ruggine accumulata. Prima di cominciare a parlare occorreva qualche colpo di tosse per oliare gli ingranaggi, per schiarire quel poco di voce rimasta.
In tanta solitudine a perdere gli era rimasta solo la moglie. Sebbene menomata di una parte di vita. Tra di loro era una gara a chi prima avrebbe restituito tutto.
Eppure nonostante gli innumerevoli acciacchi resistevano ancora. Come due dinosauri reduci da chissà quale cataclisma cosmico abbattutosi all'improvviso. In realtà lì da sempre a minacciare la loro esistenza precaria.
Da un po', quando la salutava all'ospedale, prima di andare via, la baciava in bocca. Con affetto. Lei sulla sedia a rotelle, lui chino verso di lei.
Da tempo non succedeva.
Forse non era mai accaduto.
Eppure a fronte di tanta mancanza anche il quasi niente assumeva un valore assoluto. Lasciate da parte le normali incomprensioni, le idiosincrasie basilari, quel rapporto si era colorato di un qualcosa di nuovo. Anche perché perso quello non ci sarebbe stato più nulla, più nessuno. A un passo da essere l'ultimo sopravvissuto di un'umanità in via di estinzione. Prossima a salutare per sempre questa terra nel silenzio più profondo. Senza aver lasciato alcuna traccia significativa.

giovedì 10 novembre 2011

Io sono la morte

In preda a furore impugno la chitarra.
Di studiare oggi non ce n'è.
L'ho già capito.
Comincio a suonare a caso.
Da solo.
Come uditori i vicini lontani, gli spiriti della casa, le suppellettili.
Il rituale ha inizio.
Seduto sulla sedia con la coperta di lana avvolta intorno al corpo, la chitarra accordata alla meno peggio, il plettro semirigido sulla destra.
Inizia lo strimpellio.
Deciso, secco, metallico.
Le corde violentate rispondono urlando rumore.
Intanto la voce si accorda al ritmo e strilla lenta...
Io sono la morte...
Io sono la morte...
Poi il giro di basso, il ritornello per ricominciare ancora...
Io sono la morte...
Io sono la morte...
All'infinito.
La frase partorita di getto pochi giorni fa, urlandola dentro.
Dopo averla vista scendere il viale del cimitero asciutta fino all'osso. Per fermarsi allo stop e guardare verso la mia direzione compiaciuta. Senza concedere lo sguardo coperto da occhiali con lenti rotonde come orbite colorate di azzurro psichedelico.
Dopo il giro della morte non fa più paura il passo ulteriore.
Io sono la morte!

martedì 1 novembre 2011

L'arte di arrangiarsi

Un ragazzo napoletano gira a vuoto disperato.
Ha una ruota in mano.
La deve aggiustare.
Ma non sa come.
Il cerchione è di una misura particolare.
Il copertone lo eccede di pochi millimetri.
Quanto basta per non stare incollato al cerchio lasciando intravedere la camera d'aria.
Impossibile gonfiarla senza farla esplodere.
I suoi occhi sono in preda all'ansia di non riuscire a completare l'opera, di fallire nei propri intenti basilari.
Partire con una bici con le ruote funzionanti.
Poi il resto si vedrà.
In tanta foga la soluzione più sorprendente, inaspettata.
Legare stretto il copertone al cerchio con delle fascette elastiche di plastica nera.
Senza parole.
Oltre qualsiasi logica immaginabile.
Un gesto creativo inaudito dettato dalla disperazione.
Geniale quanto disarmante.
Eppure alla fine inutile.
Il copertone non vuole saperne di stare attaccato alla ruota.
Seppure costretto a forza non si vuole adattare.
Come rincorrere una bolla d'aria.
Tanto più ti avvicini a lei, tanto più si sposta.
All'infinito!
La tensione cresce, così il senso della disfatta.
Le spalle basse, gli occhi tumefatti lucidi, le mani ai fianchi. La ruota ancora lì davanti come ostacolo insormontabile.
Destrutturato da tanto sforzo le parole escono a forza.
Come un bambino senza più certezze prova a chiedere appoggio ai vicini.
Prendetemi per mano, aiutatemi...
Dicono in silenzio i suoi occhi neri fissi verso il possibile soccorritore. Mentre solleva stupito i pezzi rotti del giocattolo in mano.
Alla fine sostenuto dai vicini una soluzione arriverà.
Rimane il gesto autentico.
Difficile da interpretare per chi ha già la soluzione bell'e pronta.
Un esempio mirabile dell'arte di arrangiarsi.
Degna di un napoletano verace.