venerdì 22 ottobre 2010

Bora lacrime

Hanno al massimo ventitre anni.
In superficie sono delicati.
Visi puliti, sbarbati.
Corpi non ancora sfondati dalla vita.
Stropicciati dalle rughe.
Però sono già vecchi.
Reduci anticipati.
Ben prima di diventare adulti.
Provo pena per loro.
Accumunati dallo stesso destino.
Almeno per ora.
Riusciranno a sopportarlo?
Sono cresciuti a pane e grunge.
Lo hanno incarnato fino in fondo.
Musicisti provetti.
Sono senza pubblico.
Oggi suonano al Gaudio.
Un locale arci lungo il viale della vittoria.
In uno stabile nuovo.
Anch'esso invecchiato precocemente.
Nel volgere di pochi mesi.
Sulla facciata ancora fresca di vernice si spalancano vetrine trasparenti dentro stanze vuote.
Gaudio, vittoria nomi senza senso.
Paradossali.
Inverosimili.
Non sono in molti.
Si contano già i dispersi.
Serrate le fila rimane un piccolo manipolo di disperarati.
Tommy, dei .cora., di fronte all'ennesimo schiaffo della vita ha provato a dissolversi fino all'osso.
Stava già in apnea.
Non poteva respirare l'aria che soffocava.
Il giro di vite successivo è stato rifiutare cibo avvelenato.
Al punto di scomparire quasi del tutto.
Sul volto risaltano solo gli occhi strabuzzati.
Comunicano incredulità, spiazzamento per la disumanità sperimentata.
La salute ne è stata danneggiata non poco.
La voce residuale fuoriuscita da polmoni non più abituati a accogliere l'aria non riesce a urlare come un tempo.
Dopo poco prevale la tosse per anossia.
Il suo corpo inconsistente è fragile.
Nonostante tutto ha mantenuto l'ironia.
La voglia di prendersi in giro.
Di scerzare con i suoi amici.
Prima di loro c'era Checco.
Un debutto da solista.
Dopo l'esperienza dei Solindo.
Il suo gruppo da sempre.
Incapaci di riflettere ancora i raggi del sole.
Comincia a cantare accompagnato dalla chitarra acustica.
Strofe cantautoriali grunge si intrecciano profondamente.
La tecnica è sopraffine.
La voce ispirata oltre la battuta.
Come di copione.
Lo aiuta Sté.
Il batterista dei .cora.
Da naufrago accudisce l'ennesimo sopravvissuto.
Seduto al suo fianco gli sorregge i testi.
Volta le pagine al momento giusto.
Segue con il dito le parole.
Come una mamma affettuosa con il pargolo.
Dopo tanto olocausto ci si può solo sostenere a vicenda.
Esibendo un amore profondo.
Sovversivo.
Irriducibile.
L'unico modo per ribellarsi alla vita.
Continuare a amarsi.
Disarmati.
Senza identificarsi con il carnefice.
Per non accettare regole spietate, assurde.
Provare invece a giocare a altro.
Interferendo.
Per dissimulare, sospendere, eludere qualsiasi logica perversa.
Hanno capito l'essenziale.
Non ho nulla da insegnare loro.
Una lezione di vita imprescindibile.
Checco finisce il primo pezzo.
Si presenta agli amici.
Gioca con l'identità dei suoi vecchi compagni sottrattisi per inseguire sirene.
Al secondo pezzo si rompe la corda.
Senza scomporsi, suona fino alla fine armonie infrante.
Tommy gli passa la chitarra elettrica.
Il suono è pulito, senza distorsioni.
Sa bene come tararla.
Si conoscono da una vita.
Da quando bambini avevano cominciato a suonare.
Non riproducevano le solite canzoncine spensierate.
Avevano fatto la gavetta con Twist.
Dei Korn.
Quaranta secondi di bava alla bocca di un animale ferito a morte, smarrito.
Si trovano al Ventaglio.
La notte.
Per suonare insieme gli Alice in Chains, i Pearl Jam, i Nirvana e quant'altro.
Con le loro ragazze.
Imbottiti di vodka.
Nascosti dietro le quinte del parco naturale a forma di teatro greco.
C'era pure una lapide dedicata al più metafisico degli scrittori italiani del novecento.
Calvino.
Li avevo conosciuti lì.
Una sera d'estate solitaria.
In quello spazio limite.
Dopo aver inseguito i loro echi sonori.
Intanto Checco sostituita la chitarra con quella elettrica di Tommy si ferma.
Sembra voler abbandonare.
No ragazzi.
Basta occupare altro tempo.
Suonate voi.
Lasciamo spazio ai .cora.
Va bene così.
Sostenuto dall'affetto dei suoi amici porta a termine altri due pezzi.
Poi si sospende definitivamente.
Fa spazio agli altri.
Sottraendosi.
Sottovoce.
In tutto il locale il tono è sommesso.
Nessuno si lascia contagiare dall'eccesso.
Sebbene sia sabato.
Ci si consola al massimo bevendo insieme il vino della casa.
Del buon verdicchio.
Offerto a soli sessanta centesimi al bicchiere.
Una piccola manna dal ciel...
No...
Semmai da chi già esangue non smette di accudire il proprio prossimo.
In questi tempi bui.

mercoledì 6 ottobre 2010

Acufeni grunge

Ci sono giorni in cui l'aria è più nitida del solito.
Accade soprattutto nei cambi di stagione.
Quando il tempo si fa variabile.
Mosse dal vento d'alta quota le nuvole si spostano repentine.
A volte può piovere.
Non dura molto.
Il sole va e viene.
I raggi hanno ancora la forza di scaldare la terra.
Non si sta male.
La luce ha una tonalità insolita.
Non c'è più l'afa, la calura, l'umidità estiva.
I contorni sono netti.
I colori accesi.
Gli spazi si dilatano a dismisura.
Per un attimo può capitare di vacillare.
Il vuoto non resiste.
Viene saturato dai suoni.
Tutto diventa udibile.
Il rumore d'acqua di una fontana lontana.
L'abbajare di un cane.
Le voci riverberate delle persone.
Da tutte le direzioni si accavallano frenetiche.
Senza soprapporsi.
Le distingui chiaramente.
Una a una.
Le più distanti arrivano basse con un eco.
Non sembrano umane.
Evocano qualcosa di spettrale, d'inquietante.
Un urlo si prolunga all'infinito.
Si stira a dismisura.
Per decadere imploso in se stesso.
Lentamente consuma tutte le tonalità discendenti.
Fino alla soglia dell'udibile.
Per la densità si appiccica addosso.
Non si scrolla più.
Anche stando lontani dal traffico, si riconosce il sibilo sordo delle auto.
Il vibrato basso, penetrante degli autobus arriva fin dentro la pancia.
Se si cammina per strada le cose non cambiano.
Si distinguono le voci dei passanti.
I sorrisi.
Le battute.
Il suono metallico delle suonerie.
I tacchi rimbombanti sull'asfalto.
Se ne vieni avvolti.
Non c'è spazio, luogo dove si è al riparo.
Dentro ci si smarrisce.
Una legione caotica, frammentaria prende il sopravvento.
Si vorrebbe trovare un po' di tranquillità.
Ci si sposta in una piazza, in un giardinetto.
Ma è inutile.
Non si può sfuggire.
Conviene fermarsi.
Braccati come una preda.
Alla mercè del colpitore di turno.
Resistere non serve.
Viene spontaneo chiudere gli occhi, le orecchie.
I suoni si amplificano.
Fino a penetrare dentro come il fischio di un trapano.
Paralizzati, si aspetta la fine.
In attesa di un mondo meno invadente.

Castagne sul fuoco

Rimaneva ancora molto per l'alba.
I presenti stavano immobili davanti al fuoco.
Un legno grosso piantato nel bidone lottava per non essere consumato.
Resisteva da più di un'ora.
Il suo destino era segnato.
Il fuoco lo aveva avvolto.
La stretta si faceva sempre più forte.
La base si stava annerendo.
Era cominciata lenta la trasformazione irreversibile verso il niente.
Insieme al fumo, alle particelle di cenere volatili si alzava lento l'ultimo grido.
Dopo l'iniziale scoppiettio, l'esplosione di frammenti impazziti, il processo aveva assunto ora un ritmo regolare.
I lamenti si erano tramutati in borbottii rassegnati.
Quella sera si era in allerta.
Lo spazio occupato, divenuto il luogo di riparo di tanti naufraghi senza più meta, era in pericolo.
Per l'ennesimo assedio strisciante di un sistema ferito perennemente in stato d'allarme.
Pronto a colpire alla cieca.
Di preferenza i più deboli.
Si trattava di superare anche questa situazione.
Tragica e imprevista.
Questioni di sopravvivenza.
Ma anche di salvaguardare con tutte le forze quel microcosmo sociale fuori da tutti gli schemi vigenti.
Lì non valeva la legge del più forte, del più seducente.
A contare era il consenso di tutti.
Quando non c'era, giù a discutere.
Piuttosto girando a vuoto.
Nell'attesa di una soluzione giusta.
In grado di superare le divergenze.
Roba da fantascienza sociale.
Certo non mancavano le incongruenze.
Non tutte le ciambelle riuscivano con il buco.
Si provava a apprendere dagli errori.
Per migliorare la volta successiva.
In tale diversità era venuto fuori il meglio.
Molti avevano conosciuto l'abisso.
Ma erano sopravvissuti.
La vita li aveva temperati a saper resistere alle condizioni peggiori.
Oltre agli autoctoni puri, il luogo era frequentato da occasionali visitatori.
Anche loro vi avevano trovato posto.
Molti venivano da scienze politiche.
C'era pure un professore di sociologia.
Altri erano mossi da intenti creativi.
C'era la scuola migranti.
La palestra con i corsi di yoga, box, tessuto.
Il gruppo del mercoledì.
Quelli del mercatino biologico.
I dj tecno.
E anche la ciclofficina.
In tale situazione d'emergenza era stata rischiesta pure la loro presenza.
Avevano accettato di buon grado.
Non si trattava di solidarietà.
Quanto di proteggere i propri spazi contro una normalizzazione tutto avvolgente, stritolante.
Si era diventati un'unica famiglia.
La più variegata, eterogenea possibile.
Si stava bene insieme.
Certo quel luogo non pretendeva di essere un paradiso.
Nessuno lo considerava tale.
Era casomai il migliore degli inferni possibili.
Tutti avrebbero venduto cara la pelle per quello spazio.
I raga della ciclo si erano dati appuntamento per mezzanotte di fronte all'alto cancello sbarrato.
La porta normale d'ingresso.
Volevano partecipare anche loro.
Non erano in tanti.
Non importava.
Valeva solo esserci.
Dentro il castello assediato bisognava tenere a bada i punti critici.
L'entrata principale, il cancello posteriore.
Quello aperto verso la distesa deserta abbandonata.
Luogo di confine non ancora addomesticato.
Un micromondo selvaggio.
Terra di nessuno, di sbando.
Dove la natura conta ancora.
Detta legge tra le rovine del vecchio mercato.
Nonostante la presenza di una gru alta venti metri, rivolta verso il cielo come un'antenna traballante in balia del vento.
Il nuovo avamposto della futura colonizzazione.
Avevano scelto di piazzarsi lì.
In quello spazio invaso da decine e decine di bici rottamate.
Alcune degne di tale nome.
La maggior parte oramai solo scheletri arrugginiti.
Se si fosse deciso di girare Terminator in Italia, quello era il posto giusto.
Il connubio fuoco più biciclette aveva convinto tutti.
Senza nemmeno il bisogno di uno sguardo si erano tuffati sulle sedie intorno al fuoco.
Dal cielo scendeva ogni tanto qualche gocciolina di pioggia mescolata con le numerose particelle di cenere sollevate dal calore.
Sembrava nevicare.
Non faceva freddo.
Il bidone infuocato riscaldava a sufficienza.
Qualcuno aveva portato le castagne.
Ottobre aveva fatto capolino da alcuni minuti.
Poggiate sopra una ruota di bicicletta storta usata a mo' di grata, le castagne prendevano il colorito giusto.
Nonostante il tentativo di sgambetto del fuoco per mandare tutto all'aria.
Una volta dorate furono portate sotto l'ombrellone blu.
L'ultimo avamposto prima della distesa deserta sommersa nel buio della notte.
Furono mangiate in un baleno.
Tra il silenzio rotto da battute sussurrate.
Per non compromettere l'atmosfera.
Poco lontano si stava girando un film.
A testimoniarlo c'era la gru di un dolly, alcuni riflettori accesi, il vociare degli attori.
Grazie all'evocatività surreale del luogo si aveva la sensazione di essere all'interno di un unico immenso set cinematografico. Ognuno con la propria parte da recitare in attesa del fatidico:
Azione!
Si gira...
Sullo sfondo il rumore sordo della città, una sinfonia dissonante di echi meccanici, un concerto di auto in movimento interrotto ogni tanto dall'assolo in battere di qualche argano al lavoro.
Anche di notte la metropoli del futuro non dorme.
È impaziente di trasformare ogni cosa senza remore.
Giusto per ricordare ai presenti il destino già scritto di quei luoghi.
Prossimi alla fine.
Eppure in tale sospensione la natura, gli esseri animali, gli uomini erano riusciti a dare forma a un ambiente indefinito, misterioso.
Luogo di possibilità arcane, magiche.
Sarebbe potuto accadere di tutto.
L'incontro di una giovane devota con uno squatter.
Offrire castagne a un puffo blu emerso da una botola nascosta lì vicino.
Giocare a briscola con uno di quei grossi cani sempre a zonzo, mentre mastica mentine.
Il tutto con la spontaneità di un bambino sorridente.
Nonostante il tentativo da parte del buio di nascondere ogni espressione, provando a sovrastare la debole luce radente del fuoco.
Durante la battaglia i volti erano scolpiti in bianco e nero.
Dalle tenebre emergevano i lineamenti duri di teschi in lotta per incarnare ancora vita.
Per aspirare a identità più definite.
Prima di soccombere come tutto lì attorno.
Nella notte pesta, qualcosa di bello, di indicibile riusciva a far vibrare i cuori.
Allora il silenzio prendeva il sopravvento.
Lo sguardo si abbassava lentamente fissando il nulla davanti.
I rumori di fondo si amalgamavano trovando pace.
Si era fatta una certa ora.
A parlare erano rimasti solo gli schiamazzi striduli di animali battaglieri.
Presi dalla stanchezza i ragazzi della ciclo decisero di andare.
Per Nilo e Mimmo si trattava di affrontare il momento più duro.
Il resto della notte.
Quello più nero.
Da soli.
Come tante altre volte.
Stringendo i denti senza fiatare.
Sapendo di poter contare solo sulle proprie forze.
Aspettando un'altra alba, un nuovo giorno forse possibile.


Mauss
Viveva all'Xm.
Era magro.
Non troppo alto.
Capelli lunghi neri.
Raccolti in una coda.
Un po' di barba.
Vestiti scuri.
Poteva ricordare un moschettiere decaduto.
Lo si vedeva dallo sguardo fiero.
Era un patito di teatro, di letteratura.
Retaggio di un percorso esistenziale passato.
Aveva la battuta facile.
Spesso era tagliente.
Il punto giusto.
Era sensibilissimo.
La vita lo aveva portato a conoscere bene le passioni umane, la sincerità degli sguardi.
Era un fine interprete delle espressioni altrui.
Da tempo era relegato lì.
Insieme agli altri.
Forse desiderava altri sentieri.
Per rompere l'isolamento.
Lo reclamava a gran voce pur stando in silenzio.
A volte lo manifestava con ironia velata di cinismo.
Aveva imparato a trattenere le proprie emozioni.
A saper tenere a bada il proprio pensiero.
Piuttosto si sospendeva, rimaneva immobile con lo sguardo fisso.
Dentro invece era un franare rovinoso di desideri, sentimenti infranti, traditi.
Un terremoto devastante.
Allora tirava il diaframma.
Chiudeva la bocca facendola piccola piccola.
Ritraendosi in se stesso risucchiava le guance come un topo in trappola ricacciato a forza nel suo abisso.
Abituato a ben altro, soffriva nel vedere il mondo fuori insensibile ai suoi appelli.
Ostile nonostante le apparenze gentili.