giovedì 20 settembre 2012

Ètranger

Ventisette anni di deserto padano.
Di tutti il più accogliente.
Ma pur sempre deserto.
Il luogo della solitudine, dello spaesamento, dello stare fuori asse.
Sebbene tra una miriade di eventi quotidiani, di incontri fortuiti con gente da tutte le parti.
Lo spazio elastico, l'xm, il modo infoshop i punti nevralgici di tale intersezione creativa.
Poi tornare a casa a elaborare tutte quelle sensazioni nuove spiazzati da tanti stimoli imprevisti.
I luoghi ideali per assorbire energie non senza insanabili idiosincrasie, per tirare avanti da solitari incalliti difficilmente omologabili alle abitudini cittadine moderne del lavoro, dello studio a cottimo. Un incontro impossibile con gli autoctoni orientati verso mete da tempo definite.
Non tutti si piegano.
Variegate le risposte.
Di solito dopo uno stare sospesi in un'apnea destrutturante come elastici tirati al limite schizzano via da tutte le parti.
Per loro si apre l'esodo verso paradisi infernali.
Difficile saper resistere.
Anche perché nulla resta.
Tutto si trasforma velocemente.
Non c'è tempo di mettere radici, di appoggiarsi a relazioni durature.
Un abbandono continuo al limite della sindrome.
Tra un claustro gelido di pareti insormontabili scabrose come la notte, melmose come bitume appiccicoso.
Contratti su sé stessi per non disperdere il poco calore.
A volte dura per settimane prima di rompere l'accerchiamento del nulla.
Alla fine qualcosa capita.
Come fiori nel deserto basta una piccola rugiada per farti sbocciare di colpo e vivere quell'istante propizio.
Perché subito dopo ritorna la notte gelida a seccare tutto.
Ma non si demorde.
Si prova a resistere ancora.
Grazie a uno spirito di adattamento insospettabile.
Una sfida continua.
Provando a non ritrarsi, a rovesciare in vantaggio anche quelle condizioni sfavorevoli.
Innanzitutto aprendosi ai vicini in vista di un orizzonte esistenziale comune.
Senza perdersi mai d'animo.
Positivi fino al parossismo, alla follia.
Altro non si può fare.
Se non chinare la testa e lasciarsi andare al flusso di eventi incontrollabili pronti a tumulare i corpi, i desideri entro recinti angusti.
Eppure questo girare a vuoto sembra essere giunto al termine.
Aver fatto il suo giro.
Si è già oltre la soglia.
Difficile prevedere gli sviluppi.
Sempre senza paracadute.
Lì in bilico tra lo sprofondare o fare il grande salto.
Senza compromessi.
A volte nei momenti di sconforto si prova a scompaginare le carte.
In sella alla bicicletta via fuori dal recinto urbano.
Una manciata di chilometri tutti d'un fiato per cercare ambienti meno ostili, persone meno dure non abituate alla mentalità da ghetto metropolitano.
Con loro il linguaggio è piano, meno colorito.
Le parole semplici.
Dicono l'essenziale.
Senza colpire.
Non devono abbattere o stupire.
Servono solo per conoscersi un po', comunicare storie minimali.
Basta fermarsi sul ciglio della strada, chiedere un po' d'uva a chi vendemmia e si è già fianco a fianco tra i filari.
Per parlare di tempi andati, di vita quotidiana.
Senza timori ti accolgono nelle loro case.
Ti offrono pure il vino fatto in casa da portare via.
Prima però devi aver dimostrato di non essere come gli altri.
Carnivori fugaci.
È il tempo a fare la differenza.
La disponibilità a confondersi tra loro in silenzio.
Per condividere insieme qualcosa.
Può essere la vendemmia, la raccolta dell'insalata. O più semplicemente fermarsi sull'uscio di casa seduti su una vecchia panca di legno a parlare.
Allora una nuova dimensione si apre.
Uno stupore delicato pervade tutti.
Volti cotti dal sole facili al sorriso riflettono una vitalità semplice. Trasmessa con calma.
Una boccata d'ossigeno prima di tornare nel deserto.
Un labirinto di strade tutte uguali.
Difficile trovare il bandolo della matassa.
Più facile perdersi.
E non è d'aiuto pensare di trovare fuori in quei luoghi a una spanna della città una soluzione possibile.
Tutto si muove all'unisono.
Anche stando fermi o isolati comunque si viene inesorabilmente risucchiati dalla macina globale tutto trasformante.
Poi rimane solo da guardare il panorama mutato all'improvviso.
Rimboccarsi le maniche.
Ricominciare da capo come nulla fosse stato.
Prosciugati di ogni memoria.

mercoledì 12 settembre 2012

Letargo

Non ne poteva più.
Ennesimo capolinea.
Senza più centro.
La città non la sopportava da un pezzo.
Troppo corrotta, mercificata.
A fare da padrona solo l'apparire, il confondere.
Per sedurre.
Cercava un'altra economia esistenziale.
Poche cose.
Quelle essenziali.
Rapporti semplici, affettuosi con le persone.
Basta la frenesia.
Essere sempre in tiro.
Con la battuta pronta.
A mille.
Magari eccitati dall'alcol, dalle droghe.
Quanto avrebbe dovuto perdere questa volta.
Forse tutto.
Come il solito.
L'essere così strapiantato lo aveva destrutturato al punto da non avere più le parole, la voglia di leggere cose nuove.
Anni passati curvo sopra i libri.
A scrivere pagine su pagine senza nessuno a interloquire.
Come parlare col morto.
Non si trattava di apprendere ma di agire.
Tornare a vivere.
La città non faceva più per lui.
Quel deserto di cemento abitato da stranieri incomprensibili.
Aveva toccato il fondo.
Impossibile ripartire da lì.
La serata del cazzeggio, dell'aperitivo, della chiacchiera a vuoto non funzionavano più.
Tante volte si era fermato a osservare silente la marea di studenti, di lavoratori a riposo conversare per ore seduti l'uno di fianco a l'altro.
Con l'immancabile birra in mano.
Presi nelle loro conversazioni.
Un vocio sordo come il sibilo del vento tra le rocce fratturate di un'isola deserta.
Sempre più forte fino a coprire ogni cosa.
Una spirale avvolgente da togliere il fiato.
Allora partiva dentro un urlo silenzioso.
Saturo al punto da squarciare il torace.
Nessuno a ascoltarlo.
Perso tra le mille voci si amalgamava insignificante con il rumore di fondo.
I punti di riferimento se ne erano andati da un pezzo.
Chi era tornato a casa.
Chi in india.
Alcuni avevano semplicemente chiuso i battenti o si erano ritirati a vita privata.
Altri erano morti.
In tanta assenza nessuno li aveva sostituiti.
Certo, anche lui non faceva sconti.
Nella sua radicalità spesso alimentava quel vuoto.
Ma cos'altro avrebbe potuto fare?
Da un anno aveva ripreso a frequentare la provincia.
Non di sua volontà.
Perché costretto.
Col tempo si era inserito bene.
Lì era tutto più semplice.
Le porte si aprivano magicamente.
Le persone erano disponibili.
A volte lo cercavano.
Ma si trattava solo di un altro deserto.
Alla fine sarebbe arrivato il conto.
Una questione di tempo.
L'ennesimo shangri-la pronto a svelare il suo inferno.
In tale situazione aveva solo il conforto della bici.
Senza meta saltava su e via.
Per raccogliere uva in qualche campo abbandonato.
Oppure per dirigersi in una scuola di ex-comunisti convertiti al commonwealth o nella città splendente di luce dove le persone ti accolgono con il sorriso, ti abbracciano calorosamente.
Quando non era in bici ascoltava musica.
Una ricerca facilitata dalla rete.
Dopo anni di carestia, una marea di artisti era apparsa dal nulla pronta a rimpolpare la nuova avanguardia elettronica.
Tecno-dub, minimal, acid dall'accento teutonico pronta a strizzare l'occhio a certa acid-house inglese di fine ottanta.
Aveva pure ripreso a mettere su musica, a avere una playlist.
A mancare il pubblico delle grandi occasioni.
Pochi gli intenditori.
Anche perché così presi dal lavoro, dallo studio non c'era tempo di immergersi in quelle melodie rumorose.
Meglio semmai certa musica facile non prima di aver affogato i pensieri nell'alcol o nella chiacchiera infinita.
Con la scusa dell'ironia, del gioco, dell'essere easy a tutti i costi nelle sale alternative a tirare era il porno-trash.
E non c'erano cazzi.
Nichilismo di massa allo stato puro.
Tutto livellato secondo una perversa logica edonistica conservatrice.
Alla fine non c'era altro da fare.
Aspettare.
Dare tempo.
Dopo l'ultimo raccolto estivo si apriva un nuovo inverno.
Il momento della semina.
In attesa di una nuova primavera.
Mesi rintanati sotto terra.
Per rinascere ancora.
O morire del tutto.

P.s. 
bona la prima...
nn ce perdo nemmeno il tempo di correggerlo...