domenica 28 dicembre 2014

Il canto in lingue come anagramma del nome di dio

Secondo gli ebrei le parole derivano dall'anagramma del nome di dio, cioè dalla sua dispersione, disseminazione. A ciò va aggiunto il valore di rappresentazione che esse hanno assunto. Il compito di referenziare un mondo coerente per qualcuno. Ingabbiando in questo modo il potenziale insito nel significante puro. Obbligandolo a essere qualcosa di determinato.
Liberando le parole da tale ruolo si prova a restituire “quel massimo di energia nei segni”. Tale è l'efficacia simbolica dei segni. Cosa significa segno simbolicamente efficace? Quando un segno diventa efficace al di là del suo uso referenziale. Per non accollarsi piú il mondo sulle sue spalle, il suo peso. Per avere la stessa leggerezza del fuoco, del fumo capaci di librarsi verso l'alto nello stesso momento in cui la materia organica si dissolve in cenere. Bruciare, consumare per elevarsi. Lo spirito l'elemento residuale di tale operazione. Quanto si manifesta di concomitante a tale processo di dissoluzione. Per questo il fuoco è divenuto un messaggero tra la terra e il cielo. Anche le parole come il fuoco possono aprire a nuove dimensioni, a nuovi piani di realtà. Quando oltre qualsiasi rapporto logico economico di significazione si aprono a uno scambio simbolico. Libere da tutto quanto le obbligano destinalmente a significare codici significanti presupposti. Syn-balleyn, mettere insieme qualcosa che si è rotto, spezzato. L'unità andata in frantumi. Far coincidere la parte con il tutto. Uno scambio impossibile. Oltre ogni logica economica. E non si tratta di rimettere insieme i cocci per accumulazione tentando di rinsaldarli, articolarli insieme. Questo è quanto prova a fare ogni discorso, ogni narrazione. No qui si tratta piuttosto di un atto di fede cominciando a neutralizzare il senso, i significati. Far coincidere il tutto con la parte, nel senso di farli cadere, accadere insieme. Senza più nessuna logica causale, né rapporto, né vincoli. Per aprirsi in potenza. Stare insieme, mettere insieme senza motivo, senza finalità precostituite. Far accadere neutralizzando e le parti e il tutto, confondendoli insieme. Forse così le parole verranno liberate dal loro significato profano, dal mondo precostituito per aprirle al-(l'im)-possibile, all'altro. Restituendole così al loro fine di medium con l'altro, con gli altri mondi. Per essere solo porta, apertura pura, vibrazione armonica, linea di fuga. Forse così riacquisteranno la loro forza operativa. Non per inseguire nostalgicamente quanto è andato perduto, ma per generare tutto quanto era da sempre in potenza, senza ingabbiarlo in un atto conclusivo. Senza pensare di arrestare le parole, ma farle fluire, sapendole lasciare andare e tornare liberamente, facendole vibrare. Per innalzarsi ancora. Come fa il fuoco. Le parole “sono semplicemente rese allo scambio”, si rendono disponibili. Grado zero di significazione, chenòsi del senso come apertura massima a tutte le significazioni possibili. Allora forse si raggiungerà anche il godimento. Infatti il godimento non si ottiene nell'effettuare strumentalmente una forza, ovvero nel compimento di un atto finalizzato, cioè nella realizzazione, compimento di un opera. Ma si ottiene quando si libera la potenza nell'atto stesso, cioè agendo l'impotenza. Nella contemplazione di tale potenza, di tale tensione insita in ogni opera sta la bellezza. La contemplazione della dynamis, della dinamicità del movimento puro.
Di questa parola non resta nulla, ed essa non si accumula da nessuna parte, perchè il potere [in senso negativo] è residuo di parola”. Nel senso che è residuo di valore, di ciò che vale, obbliga di conseguenza. Il nome di dio non va pronunciato, ma solo disperso, disseminandolo senza più resti di valore. Solo morendo, nel sacrificio di se stessi, di dio, del desiderio, di quanto ci si aspetta, di quanto si vorrebbe, solo abbandonando tutto quanto partorito dall'ego che nuovi mondi appariranno. Al di là del soggetto, al di là del bene e del male, al di là del potere inteso come “forza di legge”, ovvero forza obbligante a qualcosa di dato. Il sacrificio al di là di ogni tentativo rituale di contenerlo è invece violenza pura, liberatrice, violenza deponente che non si costituisce più in un nuovo potere. Ė potenza pura all'occorrenza, del qui e ora, per dare forma volta per volta, istante per istante. Come fa iside ricomponendo all'occorrenza il corpo smembrato di osiride.
Tornando alla disseminazione essa non va confusa con la emanazione. Sarebbe ancora una volta pensare a dio come a qualcosa di persistente, che preesiste, che continua a dare forma, a influire. No. Dio quando muore, muore. Poi risorge dal nulla, non dai suoi resti. Emerge dal nulla ogni volta. Dal nulla nel senso anche di vuoto. Dall'assenza. Ogni volta appare, si manifesta nella concertazione di finito e infinito, niente, tutto. Espressione di una coincidenza fortuita. Poteva essere come non essere. Se è, è per piacere, per diletto. Perché a prevalere è la gioia. Si spera di tutti.
A morire in croce è la regalità, la verità, la via, la vita, dio stesso. Non può essere credibile da ciò nessun esoterismo, nessun messaggio nascosto da ricercare tra le righe come un codice segreto informatore, preformatore. “Nessun significato profondo, nessun re-investimento, se prima non si lascia tutto, non lo si lascia morire fino in fondo lasciandolo essere come fantasma”. Lasciare andare corpo e spirito. Essere lo psicopompo di dio per non portarlo da nessuna parte. Dis-perderlo soltanto, neutralizzarlo, volatilizzarlo, senza sacralizzare piú niente. Conta solo il piano d'immanenza, il flusso, il divenire puro. Aspettare nel sepolcro la rinascita possibile. Non prima di essere transitati negli inferi, nei propri incubi, per liberare i fantasmi, lasciandoli andare via per sempre senza legarli a qualcosa, a qualcuno, dio, il valore. Per incontrarlo ancora prima va esorcizzato, anatemizzato, ridotto allo zero assoluto, al vuoto, al nulla, cioè al grado zero di valore, di significazione. Il nichilismo è l'operatore metafisico di tale trasformazione, della transustansazione, del nuovo transito. In fondo per scoprire i buchi neri ci si è dovuti prima svincolare dall'abbaglio della luce delle stelle. Nel fare vuoto il mistico non trova dio ma il vuoto. Chi pensa di trovarvi dio, qualcosa, qualcuno non è sceso abbastanza nella notte dello spirito. Al limite, se gli va bene, può trovare a una spanna da lui la realtà impercettibile, il reale al di là di ogni immaginazione

mercoledì 17 dicembre 2014

Radice di due

Sempre di corsa.
Andare avanti per fare vuoto.
Liberarsi di zavorre secolari.
Annullare dispositivi.
Senza un attimo di tregua.
Un fare senza più meta.
Per non lasciare residui.
Resti vivi capaci di risorgere dalle ceneri come fantasmi.
Sospendere tutto.
Accelerando.
Per arrivare a essere potenza pura seppur dinamicamente.
Un operare, un muoversi nella speranza di trovarsi prima o poi.
O perdersi del tutto.
Alla fine la stessa cosa.
Un giorno, si fermò per un attimo.
Si voltò indietro.
Non c'era nessuno.
Solo silenzio, vuoto cosmico.
Da solo.
Tra sé e sé.
Ancora un eco, una duplicazione, una dispersione, una disseminazione.
Senza perdere altro tempo si alzò.
Senza indugiare oltre si gettò nel vuoto.
Senza voltarsi più

martedì 9 dicembre 2014

Anima

Che cos'è l'anima?
Per qualcuno è la vita stessa. Ciò che anima il corpo da dentro, quanto ci fa essere vivi. Il soffio vitale.
Se le cose stanno così il problema diventa come definire la vita.
Per i greci antichi la vita si dice in due modi.
Da un lato c'è la zoè. La vita tout court. Ovvero la vita biologica, corporea a tutti universale. Il substratum da cui si innestano poi tutti gli altri livelli. È a partire da questo livello che può esistere l'anima di marco e via dicendo. Ovvero quella parte di vita riconducibile a dei caratteri specifici. Quel livello di vita in grado di rispondere, ovvero di essere responsabile, per questo, secondo alcuni schemi di giudizio, di giustizia, imputabile. E grazie a essa se ci si identifica in qualcosa, qualcuno, a un fare.
Eppure l'anima di marco non è affatto riconducibile né a un'idea astratta di anima, né al solo corpo. Perché questo cambia nel tempo. Allo stesso tempo però qualcosa di invariante rimane. Un modo di essere, una forma di vita riconoscibile a prescindere, riconducibile all'anima di marco. Qualcosa di caratteristico in qualche modo, di unico, immutabile.
Allo stesso tempo se partiamo dal bios, l'ultimo livello, quello della vita qualificata, ovvero la vita politico-etica il problema non si risolve. Non basta definire il bios, cioè attualizzare un poter essere qualcosa, qualcuno per descrivere l'anima di marco. È qualcosa di più. In questo senso essa non può essere assimilata al ruolo, al compito che andrà ad assumere destinalmente nella vita. Come non la si può dedurre dalle sole opere, dal fare specifico, dai suoi prodotti (pro odos).
Insomma l'anima individuale non la si può ridurre a uno dei due poli, alla vita tout court in senso fisiologico, né a quella qualificata. Piuttosto sta lì in mezzo. Li tieni uniti senza articolarli.
Infatti a un altro livello l'anima è quanto permette all'interno di una vita di poter contemplare la propria potenza specifica all'interno di una operatività, di un'opera. Insomma è quanto all'interno di una vita porta a sospendere l'operatività rivolta a un fine, a un uso prefissato esponendola. Dandosi così a conoscere. Ovvero rendendo intellegibile un modo di essere per una coscienza. Solo a questo punto si riesce a scoprire il gioco del mondo. A smascherarlo. A non identificarsi più personalmente uscendo dallo stordimento, dall'abbaglio. A questo punto la potenza liberata si rende disponibile a un altro uso. Senza però ricadere più nel gioco delle identificazioni, cioè uscendo dal gioco dei ruoli, dal dover articolare nuove forme di vita in cui ricadere assorbiti completamente. Solo a partire dalla contemplazione della propria vita si riuscirà a trovare la forma di vita migliore. In questo caso a contare sarà piuttosto la ricerca dell'armonia, del giusto mezzo, il mesos bios all'interno della propria esistenza. Ovvero un modo di essere equilibrato, in sintonia a partire proprio da quei ruoli assegnati dal destino una volta smascherati, cioè dopo l'acquisizione di una nuova coscienza per viverli con un certo distacco.
L'anima è questo filtro, la resistenza che fa si di non essere più solo uno strumento banale di quanto ci precede, ci costituisce nelle fondamenta. In questo senso è anche il punto di contatto tra individuo finito e spirito infinito. É quanto fa da medium. Nè l'uno né l'altro. Ma quanto li fa coincidere insieme, coincidere ovvero cum cedere, ovvero cadere insieme. Lasciandoli sussistere entrambi senza articolarli, cioè senza appiattirli l'uno su l'altro. Così l'anima è quel rumore di fondo che lascia esprimere il tutto in una forma singolare. Dando luogo a una delle tante manifestazioni dello spirito. Senza poterlo identificare in nessuna in particolare. Se non nella moltitudine indefinita di queste, manifeste tutte insieme allo stesso tempo.

lunedì 1 dicembre 2014

Un sabato qualunque

Mestre è vicina.
Nel vagone poca gente.
Appena più avanti tre giovani si stanno preparando.
Un ragazzo, due ragazze.
Al massimo venti, ventidue anni l'età.
Per tutti la stessa meta.
Almeno così sembra.
Le serate del sabato lagunare da un po' divenuta la notte di tanti tiratardi da tutta italia.
Non mi sbaglio.
Scendiamo insieme.
Andate al pop corn?
No. In un locale lì da quelle parti.
Stasera arriva...
Non lo conosci?
Ma daj è famosissimo.
Risponde un po' sorpreso.
Se vuoi puoi unirti a noi.
Poi ti accompagniamo là.
Tanto è lungo la strada.
Fai il buttafuori?
Sul treno mi sembravi uno sbirro.
Proprio no.
La giovane ragazza al suo fianco mi squadra per qualche istante.
Sei un dj.
Già.
Sono da queste parti per una serata.
Sai anch'io sono un noto dj.
Risponde il ragazzo di prima.
Sono famoso anche all'estero.
Sono stato sotto la monoculare di Parigi.
Ora sono con la stessa etichetta degli aucan.
Tira fuori l'mp3.
Seduti sul marciapiede mi fa ascoltare il suo ultimo ep.
Niente male.
Monoloke il punto di riferimento.
Suoni pulitissimi, ricercatissimi.
Ritmiche complesse.
Forse lo stile compositivo è un po' superato.
Ma nell'insieme direi un ottimo prodotto.
Te lo spedisco. Dammi la mail.
Fuori della stazioni altri ragazzi hanno cominciato a invadere mestre.
I tanti capannoni industriali abbandonati sono stati riconvertiti a un nuovo inaspettato uso.
Sono diventati i nuovi templi della musica elettronica.
Dentro le loro stive enormi riescono a fagocitare fino a cinque seimila persone a serata. Importante per attirarle l'esca giusta. Il nome famoso.
Per tanti lo scopo principale al di là della buona musica è distruggersi.
Al bar il ragazzo tira fuori dal portafoglio più di 150 euro. Il medium per raggiungere tale scopo.
Vero potlach dei nostri tempi. Consumare tutto quanto accumulato nei riti di oggi. Quelli orchestrati da sapienti dj, manager in erba capaci di far funzionare la macchina secondo ferrei oleati dispositivi economici.
Non è facile.
Tanto lo sbatti.
Anche perché il sistema fa di tutto per renderti la vita difficile con cavilli legali fuori di testa, controlli a tappeto, multe quando possibile.
Ma è solo apparenza.
Tutto è funzionale al suo funzionamento.
Sono solo le facce della stessa medaglia.
L'uno specchio dell'altra.
Dopo una birra in un bar di fronte la stazione si fa un po' di strada insieme.
Poi mi indirizzano.
Vedi quel cartello luminoso laggiù?
C'è una scala.
Prendila.
Poi sotto vai a sinistra.
Completando l'informazione con un gesto della mano.
Ci sei?
Si tutto chiaro.
Trovare il locale non è difficile.
Dopo aver attraversato il lungo viadotto, la strada per collegare venezia con la terraferma, prendo le scale poi volto a sinistra. Scalino dopo scalino mi si mostra un livello assai fatiscente da periferia urbana. La stessa di tanti film americani.
Luci fioche, muri sporchi. Mattoni nudi di argilla anneriti dallo smog. Sotto le arcate del viadotto ci sono capannelli di persone fuori e dentro le macchine. Hanno la musica accesa a palla. Qualcuno si dimena, urla. Qui si prepara la serata. Imbottendosi di ogni ben di dio per accedere alla strada verso il paradiso o l'inferno. Fa lo stesso.
Al pop corn oggi a fare da padrona c'è la goa.
È stato chiamato un famosissimo dj.
Per lui si sono mossi da tutta italia.
Da perugia, bologna.
Tanti sono scesi dalle montagne.
Il tam tam mediatico ha funzionato.
In moltissimi hanno risposto.
Per entrare una lunga strettoia come per le bestie prima della tosa.
Ad attenderli al varco dei buttafuori di professione alti quasi due metri. Vestiti di nero come swarzenegger in terminator.
Entriamo.
E uso il plurale perché intanto ho conosciuto dei ragazzi umbri. Gli amici dei dj prima di me.
Sei della mattina.
La serata è finita.
Almeno per il sottoscritto.
Per molti deve ancora cominciare.
Ammassati all'entrata fanno pazientemente la fila per accedere dentro. Per loro la musica girerà fino alle dodici. Poi se non bastasse c'è l'after. A tirare dritto fino a sera.
È ora di fare i conti.
A aspettarmi fuori dalla sala c'è francesco.
È lui il cassiere.
Veramente ottima musica.
Ma ora a noi.
Allora?
Non so bene cosa dire.
Occhei quanto hai speso per il viaggio?
11 e 50.
Dalle tasche tira fuori un mazzo cospicuo di denaro. Con la stessa abilità di un banchiere estrae dieci euro.
Ej aspetta.
C'è pure il ritorno.
Un respiro.
Poi tira fuori altri dieci euro.
Mancano ancora tre euro.
Fa lo stesso.
Prendo lo zainetto, la borsa con tutto l'occorrente e alzo i tacchi.
Prima però faccio un salto nella sala principale.
È stata allestita secondo tradizione. Una grossa struttura tribale a moh di capanna bianca, nera e verde stile elfi. Da li una serie di tentacoli, ramificazioni organiche a avvolgere tutto. A progettarla un noto design venuto dal nord. In sala la solita musica goa di oggi. La si può apprezzare solo se si è su di giri. Se no fa abbastanza cagare. A quanto pare è stata studiata apposta per quelli già approdati in altre dimensioni. Per questo tutti si sono aiutati. Li vedi dagli occhi sfocati, il sorriso ebete, i ritmi lenti. Chissà in quale universo sono. Mi sento un alieno. Come se avessi di fronte dei corpi vuoti in attesa del loro spirito in trip. Beh rimane la curiosità di provare una volta sto viaggio.
Mi incammino verso la stazione sotto una leggera pioggerellina fine fine.
Con me una pletora di giovani allo sbando.
Tutti insieme a caccia del carro ferroviario giusto per fare ritorno a casa. In molti a consumare qualcosa al mcdonald della stazione. L'unico posto ancora aperto.
Dentro tra i tanti giovani c'è pure una signora in jeans coi capelle bianchi.
Come un pesce fuor d'acqua sta sul tavolo da sola.
Nell'attesa legge un libro dalle pagine ingiallite.
Il suo modo di evadere da lì.
6 e 54.
Il treno puntuale arriva sul binario.
Fine della storia.

mercoledì 5 novembre 2014

Spirito critico

Essere dotati, posseduti, affetti da uno spirito critico cosa significa?
Secondo il Devolo Oli l'aggettivo critico deriva dal greco krinos. Krinos indica il saper distinguere, giudicare. Tale aggettivo evoca anche una crisi, un punto di rottura. Punto critico, fase critica, temperatura critica, massa critica, indicano un punto sogliare dove le cose precipitano all'improvviso, cambiano di fase, si trasformano, si attivano.
Saper criticare richiede una particolare attenzione, una presenza non banale. Tale attenzione critica la si produce tramite una sconnessione, uno sfasamento da quanto si afferisce. Senza esagerare però. Altrimenti la realtà ci sfuggirebbe di mano, non sarebbe più immediatamente presente. Essere sconnessi significa non essere più soggetti, abbagliati, sedotti dal presente così com'è. Non essere affascinati dal presente significa non essere flashati dalla sua luce abbagliante. Riuscire a stare con gli occhi aperti nonostante l'abbaglio. Solo allora si riuscirà a vedere il buio, il vuoto da cui tutto nasce, si genera. Come quando mettendo gli occhiali scuri si riesce a vedere le macchie solari. Sa guardare il presente in modo critico chi è investito oltre dalla luce anche dal fascio di tenebre, dalle ombre del proprio tempo. Questo vuol dire non identificarsi. Solo chi ha uno spirito critico sa prendere le distanze dal flusso anonimo della vita. Ovvero sa vedere qualcosa di inattuale nell'istante presente, qualcosa che non coincide con se stesso, una frattura, un non risolto. Saper leggere il presente significa innanzitutto portare alla luce le distinzioni, gli schemi di pensiero, le figure storiche, i compiti ai quali siamo stati consegnati. Siano essi culturali, storico-politici, o naturali biologici. Vedere cosa ci muove, come funzioniamo, a quali fini, scopi siamo strumentalmente orientati. In quale modo le nostre potenzialità sono delimitate, usate, vincolate, contenute. Riuscire a liberare tali potenzialità non vuol dire destituire tali figure per opporvene altre alternative. È sufficiente riuscire a arrestarle, sospenderle deponendole. Ovvero significa saper rimanere sospesi nel negativo, nell'inoperosità per rompere la relazione, il rapporto a cui si era in precedenza legati. La parola legati deriva da legein, da cui logos. Uno dei significati di logos è anche rapporto. Insomma bisogna slogarsi, slegarsi. Riuscire a contemplare la propria potenza senza doverla riarticolare in nuove economie, scopi storici. Contemplare deriva da theorein, da thea ovvero vedere, da cui teoria. Tale destituzione libera la potenza in precedenza sottomessa a quelle figure storiche per renderla disponibile per un nuovo uso da armonizzare volta per volta con il flusso vitale, il ritmo del tutto, dello spirito. Senza esserne schiacciati, annullati. Anima è quel medio tra lo spirito e il corpo. Essa non è assimilabile, riducile né allo spirito né al corpo eccedendo entrambi. Una volta emersa nel soggetto assume il ruolo di mediatrice, di mezzo di comunicazione tra il tutto indifferenziato e l'individuo finito armonizzandoli.

martedì 4 novembre 2014

Amore

Amare è stare a contatto intimo con qualcosa, qualcuno di irriducibile senza scopo, senza finalità strumentali. Al di là di ogni rapporto, relazione. Senza cioè legarlo, vincolarlo, trattenerlo. Il noli me tangere insomma... Che è l'antitesi di non mi toccare... quanto piuttosto lo stare a contatto, senza che nulla trattenga, in pienezza, armonia, confidenza. Parousia... para ousia... essere accanto, presente, a portatata di mano, in prossimità ma solo per fede, fiducia, credito disinteressato. Quando si è abbracciati in contatto l'uno con l'altro è come mettere accanto lo jin e lo yang. Quando c'è amore non c'è prova... Esso si nutre di "sola fidei". Chi pensa che l'amore debba essere confermato è sulla strada sbagliata... L'amore è al di là della prova. In questo è oltre l'eros, l'innamoramento che nasce sempre da una mancanza, da una tensione verso.

domenica 19 ottobre 2014

La vie en rrose

Di notte.
In autostrada.
La performance di rrose è terminata da poco.
Ancora i timpani frastornati da tanto.
Al club adriatico la stagione è aperta.
Senza badare a compromessi si è fatto arrivare quanto di meglio sul mercato.
Direttamente da amsterdam.
Dove ha suonato la sera prima.
Un'ora solo.
Ma da paura.
Al club la serata era cominciata con un dj locale.
Per far capire la direzione una nebbia artificiale a coprire tutto.
Ad avvolgere i corpi come gli schiavi di michelangelo immersi nella pietra o i corpi in movimento di bacon tra il colore fluido.
Solo taglienti fendenti di luce a illuminarli radenti.
A farli emergere per qualche istante come fantasmi.
Poi di nuovo buio pesto.
Come immersi nell'oceano.
Senza punti di riferimento.
Si è da soli.
Consegnati al proprio vuoto interiore.
Mentre il corpo si muove a ritmo di tecno.
La più deep del momento.
Spiazzante, destabilizzante.
Implosiva fino alle viscere.
L'impianto il migliore da sempre.
Suoni bassi profondi ti attraversano come onde di terremoto.
Certo manca lo sporco noise dei tempi migliori.
Ma questo è un club.
Non un posto alternativo d'avanguardia.
Alla fine qualcosa si paga al mercato, al gusto comune.
Alle due rrose attacca.
Meglio stacca.
I ritmi martellanti si arrestano.
Con il fumo i suoni bassi, rarefatti ti avvolgono come in un magma denso. Non so per quanti minuti un urlo straziante monotonale in caduta libera.
Poi arrivano i colpi bassi.
Siamo sui 125 bpm in crescendo.
La tecno di oggi.
I pezzi pregiati da sempre in playlist te li vedi articolare uno dietro l'altro con una potenza inaudita.
Una discesa devastante nei recessi più intimi.
Impossibile contenere le urla.
Qualcosa di imperioso ti fa muovere fino a riempirti.
Un'euforia inspiegabile la risposta.
Con gli occhi chiusi.
Tanto anche aperti sarebbe lo stesso.
A dimenare il corpo senza più pensieri.
Come viene.
Quasi danzando leggeri sui cristalli.
Come tante canne mosse dalle onde basse soffiate con forza dalle casse sul soffitto.
Sulla strada del ritorno.
La stessa nebbia a avvolgere ogni cosa.
I fari tagliano la coltre quanto basta per vedere la linea continua bianca.
Gli occhi fissi sul parabrezza come fosse lo schermo di un videogiochi.
Ogni tanto fari amici a guidarci.
Incollati a distanza non li perdiamo di vista.
A loro ci affidiamo.
Come se al volante ci fosse dio in persona.
A volte invece da tanta caligine emerge la sagoma di auto indecise.
Senza pensarci su si pigia l'acceleratore per superarle prima possibile.
Meglio prevenire.
Non esserne alla mercè.
Ancora a risuonare le parole antiche di viaggiatori andati incontrati tanti autostop fa.
Quando c'è nebbia.
Mai rallentare.
Tirare dritti casomai.
Per stare davanti.
Non restare bloccati.
Ecco allora accelerare a fronte del primo ostacolo.
La lancetta si muove veloce.
Pochi metri.
Un altro veicolo di troppo.
Giù a pigiare sul pedale.
La macchina scivola decisa sulla strada in accelerazione spinta.
La velocità aumenta.
Nessuna paura.
Un altro stop ancora.
Via, andare oltre senza ripensamenti.
Più in fretta possibile.
Divorando l'asfalto.
Il tempo.
Ancora qualcuno a rallentare.
Si è quasi al limite massimo.
Il motore ruggisce.
Si viene appiccicati al sedile.
Accelerazione massima.
L'ultimo ostacolo.
Poi più nessuno.
L'auto in piena corsa lentamente solleva il muso.
Come un aereo stacca le ruote anteriori da terra.
Poi dopo poco anche le posteriori.
Senza più attriti va da sé.
L'ultima macchina è già sotto.
Via così.
Ancora più in alto.
Ora più niente a ostacolare la corsa.
Oltre la coltre la luna.
Lì in posa a mostrare impassibile il suo splendore riflesso.

lunedì 13 ottobre 2014

martedì 7 ottobre 2014

Con tatto

Toccarsi.
Abbracciati.
Il modo di stare più intimi possibile.
Punto punto.
Poro su poro.
Così vicini da non lasciare spazio.
A parole, immagini, programmi.
Solo il contatto.
Senza restituire altro.
Un vuoto consistente.
Quanto la totalità.
Niente relazione.
Mediazione.
Per non ridurre l'altro.
A qualcosa, qualcuno.
Fosse pure un ricordo bellissimo.
Una parola magica.
Da manipolare.
Articolare a posteriori.
Prima separare.
Poi inseguire una fantomatica unione perduta.
Da ri-affermare.
Tatto.
Tutto.
Inseparabilità nella separatezza.
Confusione di differenze neutralizzate, sospese.
Esperienza divina per antonomasia.
In principio fu il tatto non il logos

lunedì 1 settembre 2014

[...]


Viaggio in sicilia
Diario micrologico di un biker


Pronti... via
Nove e quindici del due agosto.
Stazione di ancona.
Scendo la bici dal treno.
Già tutto vestito salgo in sella lungo il binario.
Da lì fino a termoli non stop.
Questo l'intento dichiarato.
Il viaggio è cominciato.
Il primo obiettivo vince, un amico antropologo a bologna.
Partiti lo stesso giorno per la stessa meta.
Lui in treno, io in bici.
Tante le incognite.
Duecentocinquanta chilometri in un sol colpo.
Memore della notte passata in bianco.
Con sul groppone solo due tre ore di sonno.
Che vuoi farci.
Meglio non pensarci e pedalare.


Termoli
Ho appena raggiunto la meta.
Gli ultimi chilometri lungo la costa li passo in compagnia di miriam, una giovane ciclista argentina trasferitasi da queste parti per amore. Con lei arrivo sotto le mura della città.
Il posto è incantevole.
Appena sotto la roccaforte gli scogli, il mare, alcuni trabocchi sospesi in acqua.
Sarà anche per la luce rosa del tramonto.
Sul limite dell'orizzonte.
Mi fermo a contemplare lo spettacolo fino a quanto resisto.
Poi stanco mi corico su di una panchina in pietra bianca.
Chiudo gli occhi per non so quanti minuti.
Quando li riapro mi trovo circondato da persone vestite a modo.
Giratevi così.
Fermi ora.
Mi volto.
Una coppia di giovani sposi posano con le spalle al mare, al tramonto.
Sono a pochi centimetri da dove mi sono piazzato.
Il luogo più bello della zona.
Li lascio fare.
Come non esistessi.
Dopo un'infinità di pose se ne vanno.
Rimango solo.
Un po' più lontano alcuni giovani sono seduti sopra delle panchine tondeggianti.
Mi avvicino.
Di colpo un ragazzo sferra un calcio a una bottiglia lì in terra gettandola con forza sugli scogli.
Sul volto un grigno di disprezzo.
Subito dopo un fragore di vetri rotti.
Ci rimango male.
Quasi quel calcio lo avesse dato a me.
Non è stato un bel gesto.
Gli dico.
La bottiglia non l'ho gettata via io.
C'era già.
Mi viene naturale rispondere.
Ma che cazzo dici.
Poi me ne vado stizzito.
Ho appena cominciato a penetrare nel profondo sud.
Una manciata di chilometri in più per rendersi conto di come stanno per davvero le cose. Prima però è necessario sospendersi un po' per spogliarsi delle proprie convinzioni, delle normali abitudini acquisite.


Buco 1
Foggia.
La prima bucatura.
Non abbastanza per rimanere a piedi.
Forse solo un problema alla valvola.
Questa la speranza.
Anche perché ho un solo ricambio.
Vabbè ho portato anche colla e toppe.
La prudenza non è mai troppa in questi casi.
Avventurarsi senza camere d'aria di scorta in questo deserto sarebbe un vero e proprio suicidio. Da termoli a foggia nessuna fontana per riempire la borraccia. E siamo solo all'inizio. Vicino al mare, alla “civiltà”.
Prima di tutto nutrirsi bene, soprattutto bere.
Per non entrare all'improvviso in crisi.
Un cocomero da tenere come scorta.
Un'anguria già tagliata da divorare subito.
Delle banane non si sa mai.
Nemmeno il tempo di pagare.
Già seduto sul marciapiede a incidere la massa rossa con il temperino svizzero regalatomi da anna.
Mezza anguria andata in un baleno.
Troppo pesante il resto per portarlo dietro.
Meglio spremerlo dentro le borracce fino riempirle.
Un'operazione minuziosa.
Alla fine nulla va sprecato.
Ora è il turno della ruota.
Urge un ciclista.
Chiedo al primo passante sotto tiro.
Mi vorrebbe mandare in culo al mondo.
Dall'altra parte della città.
Non mi convince.
Alzo lo sguardo.
Una breve occhiata intorno.
Dall'altra parte della strada c'è un distributore di benzina con parcheggiate tre biciclette, più tre ragazzi sopra altre bici da corsa.
Mmmhhh...
Potrebbe essere il posto giusto.
Attraverso la strada.
Mi si fa incontro un signore un po' anziano.
Ha il fisico asciutto.
Il look assomiglia a quello di alcuni personaggi visti in tanti film neorealisti.
Dopo averlo salutato gli chiedo se ha una camera d'aria.
Certo mi risponde.
A sto punto rilancio.
Ciai pure le toppe?
Ha pure quelle.
Cinque euro la camera.
Tre le cinque toppe.
Un po' troppo per quest'ultime.
Gliene chiedo una sola.
Ci pensa un attimo.
Tié pigliale tutte così.
Toh prendi pure sta bottiglietta d'acqua fresca.
Oh mettila dentro il marsupio davanti sennò si scalda.
La situazione mi incuriosisce assai.
Comincio a fare domande.
Paolo sebbene di lavoro faccia il benzinaio è un appassionato di bici. Da un po' di tempo ha messo su un gruppo di ciclisti. Abitano tutti nella zona. Una lunga via di periferia abbastanza fatiscente. Chiunque ti incontri per strada si affretta a dirti di non lasciare in giro la bici. Nemmeno legata.
Paolo da giovane correva.
La passione la tiene ancora al punto da avere contagiato i suoi vicini.
È lui a riparare le biciclette scassate della zona.
Alla fine è riuscito a coinvolgere un gruppo di circa trenta persone. La domenica escono tutti insieme.
Al suo fianco ci sono due giovanissimi. Il telaio delle loro bici è più grande di loro. Appena possono si lanciano a raffica a fare domande. Da dove vieni, che rapporti hai, che fai nella vita.
Sono incuriositi.
Non è da tutti giorni vedere un forestiero in bici con le borse da viaggio ai fianchi.
Paolo nonostante la grande disponibilità sembra essere abbastanza diffidente. Sarà forse per l'abitudine a vivere in un luogo così difficile da renderlo sospettoso verso gli sconosciuti.
Alla fine si apre.
Si lamenta del sud, delle mancanze di opportunità.
I suoi giovani al nord avrebbero il supporto di una squadra, i migliori forse anche un ingaggio. Quaggiù invece niente di tutto questo. È già un miracolo riuscire a farli uscire ogni tanto.
Ci salutiamo con affetto.
Grazie a questo improbabile gruppo di appassionati risolvo tutti i problemi in pochi minuti.
Una scoperta vedere come anche dal niente, peggio dal degrado come condizione normale qualcuno sia riuscito a tenere botta. Nonostante il destino sembri remare contro.
Ciclisti di strada.
Roots.
Una sorpresa inaspettata.
Un microcosmo vitale, genuino basta solo grattare un po' la superficie.


Buco 2
Metaponto.
Dopo ottanta chilometri.
Da quando sono ripartito l'indomani da quelle dolomiti lucane a sud di potenza, tra valli incontaminate abitate per lo più da animali selvatici.
Obiettivo raggiunto. Sebbene stremato dal tappone del giorno prima.
Fortuna la strada tutta in discesa.
Altrimenti sarebbe stato difficile.
Il tempo di arrivare per capire di aver bucato.
Senza perdersi d'animo cambio in un baleno la camera d'aria.
Trovo pure il buco.
Lo aggiusto.
Bona lé.
Poi riparto come niente fosse.
A sto punto meglio cercare un negozio di bici.
Prendere un'ulteriore camera di scorta nuova.
Ma dio cristo siamo a metaponto.
Un paese di cinquecento anime.
Nella basilicata più desolata.
Già tanto trovare qualche alimentari, le poste aperte.
Lontani i fasti della magna grecia.
Ricordati a malapena sui libri di storia.
Per il ciclista chiedo a un marocchino.
La prima persona a passare nei paraggi.
Qualcuno potrebbe aiutarmi.
Stà vicino la piazza principale.
Poi passa la macchina della polizia.
Si fermano a pochi metri da me.
Chiedo pure agli sbirri.
All'inizio fanno gli gnorri.
Poi quando li indirizzo un po' vuotano il sacco.
Davanti la guardia di finanza dopo la piazza principale c'è un certo daniele.
Nel suo garage ripara bici.
Prova, magari lo trovi.
Così faccio.
Non costa nulla tentare.
Lungo la strada incontro un giovane ragazzo con una bici da corsa rossa old style.
Lui ne saprà sicuramente di più.
Così è.
Daniele c'è solo il pomeriggio.
Per ora niente da fare.
Beh. Intanto domando se ha una pompa efficace.
Per gonfiare le ruote a regola.
Così da evitare altre bucature.
Ce l'ha.
Mi invita a seguirlo.
Abita lì nei paraggi.
Appena arrivati ci accoglie un suo amico.
Entrambi hanno appena sedici anni.
Parliamo un po' per conoscersi meglio.
Enrico, il primo ragazzo incontrato, dice di volersene andare a nord prima possibile. Quaggiù non c'è speranza. Forse potrebbe entrare a fare la carriera militare. A vederlo sembra un bravo guajone. Pulito come un ragazzo di paese ci si aspetti. Dalla sua bocca la parola militare stona assai. Non l'avresti mai pensato.
Cosa vuoi farci.
Sono questi i modelli esistenziali a disposizione.
Il migrante, il militare.
Poco altro.
Provo a smontare un po' quell'intento.
La realtà è più complessa, difficile. Vivere al nord non è così semplice.
Nonostante tutto quanto passato in questi anni il nord sembra ancora essere quella meta mitica capace di accendere gli occhi di questi giovani. Come l'italia per gli albanesi agli inizi degli anni novanta, mossi da un immaginario del tutto sballato.
Così va la vita.
Meglio ingannarsi un po' pur di non essere schiacciati dal peso di vivere a metaponto specie in questi tempi neri.
Gonfio le gomme.
Per poter andare al mare in sicurezza.
L'idea è di fare un bagno ristoratore.
Nemmeno il tempo di qualche pedalata.
La ruota di prima si sgonfia ancora.
Questa volta è la valvola, scollatasi dalla gomma.
Andata.
Camera d'aria da buttare.
La sostituisco con quella aggiustata poco prima.
Mentre riparto un sibilo monocorde.
Viene dalla ruota davanti.
Ha ceduto anche lei.
La smonto.
Una vecchio buco ha ripreso a perdere.
Non ho ricambi.
Il buco è grosso.
Forse non più riparabile.
Ci provo comunque.
Alla fine pare tenere.
Fiuhhh.
Scampata pure stavolta.
Comunque niente camera di scorta.
In più le ruote non sono molto gonfie.
Urge daniele.
Lo vado a cercare.
Nelle vicinanze del suo garage chiedo a un signore sul terrazzo.
Daniele a quest'ora dorme.
Quello è il suo campanello.
Suono.
Ciao daniele ho un problema puoi scendere?
Vabbè anche se di solito apro più tardi.
Daniele è ancora giovane, ha un figlio, un po' di pancia.
Mi parla del suo garage.
Poi apre la saracinesca.
Si svelano uno alla volta tutti i suoi gioielli.
Rottami appesi.
Ruote.
Camere d'aria.
Attrezzi di tutti i tipi.
Ci tiene a riparare la gomma con il suo metodo.
Lo lascio fare.
Anche perché sono curioso di conoscere i suoi trucchi.
Dopo aver trovato il buco lo segna con del bianchetto. A questo punto fissa la camera al terreno con un piede tirandola poi con la mano fino a allungarla. Ora è il momento di carteggiarla. Nell'alone bianco ancora visibile applica la colla e dopo un po' la pezza. Per essere sicuri del lavoro la rigonfia e la ripassa nella bacinella dell'acqua.
Alla fine mi chiede due euro.
Glieli do volentieri.
Ci salutiamo calorosamente con una stretta di mano.
Paolo, daniele una lezione di vita.
Meglio una rivelazione.
La bici in queste terre desolate è ancora un mezzo popolare, dal basso. Un modo per fare aggregazione, per spostarsi economicamente. Tutto nasce spontaneamente. Dall'iniziativa di qualche appassionato. Come paolo con il suo gruppo o daniele con questa ciclofficina improvvisata nel garage. Contro tutti. Contro tutto. Contro soprattutto la cecità di certa politica dall'alto nei confronti della bici. A testimoniarlo l'assenza totale di piste ciclabili.
Di più.
L'impossibilità di pensare una mobilità in bici.
Da metaponto verso le altre città vicine solo una superstrada vietate ai mezzi a due ruote non motorizzati. In sostituzione della vecchia statale una volta aperta a tutti.
Altre strade per spostarsi non ce ne sono.
O la macchina o ciccia.
Incomprensibile tale anomalia. Al punto di essere indirizzato dagli stessi caramba verso la superstrada nonostante l'enorme cartello di divieto.
Incredulo indico loro la strada.
Dite quella là?
Siete sicuri?
Si quella.
Se lo dite voi.
Beh, siamo al sud no.
Tutto sembra possibile.
Oltre ogni apparenza.


Antonio
Sibari è vicina.
Ma non abbastanza.
Sono quasi le diciannove.
Tra poco scenderà la notte.
In più sono stanco.
La strada della morte, così la chiamano, mi ha messo alla frusta.
Non c'è più benza.
Fermarsi non si può.
Arrivare a sibari la meta indiscutibile.
Da lì alle due di notte parte l'autobus per lamezia terme per sperare poi un'improbabile coincidenza verso locri. Là c'è teo, uno degli abitanti di casa felice. Dove hanno abitato marco s, jacopo, alice, mara, debby, vince, riccardo... Insomma il famoso gruppo degli “antropologi” e affiliati. Teo compreso.
Un poco più avanti c'è una stazione di servizio con bar.
Come dovessi andare a fare carburante giro a destra.
Supero le pompe, parcheggio davanti al bar.
Un uomo con barba lunga, capelli lunghi mi viene incontro.
Da dove vieni?
E dove sei diretto?
È lui il barista.
Un personaggio anomalo.
Affatto in sintonia con quanti lì presenti.
Lo si percepisce a pelle, anche per i modi gentili con cui si propone.
Sono sfinito e mi devo ricaricare.
Un caffè.
Poi vedo sul banco la macchina della granita.
No una granita prima.
Il caffè semmai dopo.
Quanto fa?
Quello che vuoi.
No dai.
Costa due euro.
Uno può andare?
Ti avrei dato un euro.
Quando scopre l'origine bolognese fa una delle solite battute.
Bologna la grassa.
C'è stato.
Entra un cliente.
Un gratta e vinci.
Non li teniamo.
Rimango stupito.
Una tabaccheria senza lotterie e robe simili.
Strabiliante.
Guardo in giro.
Tutto è sobrio nella sua estrema semplicità.
Le scritte fatte a mano.
Un luogo come mi piacerebbe.
Da giovane ha fatto il sessantotto.
Ha viaggiato molto.
Eppure continua a dire di essere sfortunato.
Soprattutto quando gli chiedo come sia finito lì.
Affari andati male.
Ma non è questa la vera ragione.
Cinque anni fa la morte del figlio.
A ventotto anni.
Un colpo durissimo.
La vita stravolta.
All'improvviso tutto cambiato.
Da un vitalismo sfrenato al desiderio di non esserci più.
Per raggiungere chi è già andato.
Se non si è tolto la vita è solo per responsabilità verso gli altri due figli.
Allora meglio ritirarsi dal mondo.
Andato anch'esso con il figlio.
Lo capisco bene.
Gli ribatto.
Una sorella morta a ventisette anni.
Non lavoro.
Si ma la tua è una scelta.
Risponde saggiamente.
Pensa forse sia un barbone.
Non è così.
Nomade con rendita.
Pure la casa di proprietà.
Lasciata la società il suo unico trastullo è rimasto l'orto.
Lo cura con amore.
Non ha altro.
È l'unico luogo dove trova un po' di pace.
Alla fine mi offre sia la granita, sia il caffè.
Ci salutiamo guardandoci fissi negli occhi.
Poi una pacca forte con le mani.
Ecco.
Questa la missione di oggi.
Testimoniare della propria vita.
Esporre l'ecce marco.
A chi può entrare in sintonia.
Per una sensibilità comune.
Nonostante le differenze generazionali.
Grazie antonio per averlo permesso.


Superstrade
Da foggia a metaponto.
Poi lamezia terme fino a catanzaro lido.
Non prendo le solite stradine spesso rovinatissime.
Certo starei più in diretto contatto con i luoghi.
Ma la meta è la sicilia.
Qua sono solo di passaggio.
Così per fare prima prendo la superstrada.
Spesso in barba al divieto ben segnalato sul cartello d'entrata. Un cerchio rosso barrato con sotto la bici disegnata.
La sensazione è quella di stare nel far west.
Dove la legge non c'è, tutto è possibile.
Al punto di sentire la vertigine della libertà.
Da foggia a catanzaro senza incontrare case, persone. Relegate sui cucuzzi delle montagne, in luoghi separati dalla grande via per le auto. Un lungo viadotto privilegiato per i mezzi a motore. Oggi eccezionalmente aperto anche alla bianchi a due ruote.
Sono fortunato.
Non incontro pattuglie della polizia.
Quasi fossi protetto da un mantello capace di nascondermi.
Va bene così.
Per certi versi sembra di muoversi nel deserto.
Di lato spesso solo campagne arse dal sole, lunghe distese tutte uguali di piantagioni di pomodori, arbusti secchi, poi le impenetrabili montagne lucane boscose, le dolomiti di quaggiù.
Ogni tanto qualche stazione di servizio.
Una manciata tutto considerato.
Come la manna mandata dal cielo per prendere un po' di acqua, del cibo.
Non c'è altro.
A lasciare perplessi l'enorme quantità di rifiuti a lato della carreggiata. Un continuum senza interruzioni di sorta.
Bottiglie, cartacce, pezzi di gomma, elastici da camion, pomodori volati via dai tir.
Gettare oggetti dalla macchina una prassi comune.
Quasi uno sport.
A perderne un po' il paesaggio.
Ma cosa vuoi che sia.
Qui tutto è bello.
La natura, i monumenti.
Fino all'eccesso.
Alla fine ci si abitua.
A fronte di tanto splendore, per una legge di compensazione, non si può agire se non per rovinarlo. Una legge dialettica, del negativo, duale.
La perfezione non è di questo mondo.
Quando fa capolino la si può solo martoriare.
Al limite schernire, crocifiggere.
Forse perché insostenibile.
All'inizio ci si rimane male.
Anche perché ancora fresco è l'ordine visto di recente in francia. A suo modo un'altra forma di eccesso.
Dopo essersi immersi per svariate centinaia di chilometri ci si abitua un po'. Più ci si addentra più la situazione sembra peggiorare.
Non è raro fare l'incontro con carogne di cani al sole con il teschio oramai in evidenza. Ricci, gatti, volpi, spiaccicati come solette. Incontro persino un tassone. Un grosso tasso gonfio con le zampe all'insù.
Si dovesse arrivare sul punto di morire di fame non sarebbe un problema. Oltre i pomodori ci si può imbattere in meloni gialli, panini morsicchiati, bottiglie piene di acqua, di liquidi colorati. Anche nei più incontaminati parchi lucani la situazione non cambia. Lo stesso identico scenario, la stessa abitudine inestirpabile.
Stando così le cose, quasi per contrasto, ti viene naturale raccogliere fino all'ultima briciola per non lasciare nulla a terra.
Eppure non bisogna lasciarsi andare con troppa facilità a dei giudizi sommari.
Piuttosto è meglio provare a capire.
Come si può essere arrivati a tanto?
Quali cause profonde hanno alimentato tali comportamenti?
Pulitissimi in casa.
Sporchi già davanti al portone di casa sovrastato da cumuli di immondizia inevasa.
Il bene comune un concetto astratto, utopico.
Cosa ci vuoi fare.


Giro giro tondo
Aveva pedalato tutto il giorno.
Dalla locride la mattina presto fino alla costa nord della sicilia. Scavalcando il promontorio di tindari con il suo santuario mariano aveva raggiunto patti, la città di marco s. Duecento chilometri tondi. Scenari più gentili si erano sostituiti a quelli tristi della calabria. Depressa da sempre, terra dell'abbandono, della fuga di generazioni intere. In sicilia i colori erano più vividi, le persone con il sorriso, gli ambienti più umani. Un mondo vivo con gente rilassata, fiera del proprio territorio, a condurre una vita tutto sommato normale in un territorio verde boscoso spesso fino al mare incontaminato. Una sicilia magica.
Nessuna pausa dopo l'arrivo.
Il tempo di prendere una doccia.
Già di nuovo nella mischia.
Direzione sorrentini con la processione delle panurie per celebrare san teodoro martire morto al rogo inneggiando a dio durante l'impero romano. La festa popolare si svolge all'interno di questo piccolo borgo poggiato sui costoni delle montagne prima di scivolare a mare. È un rito antico molto sentito da queste parti. Pochi i forestieri. Anche quelli giunti da fuori sono in qualche modo legati a un antenato autoctono, uno zio, un nonno emigrato mezzo secolo fa nel nord europa o addirittura in america.
Tutti possono partecipare.
Basta prendere prima un mazzo di panurie. Delle fiaccole di ramoscelli secchi distribuite nella piazza principale del paese dove c'è la chiesa con l'icona del santo. Una volta accese, ci si mette in fila su due colonne per dare avvio alla processione notturna lungo la via principale per tornare poi indietro fino alla piazza. Lo scopo far ardere le fiaccole più possibile fino a quasi scottarsi le mani. Una volta bruciate quasi del tutto le si getta lungo la strada non prima di averne accesa un'altra. Lo scopo è imitare il sacrificio del santo, giocando al limite con il fuoco. Una prova di coraggio, di sopportazione, di sacrificio. Tutti i partecipanti, soprattutto quelli più anziani sono visibilmente eccitati, quasi posseduti dal fuoco.
Siete nuovi?
Ah vedrete a breve cosa succederà!
In paese questa manifestazione è molto sentita al punto di accrescere o meno il prestigio dei partecipanti. Tutto dipende dalla capacità di prolungare la vita della fiaccola il maggior tempo possibile prima di buttarla a terra per non scottarsi seriamente.
Durante la processione è tutto un danzare col fuoco. Anche perché le panurie non ancora troppo secche non accettano di buon grado di lasciarsi divorare dalle fiamme. Ecco allora i presenti avvicinare le fiamme spente a quelle accese per ravvivarle. In un gioco di solidarietà reciproca. Qualcuno riesce a riattizzarle solo agitandole con forza. Alla fine quanto rimasto di non arso viene buttato in mezzo alla piazzetta per attizzare un grosso rogo. In breve le fiamme si alzano veloci spinte dal forte vento. È il momento di dare inizio alle danze. La banda del paese composta di ben venti elementi comincia a suonare all'impazzata motivi popolari più o meno famosi per incitare i presenti come dovessero andare in battaglia. Tutti si cingono attorno al fuoco frementi. All'improvviso il “sacerdote” della cerimonia da inizio al rito. Uno dietro l'altro ci si prende per mano fino a chiudere un cerchio mentre si corre intorno al fuoco. In poco tempo si forma un anello danzante. I più arditi in prima linea quasi a contatto col fuoco. Gli altri rimangono tutt'attorno a incitarli forte. Di colpo la piazza si riempe di gente in ogni suo spazio fino a gremire le scalette di fianco la chiesa. Come fossero sui gradini di un piccolo teatrino popolare. Tutti a muoversi, danzare, battere le mani. Ogni tanto qualcuno rotti gli indugi rompe il cerchio per entrare e sostituire quelli più stanchi non in grado di tenere il ritmo. Senza fermarsi mai si continua a correre, a danzare sempre più forte intorno al fuoco a ritmo di musica. Flirtando con le fiamme agitate dal vento quasi fossero vive. Un crescendo da paura. Con le mani a stringere i polsi del vicino per non cadere, non rompere il cerchio. Difficile resistere a quel moto nervoso se non si è preparati. Pericolosissimo lasciare la presa. Pena il rischio di inciampare e di cadere tra le fiamme. Una decina di giri vorticosi. Poi un segnale preciso, netto. Ooppp. Via dall'altra parte. Poco dopo un altro oopppp. Si cambia ancora. La tensione sale. Tutti vogliono gettarsi tra le fiamme. Ecco allora formarsi un altro cerchio in direzione contraria. Poi un altro ancora a cingerli entrambi. Tutti a girare per non so quanto al punto di perdere il fiato. Ma nessuno si ferma. Sollecitate dal fuoco vengono fuori energie inattese. Minuto dopo minuto il fuoco si fa più forte quasi a lambire le superfici nude dei danzanti, a bruciare. Niente da fare. Come nulla fosse si continua a correre all'impazzata. Per dieci, venti, trenta minuti... Un caldo madornale. Nessuno molla la presa. A denti stretti con la maglietta fradicia di sudore si tiene duro fino alla fine. Con il sorriso in volto, il fiato alla gola. Anche i novelli hanno assolto bene il loro compito. Non più vergini sono stati iniziati al rito del fuoco. Da questo momento non sono più stranieri. La gente per strada ti saluta, ti riconosce. Si brinda insieme con la birra guardandosi profondamente negli occhi. Ancora un ultimo sorso per recuperare e via verso casa. Perché l'indomani si parte presto. Direzione niscemi. Dove ci sarà la manifestazione contro il MUOS un sistema militare di antenne americane per dirigere meglio la guerra su tutto l'emisfero. Per portare morte e distruzione.


Janky go home, janky go home, janky janky janky go home
Si vorrebbe andare a niscemi.
Ma non ci sono i mezzi.
A mali estremi estremi rimedi.
Si parte la mattina presto in stop.
Così come viene.
Sveglia alle otto e trenta.
Giusto il tempo di ricevere un provvidenziale messaggio di filippo.
Due posti disponibili.
Ci siete?
Nel caso tra quindici minuti in piazza.
Il tempo di rispondere all'essemmesse e si è già per strada con il sacco a pelo. Un passaggio veloce per un panino farcito spettacolare necessario per recuperare le energie spese la sera prima. Uno a testa al costo di 2 euro e cinquanta entrambi. A patti se dici panino tutti pensano a faranda. È come entrare in un'altra dimensione dove a contare sono altri valori. Un signore anziano di corporatura slanciata, vestito tutto di bianco ti accoglie con il sorriso. Come lo facciamo questo panino. Con la provoletta? E non ci mettiamo pure un pomodorino secco? Mentre taglia il panino con amore lo vedi stare bene, realizzarsi. Naturale considerarlo un nonno acquisito. Un patrimonio da salvaguardare a tutti i costi.
All'uscita del negozio incontriamo l'animatore della festa di san teodoro. Sentita la nostra meta corre verso la macchina. Prende una maglietta con la scritta “al MUOS noi preferiamo i MUSE” e ce la consegna.
Portatela voi.
Non posso essere dei vostri.
Stasera la festa al paese continua.
Non posso mancare.
E via.
Si parteeee.
Tre ore di viaggio verso il profondo sud della sicilia passando a fianco di sigonella, una delle basi americane più grandi d'europa, per arrivare infine al presidio degli attivisti no-MUOS.
Altri scenari rispetto al nord.
Qua la terra è arsa dal sole.
Poca la vegetazione.
Sembra di stare nel deserto.
Al presidio non c'è l'affollamento dei tempi migliori.
Alla fine saremo mille e cinquecento persone una più una meno. Molti attivisti siciliani, ma anche tanti forestieri, compreso un nutrito gruppo di francesi, di spagnoli.
Alle tre comincia la manifestazione.
Il solito corteo.
I soliti slogan.
Come un lungo serpente ci si dirige attorno al recinto della base americana a cingere l'intera collina dove sono state già istallate tre grosse antenne paraboliche.
Un altro cerchio ancora, un'altra danza.
Marcati a uomo da un nutrito manipolo di celerini schierati dall'altra parte della rete.
Un passo noi, uno loro.
Come un'ombra silenziosa.
La cerimonia va avanti per svariati chilometri sotto un sole rovente. Qualcuno trova riparo sotto una grossa bandiera palestinese stesa a mo' di testuggine. Altri a petto nudo fanno della loro maglietta una fascia per coprire la testa. Si va avanti così come fosse un tranquillo corteo con i bambini, le famiglie, i giovani. Ma è solo la preparazione per l'evento clou. Tutti lo sanno in cuor loro. I manifestanti, i celerini. Si aspetta pazientemente facendo finta che. Poi quando sembrava impossibile ogni intervento ecco il colpo di scena. Tutti si riversano sulla rete cominciando a strattonarla. Un minuto e quarantotto per aprire un varco con le tenaglie con la polizia a picchiare con i manganelli la testa di ponte. Ma non basta. Il buco si fa sempre più grande. Impossibile contenere tutti. Ecco lo sfondamento. Con le mani alzate in segno di non violenza quelli avanti entrano repentini. Questa volta la celere si ferma. Inutile continuare con la violenza. In pochi istanti mille persone entrano di corsa dentro la base guadagnando la vetta della collina. Lo scopo è andare a riprendere i sette ragazzi appollaiati da una settimana su altrettante antenne di appoggio al MUOS. Grazie a questa mossa sono riusciti a fermare l'attività della base per sette giorni, a rischio della propria vita. A questo punto con tanta gente dentro ogni scenario sembra possibile. Si potrebbe restare dentro. Mantenere il nuovo presidio tutta la notte in attesa di rinforzi. Sarebbe un duro colpo per le autorità.
In tanta foga si prova a mettere in piedi un'assemblea volante. Mille persone in cerchio a discutere concitatamente.
Poi il colpo di scena.
L'arrivo dei celerini a circondarli.
Senza perdersi d'animo si continua a parlare. In una situazione surreale. Con le forze dell'ordine a fare da parete.
Poca la convinzione dei presenti.
Già dopo pochi minuti molti tornano giù.
Basterebbe solo un po' più di coraggio, di immaginazione.
La stessa determinazione leggibile negli occhi lucidi di marco s.
Non va come si sarebbe sperato.
Alla fine rimangono in sessanta.
Che fare.
Continuare ancora?
Uno dopo l'altro decidono di tornare sui propri passi per guadagnare la via verso il varco a monte attraverso un corridoio di celerini con la tuta da robocop.
Marco s è tra gli ultimi a lasciare il presidio.
È incazzato nero.
Lentamente percorre quel corridoio umano guardando fisso negli occhi quei celerini anonimi come automi.
Un passo dopo l'altro.
Senza fretta.
Tanta la sproporzione.
Decidono di rimanere in dieci.
Il nucleo dei pacifisti.
Verranno sgomberati di peso fino all'uscita.
A restare ancora due attivisti sulle antenne.
Un tentativo lucido quanto disperato per non concludere lì la serata, per attivare nuove forze, nuove azioni l'indomani.


E critical mass fu
A patti poca la gente in bici.
Meglio spostarsi in macchina.
Al limite a piedi.
Anche perché tra la città vecchia e quella nuova sul mare c'è una salita non indifferente. Se la si volesse percorrere fino in fondo si arriverebbe a randazzo sui nebrodi. Dopo circa quaranta chilometri di pendenza continua. Poi solo discesa fino alla piana dell'etna.
Naturale i giovani preferiscano il motorino.
Meno fatica.
Ma per chi è abituato a bologna, al popolo dei ciclisti, alla critical mass tutto questo non è tollerabile.
Questa mattina niente storie.
Si va al mare in bici.
A sette chilometri una baia da favola.
La sera prima si sparge la voce in giro.
Poche le speranze di trovare ciclisti di buona volontà l'indomani.
Ma sarà per l'arrivo di marco zen con la bici da corsa dal continente dopo aver pedalato per circa ottocentocinquanta chilometri, vuoi per il programma marines, ovvero il tentativo radicale di allenare le fiacche membra già stabilito da giorni, alla fine ci si trova al bar in sette. Un vero e proprio miracolo. Un numero di ciclisti mai visto prima a patti. Sebbene con le bici non del tutto pronte a uscire dai rispettivi garage. Prima di andare bisogna togliere un po' di ruggine.
Una è buca.
Un'altra ha la sella troppo bassa.
Non c'è problema.
Marco zen ha portato tutti gli strumenti necessari per una veloce riparazione di fortuna. Una piccola ciclofficina ambulante. In poco tempo si ripara la camera d'aria con una pezza. Si toglia la fatidica spina dal copertone per non bucare di nuovo. E via si può partire. Per fermarsi pochi metri dopo. Ciccio con il fedele cane al seguito non va. Ha la catena sulla corona piccola, quella per la salita, non riesce a cambiare. Un giro di brugola dopo aver tirato il filo, anche questo problema risolto. Ora ci si può lanciare a tutta birra giù per la discesa verso il mare.
Marco s intona pure qualche coro da critical mass.
Del tipo: la macchina non va più, inquina, va solo a benzina, la macchina non va più... ciuff ciuff...
Voilà improvvisata la prima massa critica di patti.
Ciccio però non riesce a tenere il passo.
Questa volta a trattenerlo è jager, il cagnolino legato al guinzaglio.
Di correre proprio non ne vuole sapere.
Sarà per il caldo afoso della giornata.
Urge subito una soluzione.
Lo zainetto.
Jager non senza opporre resistenza viene messo dentro il sacco con la testa di fuori. Non prima di aver assicurato la cerniera con una fascietta di plastica per non vederselo uscire all'improvviso.
Finalmente si va davvero.
Tutti i raga sono pieni d'entusiasmo.
C'è chi urla.
Chi si getta a capofitto per le discese a testa bassa.
Prima della grande salita finale.
Lì a prevale sono i veterani, quelli più avvezzi a pedalare.
Alla fine si arriva tutti.
Compresi ciccio e jager un po' attardati. Ad aspettarli i primi arrivati a fare il tifo lungo la strada neanche fosse la conclusione di una tappa alpina.
In piedi sui pedali.
I muscoli tesissimi.
Con jager dentro lo zaino con la lingua di fuori a ciondoloni. Come fosse lui a pedalare.
Un'ultima pedalata.
E vai.
L'intera truppa è arrivata a destinazione.
Parcheggiate le bici, via giù verso la spiaggia incontaminata lungo il sentiero scosceso.
Il programma marines va avanti.
Appena scesi in spiaggia ci si butta subito in acqua.
Direzione lo scoglio lì davanti.
Un piccolo tuffo per raggiungere a nuoto i confini della piccola baia, per poi tornare indietro fino al punto di partenza sulla spiaggia.
Stremati ma felici si torno a casa. Per puntare diritti verso la prima gelateria. Ad attenderli il meritato premio. Una granita alla fragola con brioche e panna. La loro droga quotidiana.
L'indomani appena usciti di casa si vede i raga scendere a valle in bici.
Andata.
Nulla sarà più come prima.
Una nuova mobilità sembra possibile anche quaggiù.


Alcantara
Si riparte.
Ancora freschi i piacevoli giorni a patti.
La sensazione di essere stati a casa tra amici.
La nuova meta l'etna. Il vulcano riattivatosi prepotentemente in questi giorni al punto di riuscire a vedere i suoi rigurgiti dall'alto di tindari a circa cento chilometri di distanza. Vomiti di luce rossa intensa sopra il profilo nero dei nebrodi all'orizzonte. Mentre sia a est verso milazzo, sia a ovest in direzione di sorrentini si giocava con i fuochi d'artificio. Bello l'effetto. Ma non è la stessa cosa.
A coronare la serata appena passata una luna piena intensissima sopra i monti, dalla parte opposta del mare, della baia illuminata di tante luci. Con il teatro greco ai nostri piedi. La meta prossima all'indomani, per vedere lo spettacolo dell'alba sul mare seduti sugli spalti in pietra.
Prima però bisogna entrare.
Niente paura.
Un tocco di magia e voilà.
Il cancello ha il lucchetto aperto.
Lentamente ci accomodiamo in silenzio per vedere l'entrata in scena del sole.
A precederlo una luce rossa intensa.
Alla fine eccolo sorgere all'orizzonte.
Si comincia con una piccola punta.
Poi uno spicchio più grande in crescendo.
Staccatosi lentamente dal mare ecco dipingere dall'alto una lunga scia rossa fino a lambire la costa.
La luce si fa man mano più intensa.
I colori più tenui.
Anche questa volta il giorno ha prevalso sulle ombre, sulla notte.
Non c'è più tempo.
È ora di tornare alla base.
Dopo essere arrivato alle pendici del vulcano scopro di non avere più il cellulare. Quasi un segnale di volersi spogliare di più. Tagliare ancora con quanto è stato per essere più in contatto con la realtà presente. Nella fattispecie un gruppo di brasiliani. Anche loro arrivati prima del tramonto per vedere le gole dell'alcantara (l'accento va sulla prima a, non sulla seconda) a una manciata di chilometri da l'etna. Con loro risalgo il fiume a nuoto nonostante la forte corrente. Naturale contaminarsi, familiarizzare. Il direttore d'orchestra rimasto prudentemente a riva confessa in un italiano tutto sommato comprensibile di aver pensato fin da subito questo è un ragazzo simpatico.
Mi invita al loro spettacolo.
Troppo fuori mano per andare.
Peccato.
Avrei voluto essere della balotta.
Prima di riprendere i rispettivi cammini ci stringiamo calorosamente la mano.
Loro a limini per suonare, cantare, danzare.
Io a francavilla sicula in cerca di cibo, di umanità per scambiare quattro chiacchiere, magari risolvere la notte.
Alla proloco mi consigliano una trattoria lì vicina.
La trovo con facilità a pochi isolati più avanti.
Entro.
Ad accogliermi il padrone di casa.
Metto subito in chiaro di non poter spendere molto.
Viaggio in bici, soldi non ce n'è.
Il titolare senza perdersi d'animo mi risponde di avere in simpatia i ciclisti. A testimoniarlo una grossa foto di nibali. Il recente vincitore del tour di francia, pure lui di queste parti.
Quanto vuoi spendere?
Cinque euro più o meno.
Eeeehhh... mi risponde in dialetto.
Dai siediti.
Antipasto, primo, secondo va bene?
Prendi pure il vino.
Se ti piace alla fine te ne do una bottiglia.
Ah un consiglio.
Prendi i maccheroni fatti a mano da mio padre.


Fascinans et tremendum
Aver raggiunto la vetta, essersi persi nel deserto nero di sabbia grossa rumorosa sotto i piedi, essere arrivati al punto più prossimo alla bocca del vulcano. Senza però vedere la lava viva. Solo tanto fumo. Qualche sbuffo improvviso partire dalla superficie.
Pochi chilometri più a valle la montagna si erge maestosa.
Da quella distanza mostra il suo volto senza barriere.
Impossibile resisterle.
Naturale fermarsi.
Trovare un posto per godersi lo spettacolo.
Appollaiato su di un alto ammasso lavico a lato della strada guardo l'etna sputare ceneri con fragore.
Seduto sopra la pietra nera di una precedente colata non si sta comodi.
La roccia è tagliente, tutta fronzoluta.
Piccoli spuntoni dappertutto.
Duri, affilati.
Neanche a pensarci di sdraiarsi.
A meno di non avere doti da fachiro.
La bici è parcheggiata poco più in là poggiata sul gard rail.
Sarebbe bello passare la notte qui.
Ma la vita non sembra essere di queste parti.
Almeno non ancora.
In più si è alzato un vento freddo.
Il giubbino tecnico non basta.
Davanti il vulcano non smette di produrre fumo in continuazione accompagnato da un rumore ritmico a cascata. Quasi stesse per venire giù il mondo. Una scala atonale discendente potentissima. Il suono della caduta, della materia in trasformazione. I vagiti di un parto sofferto. L'urlo della terra squarciata. Un respiro disumano.
Il sole è oramai alle corde.
I raggi radenti colorano quel fumo di bianco per poi virarlo verso il rosa. Dalla base della cima c'è gran fermento. Fumi di zolfo si alzano dalle tante ferite aperte. Fortuna il vento a spirare verso sud. Sennò ceneri, odori acri, solfurei a impregnare la zona.
Impossibile rimanere indifferenti.
Come me, altri visitatori si fermano.
Accostano la macchina per vedere quello spettacolo in silenzio. Una volta sazi pigiano l'acceleratore per tornare in luoghi meno ameni.
Vorrei stare qui.
Vivere lo spaesamento.
In questo luogo non fatto per l'uomo.
Anche perché varrebbe la pena abituarcisi.
Almeno provarci.
Ma le membra stanche reclamano un posto morbido senza vento. Un luogo addomesticato. Tra l'altro l'acqua è finita. Da mangiare c'è solo le crocchette secche alla soia.
La luce è sempre più fioca.
La montagna comincia a mostrare delle vene rosse.
Dentro scorre la lava incandescente.
Non fosse per il rumore dell'eruzione, per quei segni di fuoco, la nuvola di fumo oramai colorata di rosa intenso potrebbe rimandare a uno di quei paesaggi sospesi immortalati da poussin. Ma l'apparenza estetica contraddice la realtà. Anche perché dal cratere più basso all'improvviso si alza una cortina di fumo nero a coprire tutto.
Non so quanto resisterò.
Fa sempre più freddo.
Ancora pochi minuti e la via di fuga verso milo non sarà più agevole.
Come incantato non riesco a muovermi.
La notte si avvicina.
Lo si sente dall'aria sempre più rigida, umida.
Basta.
Alzo i tacchi.
Mi va bene.
Appena tre, quattrocento metri.
Un ristorante sulla strada.
Entro con la bici dentro il cancello.
Chiedo accoglienza per la notte.
La direttrice in dolce attesa, tutta vestita di rosa acconsente.
Non è la prima volta a trovarsi a assecondare tali richieste.
Solo non devo farmi vedere troppo in giro.
Per non disattendere le aspettative dei clienti.
Rimedio pure una parca cena vegetariana.
Allo stesso prezzo del giorno prima.
Però se vuoi un bicchiere di vino della casa costa due euro.
Vabbè non sempre le ciambelle escono con il buco.
È ancora presto.
Le membra fiaccate prima dalla irta salita di diciotto chilometri in bici fino a piana provenzana, poi dalla difficile scarpinata sul sentiero sterrato per raggiungere la vetta reclamano un giaciglio senza se, senza ma.
Dopo aver finito di gustare il buon bicchiere di vino mi ritiro.


Verso il sud del sud
Alla fine mi hanno sgamato.
Costretto per l'ennesima volta a prendere l'autostrada dopo appena una decina di chilometri vengo affiancato da una volante della stradale. Per arrestarsi poco più avanti con le luci blu accese.
Un poliziotto scende dalla macchina.
Le dovremmo fare la multa.
Le strade di quaggiù non sono fatte per le bici replico deciso.
Da dove vieni.
Dal nord.
Ti accompagniamo fino alla prossima uscita.
Scortato vengo sdoganato in una più consona strada provinciale in culo al mondo.
Per niente facile orientarsi.
Anche perché le indicazioni sono assai approssimative.
Alla fine dipano il bandolo della matassa.
Sono a poco meno di venti chilometri da siracusa.
Giusto per poter ammirare da vicino lo scempio dell'uomo a questa terra una volta magnifica. Il luogo prescelto da tante civiltà passate di certo più civili.
Un susseguirsi di ciminiere, cisterne per contenere il greggio, gasdotti.
L'aria è acre, puzzolente.
Gli occhi bruciano.
Ben altro scenario rispetto la trasformazione creativa dell'etna. Qua a prevalere è solo la morte, la distruzione irreversibile. Senza possibilità di replica.
Anche il paesaggio della strada si è adeguato a tale logica. Pannelli pubblicitari immensi sorti sopra uno sporco diffuso. Neanche fossimo nei pressi di una bidonville africana o del sud america.
Alla fine anche siracusa è raggiunta.
Una breve sosta sotto l'ombra di una pianta per assaporare l'acqua imbevibile di una fontana lì nei paraggi. Avvolto da un caldo afoso come non mai. Fino a togliere il respiro.
Il cammino è ancora lungo.
La speranza di arrivare dalle parti di scicli per le sette.


Carrube
Impossibili avere informazioni sicure.
C'è chi parla di trenta chilometri, di cinquanta.
Poi dopo venti chilometri oramai a avola ti senti dire da un giovane ciclista ancora sessanta per scicli. E non vorresti crederci ma sai essere quella la distanza giusta. Di un ciclista ci si può fidare. Non fosse per un vento bestia contrario, la strada leggermente in pendenza, un sole impossibile, la mancanza cronica di acqua non ci sarebbero stati problemi. Anche a causa delle salite dei giorni precedenti poca la benza nel serbatoio. Le gambe imballate di acido lattico, la gola secca nonostante tonnellate di acqua calda ingurgitata. Anche i cartelli stradali danno i numeri. Modica venti chilometri. Per scoprire dieci chilometri dopo di avere ancora la stessa distanza.
Consolatorio il paesaggio intorno bellissimo.
Tanti giardini coltivati prevalentemente a mandorleti, a carrubi. Oltre naturalmente gli immancabili olivi.
Stremato.
Senza più energie.
Mi fermo a raccogliere una manciate di carrube.
Il cacao dei poveri.
Direttamente dalla pianta.
Poi ne mangio un po'.
Il resto lo immagazzino nel sacco davanti.
Non si sa mai.
Per bere chiedo a quei pochi contadini incontrati lungo la strada. Gentilissimi mi riforniscono di acqua freschissima.
Rigenerante.
Bassissima la velocità.
Le gambe non vogliono saperne di fare il loro lavoro.
A vista sembra tutta piana.
Ma è solo una pia illusione.
Un costante salire leggero per trenta chilometri.
Più difficile della scalata dell'etna con questo vento contrario. Al punto di sovrastare la musica negli auricolari tanto fischia forte.
Cerco di prenderla con filosofia.
In certi momenti mi parte una risata fragorosa.
Per la situazione inimmaginabile fino a poco prima.
Anche per scaricare un po'.
Mai percepita così forte l'idea di deserto.
Mi vengono in mente i nomadi col cammello arsi dal sole.
Ma pensare non aiuta.
Meglio pedale e basta.
Per diventare un ingranaggio della bici.
Funziona.
Rispetto pure le previsioni di arrivo con un ritardo di soli quindici minuti.
Una bazzecola per chi è abituato al quarto d'ora accademico.


Scicli
Dieci euro.
Troppi.
La valle dei tempi di agrigento può rimanere nei libri di storia, in quelle poche immagini catturate dalla strada statale a fianco dell'acropoli.
Va bè la panchina da dove sto scrivendo è proprio davanti alle colonne di uno dei templi più famosi.
Così vicino così lontano.
Attorno tanti ruderi in pietra oramai parte del paesaggio di questi luoghi. Un ambiente naturale ameno, arcano fino a risultare disumano, invivibile. Lontana memoria di un popolo mitico scomparso da tempo.
Impossibile evitare il confronto con scicli.
Una perla al sud della sicilia.
La scoperta sublime di poche ore prima grazie a debby.
Già qualche giorno prima c'era stata noto.
Dieci minuti per rimanere incantati dalla via principale della città con tutti i suoi principali monumenti in mostra. Soprattutto palazzi signorili, chiese rigorosamente tardo barocche. Uno spettacolo artificiale. Come si fosse entrati dentro un grande palcoscenico di un teatro ancora vivo. Impressionante la forza emanata da quelle colonne marroni chiaro della stessa pietra dei templi di agrigento, dalle linee dinamiche dei cornicioni, delle finestre con gli stucchi. Un aggiornamento della lezione romana dei vari michelangelo, guarini al gusto barocco rococo di queste parti.
Ma a sorprendere ancora di più è scicli.
Primo perché inaspettata.
Secondo perché l'architetto scenografo che l'ha pensata è un pazzo visionario capace di portare l'effetto trompe d'oeil di quella macchina scenica al più alto vertice espressivo. Aiutato certo dalle naturali aperture di un ambiente roccioso suggestivo, da quanto era sopravvissuto della città vecchia medioevale dopo il terremoto purificatore della fine del seicento, dalle grotte troglodite scavate sulla roccia dagli abitanti del luogo.
Ecco la prima piazza.
Sullo sfondo la chiesa del carmine.
La facciata stretta, tutta slanciata verso l'alto anche grazie alle statue ai lati su più livelli. Tutte in tensione, sospese in un movimento drammatico quasi fossero state forgiate da abili scultori gotici d'oltralpe.
Ecco chiarirsi la prima intuizione abbozzata già a noto.
Emergere ora con ancora più forza.
Il barocco è la naturale prosecuzione del gotico. Là le alte colonne massicce come alberi slanciati nervosamente in cielo, le facciate dalle linee tese sormontate da statue dalle linee pulite, essenziali a descrivere un mondo drammatico in piena trasformazione, abitato da entità spirituali quali mostri, angeli, madonne bloccati nel loro movimento non risolto. A mimare il medesimo dinamismo della materia, la sua trasfigurazione ad opera di forze sovrumane, oscure, terribili quanto affascinanti.
Qui la stessa tensione però in un ottica più orizzontale. Conseguenza dell'apertura profana del mondo a uno spazio rappresentato da vivere, gustare in tutta la sua complessità. Spalancato verso dimensioni infinite. Certo lontano ricordo la tragica drammaticità gotica tutta verticale. Là a prevalere era la tensione verso dimensioni ultraterrene, per cercare l'unica via possibile verso il cielo. A scicli a affermarsi è piuttosto il movimento puro, la forma viva capace di dilatare le linee in curve. A sottolineare la forza esplosiva della materia impossibilitata a essere contenuta in una forma data. Ecco allora la fuga folle di linee di cornicioni spezzati, convessi o concavi non importa. L'importante era rompere la focale prospettica rinascimentale per aprirsi al multiverso, all'acosmismo, per esploderla in mille direzioni diverse. Come se tutto fosse sul punto sogliare di trapasso. Complice anche lo sguardo vivo dello spettatore, del suo punto di vista cangiante capace di cogliere le mille sfumature possibili basta solo non fermarsi. Come si fosse dotati di un potente grandangolo con cui guardare il mondo per accentuarne la fluidità. Basta entrare dentro la chiesa di santa teresa per rendersene conto.
A agevolare tale effetto l'ambiente naturale della città adagiata su tre vallate contigue. Non un vero centro, ma tanti percorsi possibili dove smarrirsi. Cominciare a passeggiare in una via per perdersi in un coacervo di architetture spezzate, irregolari, anarchiche, discontinue. Impossibile venirne a capo. Ci si può solo smarrire in tale labirinto. Per poi essere folgorati dall'apparizione di una chiesa emersa all'improvviso in fondo a una piazza, a ridare un po' di ordine. L'effetto spiazzamento è assicurato. Roba da rimanere senza fiato.
E che la piazza non sia più quel luogo chiuso a circoscrivere ogni eventuale punto di fuga ce lo dimostra il palazzo posto ad angolo in una prospettiva di tre quarti con le scalinate ai fianchi. Un innesto potente dentro il canonico tracciato rettangolare della piazza per aprirla verso vie inattese. Mentre la perdita di un punto privilegiato per decidere ad esempio l'esito di una facciata ce lo afferma con forza san bartolomeo con la sua superficie scenica a tutto tondo. Basta spostarsi di fronte, poi di lato per avere nuovi punti di vista possibili, per articolare nuove prospettive, nuove forme inaspettate, convesse, poi lineari e così via.


La scala per il paradiso
Appena superato agrigento all'uscita della statale 615 c'è porto empedocle. Dopo dodici chilometri di lungo mare straffollato si arriva a un luogo assai famoso.
La scala dei turchi.
In molti a preannunciarlo lungo il cammino.
Vai a agrigento?
Passa di là.
Troverai tantissima gente a vederla.
Queste le premesse.
Vabbè.
Dopo centotrenta chilometri in bici con il maestrale contro mi accollo altri venti chilometri di via crucis.
A spiegarmi bene i segreti del vento da alcuni giorni sempre contro è un pescatore per hobby, venditore di cocomeri, angurie di professione.
Il vento qua è maestrale o scirocco.
Dura tre giorni.
Il primo nasce.
Il secondo si rafforza.
Il terzo muore.
E oggi è il secondo giorno.
Spiegata la tanta irruenza.
Ora è tutto chiaro.
Dopo aver addentato con la stessa foga di un sopravvissuto una grossa fetta di anguria a un euro riparto.
Direzione sta mitica scala.
Una parete rocciosa bianca bianca a scendere sul mare in verticale prima di formare una baia da favola.
Così si narra.
Andiamo a verificare di persona.
Superato porto empedocle si arriva a un certo punto a una salita ripida con un cartello.
Cinquecento metri per la scala dei turchi.
Così c'è scritto.
Ma vatti a fidare.
La via più breve è quella su in cima dopo il ristorante.
Così dicono tutti.
Arrivato parcheggio alla bell'e meglio la bici.
Una marea di gente lungo la strada.
Vista l'ora tarda in molti se ne stanno andando.
Una fiumana incontenibile sospinta a forza dal maestrale fino a valle.
A ritroso lungo la corrente si riesce infine a guadagnare la porta d'entrata.
Da lì un sentiero stretto in ghiaia scende fino alla spiaggia situata molto più in basso a mo' di mulattiera.
Stretta la via per non essere d'ostacolo a quanti affaticati cercano di guadagnare l'uscita.
Accecati dalla stanchezza non fanno nulla per evitarti.
Dopo un po' si arriva a mare.
Ma il luogo agognato non è là sotto.
Occorre percorrere ancora altra strada.
Passando per una spiaggetta bellissima stracolma di bagnanti.
Anche qui in molti si dirigono verso la collina.
Altri controcorrente risalgono quel flusso.
Alcuni hanno il corpo bianco d'argilla.
Sembrano fantasmi.
A un certo punto si apre uno scenario da paura.
Una lunga salita liscia, bianca per arrivare in cima alla montagna d'argilla.
Sarà per il sole basso sul punto di tramontare fino a allungare le ombre a dismisura.
Sarà per la fila ordinata di gente intenta a salire.
Da lontano sembra una scala per il cielo.
Con le anime ondeggianti pronte per il grande salto.
Una scena mistica degna del bosh più ispirato.
Mi mescolo ai tanti spiriti inneggianti.
Intonando un canto di lode mi avvio a salire con lo sguardo basso, tutto concentrato.
A attirarci una sinfonia angelica ammaliante sebbene l'ascesa non sia agevole. Un forte vento agita gli spiriti fino a spogliarli di quegli orpelli oramai inutili, levigando fino a smussarli tutti quei pensieri negativi. Un modo efficace per prepararsi al grande salto, all'illuminazione finale.
La strada liscissima, bianca come la neve, le striature orizzantali tutte alla stessa distanza come si stesse salendo veramente una scala accentuano tale sensazione mistico-mitica.
A grattare la superficie fino a renderla levigatissima la sabbia pungente come aghi sottili sospinta con veemenza dal vento.
Arrivati in cima si apre all'orizzonte una baia, una rientranza naturale delimitata dalla barriera bianca argillosa neanche si fosse a dover.
In cielo il sole ancora alto è pronto a tuffarsi in acqua colorandolo di mille sfumature. Intanto una luce brillante riflessa dalla superficie del mare investe prepotentemente le anime in atto di glorificare l'altissimo.
Seduti sugli scalini arrotondati, morbidi della montagna si aspetta il grande momento. Il sacrificio del sole prima di rinascere l'indomani dalle sue ceneri. Secondo un ordine naturale immodificabile nella sua ciclicità. Mentre il vento si diverte a mescolare a arte ogni dissonanza in una armoniosa cacofonia celestiale tutto indifferenziante.
Un'ultima curiosità.
Cosa centrano i turchi.
Conoscete il detto “mamma li turchi”.
Con tale nome venivano chiamati i predoni dal mare.
Forse quella era una loro base o il luogo dove approdavano per compiere razzie.
Ecco svelato l'arcano.


Maestrale
Urge trovare una soluzione.
Altri cento chilometri co' sto vento neanche a pensarci.
Dopo le otto il maestrale si placa fino all'indomani.
Almeno secondo il venditore di meloni.
Certo c'è il rischio si alzi la tramontana.
Ma vale la pena rischiare.
Il sole è già tramontato.
La barriera bianca oramai lontana diventa contro luce grigio scurissimo. Sul cielo invece è un esplosione di colori.
Un ultimo sguardo alla spiaggia dall'alto.
È ora di partire.
Prima però ci sono da riempire le borracce.
Poco lontano dei signori si riposano in veranda.
Ecco i miei salvatori.
La luce rossa a cingere il tubo della sella, un'altra rossa al manubrio sinistro rivolta all'indietro per suggerire la distanza laterale, la pila a dodici led comprata dai cinesi legata davanti con una fascetta di plastica.
Non fa ancora così buio.
Il vento si è calmato del tutto.
Gli ultimi bagliori di sole riescono ancora a penetrare il buio. Non durerà per molto. Ancora pochi chilometri prima di essere avvolti del tutto dall'oscurità. Solo la luce anteriore a led per rischiarare la linea bianca della strada.
Basta poco per abituarsi.
Alla fine si viaggia lo stesso.
Via così fino a sciacca.
Sospesi da tutto.
Fino all'autogrill a uno sputo dall'uscita.
Il posto ideale per “mettere le tende”.


Stagnone
La mattina sveglia prestissimo.
Alle quattro.
Per sfruttare il più possibile la notte.
Quando il maestrale si riposa.
Certo dormire in autogrill non è come stare in un albergo a cinque stelle.
A più riprese vengo svegliato dagli automobilisti intenti a fare il pieno.
Ogni volta richiudo gli occhi per doverli aprire a forza poco dopo.
Gli scenari davanti non sono sempre edificanti.
A una certa un signore attaccato con il cellulare all'orecchio urla forte a più non posso.
Maronna.
Doveva succedere.
È successo.
Maronna mia.
Maronna mia.
Lo sento agitarsi in continuazione senza riuscire a stare fermo. Da dietro la scala dove sono rintanato non riesco a comprendere bene la situazione. C'è poca luce. Tutto è filtrato dalla ringhiera.
Il signore non smette di dimenarsi, di gridare.
A un certo punto temo possa succedere qualcosa di spiacevole.
Non accade nulla.
Sale sul furgone.
Se ne va a tutta birra.
Chiudo gli occhi di nuovo.
L'ennesima dissolvenza in nero.
Per entrare nel mondo dei sogni.
Prima della sveglia prestissimo.
È ancora notte.
Ma soprattutto fa freddo al punto di dovermi mettere il giubbino.
Sono stanco.
Come non avessi dormito affatto.
Più di una volta sul punto di addormentarmi sbando paurosamente.
Ma si va avanti comunque.
La meta trapani, le saline.
Dopo un tempo infinito, pedalando come una lumaca supero pure marsala per guadagnare la costa.
Ad accompagnarmi trovo un ciclista settantenne.
È lui a indirizzarmi verso la meta.
Lo scenario davanti è mozzafiato.
Appena superata la città, dopo il porto, la strada comincia a fiancheggiare la costa. È ancora mattina presto, circa le nove. Il mare una tavola. Sarà per la luce nitida, i colori della marina, l'azzurro, il rosso, sembra di stare ammirando una foto di un luogo ameno senza tempo.
Davanti a pochi chilometri c'è un'isola con dei mulini a vento senza più pale, qualche palazzina in rovina. Poi è tutto un susseguirsi di moli in legno, barche ormeggiate, tralicci di legno infissi dentro il mare. Ricorda un po' la laguna di venezia. Anche l'acqua è bassissima. Ancora a venti metri dalla riva non arriva al ginocchio dei bagnanti intenti a cercare non so cosa sul fondo sabbioso ricoperto di alghe.
Lo chiamano lo stagnone.
Da lì in passato si estraeva il sale viste le condizioni ottimali per far evaporare velocemente l'acqua all'interno di apposite vasche rettangolari delimitate da dei muretti di pietra. Oggi la maggior parte delle saline sono state abbandonate. Solo alcune continuano a funzionare grazie al lavoro di manodopera di colore.
Dopo pochi chilometri decido di fermarmi in uno dei tanti moli in legno. Il tempo di indossare il costume, sono già in acqua. Senza aspettare di chiudere la bici. Forte il richiamo di quell'isola davanti a uno sputo. Quella con i mulini, le case dei pescatori, dei raccoglitori di sale.
Nonostante l'aver dormito poco e male, i chilometri macinati in bici, come preso da una pulsione irrefrenabile mi dirigo a nuoto verso la nuova inaspettata meta.
Bracciata dopo bracciata.
Un'ora e più per vederla ancora lì davanti come si spostasse pure lei a ogni mio passo in avanti.
Invece a guardare dietro la costa si fa sempre più lontana al punto di non riuscire più a distinguere le cose, il molo, gli ombrelloni.
L'acqua è sempre bassa.
Al massimo arriva a un metro e ottanta.
Sotto è un pullulare di alghe verdi.
Visto il rischio limitato di affogare decido di continuare.
Energie ce ne ho.
Non so nemmeno da dove le possa ancora prendere.
A un certo punto si materializzano all'orizzonte due barche blu in prossimità della riva dell'isola.
Sopra due pescatori.
Almeno così sembra.
Là mi direziono.
Nella speranza di trovare un passaggio per il ritorno.
Anche perché tornare a nuota sembra a questo punto un'impresa ardua.
Dopo non so quanto li raggiungo.
Li vedo lavare pazientemente le parti mobile della barca.
Sono un signore anziano e la sua donna.
Chiedo se mi danno un passaggio per il ritorno.
Non mi rispondono subito.
Cercano di deviare la risposta.
Infine accettano.
Quindici minuti di attesa.
Il tempo di raggiungere la riva dell'isola e tornare indietro.
Sono due pensionati.
La pesca il loro hobby.
Come per la maggior parte dei siciliani lungo la costa.
Sono del posto.
Hanno sempre vissuto lì di fronte.
Conoscono a memoria le rotte per non rimanere impantanati nel fango, nelle alghe.
Con il motore acceso in pochi minuti compiamo la traversata.
Mi portano a ridosso del molo da dove sono partito.
Li ringrazio.
Poi scendo di nuovo in acqua per guadagnare la riva con poche bracciate. Il tempo di mangiare una brioche con il gelato acquistata da un venditore ambulante lì nei pressi per cadere sfinito nel mondo dei sogni sopra il telo steso sul molo.
Più tardi vengo a sapere il nome dell'isola.
Mozia.
Forse di origine fenicia.
Un'isola privata.
Ci si può arrivare solo a bordo di una barca a motore bianca al costo di otto euro. La stessa intravista la mattina appena passata piena di turisti.


Nun te regghe più
Dopo più di mille e seicento chilometri di viaggio la bici comincia a manifestare i primi segni di cedimento.
La sera è il cambio a dare i numeri.
Dalla seconda all'ultimo rapporto senza interruzioni.
Così per salire di marcia tocca tutte le volte ripartire dall'ultima più dura.
L'indomani a preoccupare ancor di più è la rottura del portapacchi. La mattina presto, il tempo di partire dalla spiaggia dove ho pernottato a pochi chilometri da san vito lo capo, mi ritrovo con lo zaino a terra.
Provo a aggiustarlo.
Con un laccio fisso il braccio andato al telaio in alluminio.
All'apparenza tutto dovrebbe essersi risolto.
Ma non è così.
Poche decine di chilometri.
Un altro cedimento.
Questa volta lo zaino si incastra tra le ruote.
La bici in piena discesa va di traverso con la ruota bloccata di botto.
Controllo il mezzo per non cadere.
Non senza difficoltà.
Andata bene pure stavolta.
Il portapacchi ha ceduto di nuovo.
Urge un intervento più radicale, duraturo.
Rilego il braccio con più veemenza.
Applico una quantità di fascette di plastica dove è possibile per stabilizzare l'insieme.
Purtroppo ne ho solo di piccoline.
Ne metto senza risparmio.
Nella speranza siano sufficienti.
Poi vedo un benzinaio.
Chiedo se ha delle fascette più robuste.
Niente da fare.
Un signore lì di fianco in attesa del pieno dice:
Fascette?
Apre il portabagagli
Possono andare queste?
In più mi passa anche una tenaglia.
Insieme rafforziamo la struttura.
Ora dovrebbe andare bene.
Sante fascette.
Riparto.
Verso il capoluogo.


Palermo
Non ho avvertito energie positive.
Un posto per dormire l'avevo pure trovato.
In questi casi meglio partire.
Senza pensarci troppo.
Andare oltre.
Per tornare punto a capo.
Avviandosi a chiudere il cerchio.
Patti.
Da marco e ciccio.
Con loro tutto era cominciato.
Ecco allora montare in sella.
Palermo dista ancora dieci chilometri.
Direzione la stazione.
Basta pedalare oggi.
Il treno può andare più che bene.
Un tour da record per visitare la città.
Un lungo vialone fino a porta nuova.
Passato sotto, via lungo il corso fino ai quattro canti.
Di sfuggita incrocio la cattedrale, una chiesa settecentesca con tante statue in marmo davanti, una chiesa arabo normanna.
Preso il canto di destra ancora una lunga strada dritta fino all'ultima deviazione sulla sinistra per arrivare a destinazione.
In tutto questo tragitto neanche un cartello con la scritta stazione.
Meglio interloquire con i passanti.
Alcuni di loro si preoccupano.
Stai attento.
E a ragione.
Qua le macchine sfrecciano da paura.
Niente di paragonabile con roma o bologna.
Schivando buche, auto, pedoni, a tutta birra arrivo sul binario. In largo anticipo per il treno delle diciassette e zero otto.
Salgo su.
Contratto con il conducente il biglietto della bici non fatto.
Poi mi seggo.
Finalmente un po' di riposo.


Troppo caldo a messina per dormire.
Ore quattro.
Con un'ora di anticipo mi imbarco sul traghetto.
Sono il primo a entrare.
L'unico in bicicletta.
Fuori è ancora notte.
La luna prossima a scomparire dopo aver raggiunto il punto più vicino al sole.
Dopo aver legato il mezzo a un palo salgo sul ponte più alto. Dall'altra parte tante luci accese capaci di rompere il muro del buio.
I motori del traghetto sono accesi.
A ritmo le auto prendono posto su più piani.
L'odore della salsedine si mescola a quello del cherosene.
Il motore ora gira a regime.
Si sta per salpare.
Ancora pochi istanti.
In ogni caso la sicilia è già alle spalle.
È ora di tornare a casa.
Partiti.
Sul ponte più alto si alza un forte vento.
Almeno non fa più caldo.


Basilicata coast to coast
La basilicata meriterebbe un viaggio a parte.
Però attenzione.
Nonostante rifornisca di acqua la puglia, di fontane lungo la strada difficile trovarne.
Anche per la densità abitativa bassissima. Solo cinquecentomila abitanti in un territorio tutto sommato abbastanza esteso. Difficile imbattersi in case abitate. In particolare se si percorrono le strade interne. Quelle a costeggiare i fiumi a scendere dalle montagne fino allo ionio. Come la bradanica, la basentana, la sinnica. Per il resto, abbandonate le alture, solo distese di terra solitamente disboscate adibite alla coltivazione intensiva. Soprattutto grano. Strade bellissime da un punto di vista paesaggistico, a ricordare certi territori desolati della toscana a sud di siena.
Lungo la bradanica l'unica risorsa d'acqua la devo a una macchina fermata per delle informazioni. Prima di salutarmi mi viene spontaneo chiedere se hanno una bottiglia in più. Per fortuna ce l'hanno. Un litro e passa. Quanto basta per arrivare a palazzo. Non un chilometro di più. Complice anche un vento contrario alzatosi dalle cinque del pomeriggio. È fortissimo. A raffiche. Un sibilo continuo per le orecchie.
I piani di arrivare a maschito da fulvia per sera naufragano miseramente. Da trentacinque chilometri di tachimetro si passa a un più modesto venti, venticinque quando va bene. Quanto basta per non riuscire a coprire gli ultimi venticinque chilometri con la luce del tramonto tra l'altro bellissimo. Da prateria.
A palazzo arrivo di notte.
Per strada un buio pesto.
Niente case a fare da contorno.
Lungo la strada manca pure la linea bianca.
Per giunta è luna nuova.
Le luci della bici bastano appena per indovinare dove dirigere il manubrio. È un navigare a vista. Il tutto complicato da una strada fatiscente piena di buche improvvise.
Sarebbe meglio fermarsi.
Così alla fine decido.
Trovo pure il posto per dormire.
Uno spazio antistante un edificio industriale messomi a disposizione dai primi umani incontrati dopo non so quanto.
Ma prima ancora chiedo acqua.
Da un po' ho finito la scorta.
La gola è secca.
Voilà materializzarsi due mezze bottiglie di acqua minerale fresca. Bevo a canna a più non posso.
Ora bisogna mangiare.
Le carrube prese a modica lungo la strada non bastano a saziare.
Via allora verso palazzo a una spanna per l'approvvigionamento.
L'ultimo sforzo prima di raggiungere qualche locale aperto una salita pesissima. Superato anche questa insidia approdo infine a una macelleria con a fianco un negozio di vino. Lì prendo un filone di pane, della provola stagionata. Mi offrono pure del buon vino. Un aglianico del volturnio, il famoso vulcano spento della zona. E già, si è nella terra di questo nobile vino. I vitigni sorgono sopra la lava fuoriuscita dopo tante eruzioni. È lei a conferirgli un gusto particolare. La stessa storia già sentita alle pendici dell'etna. Nella bottega lì a fianco una bottiglia la puoi pagare da trenta euro in su. Eh si, l'aglianico è un vino particolare. Per le marche più pregiate l'uva è raccolta di notte. Un anno di invecchiamento di solito non basta per tirare fuori tutte le sue qualità. All'inizio è secco. Al palato allappa un po'. Gli odori e i sapori non sono ancora maturi. È dentro le botti di rovere vecchie ripiallate, per limitare l'effetto barrique, a prendere il giusto sapore, la giusta acidità, gli aromi di frutta rossa come fragole, ciliege. Spesso occorrono svariati anni. L'arco di vita di questo vino può arrivare fino a una decina d'anni. Nei primi sette, otto va a perfezionarsi continuamente. Poi inizia la fase di degrado. Per arrivare ai migliori risultati occorre dunque un sacco di lavoro. Naturale i prezzi siano più elevati del solito. Comunque altra cosa rispetto al vino artigianale bevuto a tursi a casa di nicola. Come quello di una volta, senza additivi. Un vino vivo corposissimo, fruttatissimo. Il segreto travasarlo per purificarlo delle impurità nei mesi senza erre, tipo gennaio, maggio. Insomma prima dei cambi di stagione. Dopo averlo fatto passare attraverso un piccolo strato di residuo della spremitura messo lì sul fondo per accentuare gli odori i sapori. Una garanzia il risultato.
A palazzo tra un morso e l'altro incontro pure domenico incuriosito come altri suoi conoscenti dalla bici con le sacche.
È stato un anno a bologna per giocare a rugby e si vede.
Dopo aver ascoltato la mia storia senza indugi mi propone di portarmi in auto a maschito per lasciare la bici, poi a venosa dove c'è fulvia a cena dai parenti.
Di professione fa il coltivatore di pomodori da conserva.
Una piccola deviazione dal percorso, arriviamo pure su uno dei suoi campi. Una parte del raccolto è stato attaccato da una pianta parassita saprofita. Dopo una breve ricerca me la mostra. Un grosso cespuglio senza radici con tanti fiorellini viola. Così a un primo sguardo sembrerebbe inoffensiva. Invece attaccata al fusto del pomodoro succhia tutte le risorse fino a farlo seccare. Una competizione impari con la pianta ospite. Tanto prima i pomodori si matureranno tanto più saranno le possibilità di salvare una parte del raccolto. Comunque vada il danno è assicurato.
Percorriamo la strada tra le due città a tutta birra neanche fossimo a un rally.
In tanto buio pochissimi lungo la strada.
Per domenico persone come me sono il diversivo della serata. Costretto a “terra” dal suo lavoro questo è il suo modo di viaggiare, di aprirsi all'avventura stando fermo.
Qualche hanno fa di punto in bianco è partito per berlino in bici senza allenamento. Alla fine duemila ottocento chilometri. Da solo. L'anno scorso ha ospitato un biker argentino in viaggio per la sicilia. Un personaggio strano dall'aspetto di un clochard.
Quando mi ha visto ha pensato di avere a che fare con il solito ciclista della domenica. Vuoi per il look tradizionale, per la bici da corsa.
Alla fine si è dovuto ricredere.
Il tempo di cambiarmi per strada dopo aver poggiato la bici al muro di casa di fulvia. Giusto un attimo prima del passaggio di una famiglia del posto. In poco tempo siamo a destinazione. Venosa. L'ultimo avamposto della basilicata prima della puglia. O forse è il contrario. Infatti arrivati in piazza sembra più di stare in salento. Una marea di gente festosa, per lo più giovane, tante famiglie con i bimbi. Tutti vestiti bene.
Beh anche questa è fatta.


Légeresse
Perdere i pezzi per strada.
Una pulsione allo spogliamento.
Per essere leggeri.
Ho due borse posteriori ortileb.
Un sacca davanti al manubrio.
Alla fine tante cose non erano necessarie.
Metà dei vestiti non li ho neanche tirati fuori.
A contare il sacco a pelo della tomasa, il tappetino, i pantaloni, una maglietta, le scarpe.
Tutto questo sarebbe bastato per un mese in bici d'estate al sud.
Ah ho anche un costume, un telo da utilizzare volendo come cuscino.
Così lascio pezzi lungo il percorso di ritorno.
A patti il casco.
A tursi i pantaloni, le mutenda.
Fortuna i jeans regalatimi da debby di quando era adolescente.
Beh sarà per la prossima volta.
Intanto mancano circa quattrocentocinquanta chilometri per la meta.
La fine si avvicina.


Sex.o.S.
Da foggia a san severo.
La via dell'amore.
Ogni pochi chilometri delle ragazze ad attendere lungo la strada.
Sotto una pianta, sedute su una sedia improvvisata, oppure sul caldo gard rail. Le più fortunate per ripararsi dal sole hanno l'ombrellone. A volte in attesa si concedono quattri passi avanti e indietro in una piazzola di sosta. Spesso con la sigaretta in mano. Per ammazzare la noia solo il cellulare. Non è raro vederle in coppia. Anche per sostenersi a vicenda in questa terra desolata. Di acqua nemmeno a parlarne. Solo fichi, piantagioni di pomodori, uva.
Sono vestite estive come qualsiasi altra ragazza. Minigonna, t-shirt dai colori fosforescenti, scarpe rigorosamente con il tacco. Per apparire facilmente. Non di rado, parcheggiato nei paraggi, un grosso camion lì per smaltire le ore di sonno obbligatorie. A sto punto meglio in compagnia.
Raramente salutano.
Se le guardi abbassano sfuggenti lo sguardo.
A fare da contorno una quantità enorme di spazzatura gettata lungo tutta la carreggiata. Soprattutto bottiglie di vetro, sacchetti di plastica, scarpe, un passeggino, cumuli di macerie. A volte arrivano fin sopra le piante.
Loro stanno lì in mezzo.
Come nulla fosse.
Oltre gli schiavi dei pomodori le schiave del sesso.
Di loro nessuno dice niente.
Tutto sembra normale.
Difficile fare finta non esistano.


Che fico!
Lo trovi dappertutto.
Lungo i bordi della strada.
Nei giardini.
In bilico su una roccia a sfidare la gravità.
È il frutto più diffuso del sud.
Il fico d'india.
Si lo so.
Non è autoctono.
È stato importato dall'america centrale.
A quanto pare si è accasato bene.
Durante il viaggio l'ho mangiato in varie occasioni già sbucciato. Pronto solo da gustare.
Sempre evitato di prendere i suoi frutti rossicci per via delle fastidiosissime piccole spine. Praticamente impossibile non rimanerne contaminati.
Anche questo tabù andava sfatato.
Prima che fosse troppo tardi.
Già dopo san severo in puglia difficile trovarne.
Solo qualche pianta isolata.
A trenta chilometri da termoli lungo la statale 16 arrampicato su un alto greppo ai lati della strada l'ultimo fico.
Un cespuglio grossissimo.
Pochi i frutti ancora sulla pianta.
Coltellino alla mano, un foglio di carta per avvolgerlo senza toccarlo direttamente salgo su. Voilà la strategia per evitare le spine. A suggerirmela la nonna di marco s, una siciliana verace. C'è da fidarsi.
Ne prendo uno bello grosso e maturo.
Con il coltello taglio le due estremità.
Poi faccio un'incisione longitudinale per spellarlo piano piano con la lama. Tutto sembra andare secondo i piani.
Ne divoro uno, due, tre, quattro.
Uno dietro l'altro.
Sazio mi fermo.
Felice salgo in sella.
Per scoprire di avere tre o quattro spine sottili conficcate nella mano, una in bocca sul palato.
Niente da fare.
Impossibile evitarle del tutto.
Il padre di debby siciliano pure lui lo aveva detto.
Comunque il danno è minimo.
Ne valeva la pena.


Casalbordino
È il tramonto.
Sulla spiaggia di castelbordino spira una leggera brezza.
Il cielo rosa sta per lasciare spazio a un più acceso grigio intenso delle nuvole basse all'orizzonte.
A tenere tutto unito il rumore ritmico delle onde.
Qua e là portate dal vento le voci riverberate di bambini attardati sulla spiaggia. Sfruttano le ultime gocce di luce per giocare senza fine.
Davanti un piccolo molo circondato di scogli proteso dentro il mare. Alcuni pescatori cercano ancora di ingannare qualche pesce.
Certo niente di paragonabile alle più belle spiagge siciliane.
Sarà il luogo un po' collinoso abbastanza isolato da non essere troppo affollato, alla fine c'è una bella atmosfera, tutto si mantiene magicamente in equilibrio.
Solo sessanta chilometri da pescara.
Un altro giorno ancora per chiudere la linea in un cerchio.


Chez nadia
Mangiare pesce su una terrazza a mare è un piacere raro.
Le onde rinfrangersi pochi metri più in là.
La schiuma bianca sul bagnasciuga perdersi in un buio fitto.
Anche perché la luna non c'è.
Una leggera brezza marina sufficiente a farti dimenticare il caldo afoso di poco prima.
Uno sballo.
Quanto ci vuole per lasciarsi coccolare prima di crollare.
Posto migliore non poteva esserci.
Si è in buone mani.
Accuditi di tutto.
Sebbene non ci fosse posto, appena saputo del lungo viaggio in bici, il maitre si era fatto in quattro per trovare una soluzione.
Alla fine schiscetta al tavolo del bar lì di fianco.
Più porzione stra abbondante.
C'è da recuperare energie.
Mangio con gusto.
Senza fretta.
Faccio pure la scarpetta.
Proprio quanto ci voleva.
Prima di uscire ringrazio tutti.
Mi salutano con calore, ci si stringe la mano sinceramente.
Un ultima considerazione.
Siamo approdati in continente.
E si sente.
Con questo non voglio dire di essere stato trattato male in zona insulare. Là le persone erano solo più indifferenti. Come se nulla le potesse più toccare. Troppe le situazioni forti viste, vissute per lasciarsi incantare. Tanto poi le cose vanno sempre allo stesso modo. Per non cambiare niente. Piuttosto meglio non lasciarsi contagiare da facili entusiasmi per rimanere concentrati su di sé. Costretti ogni giorno a inventarsi qualcosa per sopravvivere. Più che comprensibile.


Ortona 1
Ultimo grosso cespuglio di fico selvatico avvistato. Da lì in poi solo qualche sporadico avvistamento in qualche recinto privato.

Ortona 2
Ultimo sacco della spazzatura gettato per strada come fosse la cosa più naturale di questo mondo.


Consigli per i neofiti
Partire la mattina presto è sempre dura.
Il corpo non sembra volerne di pedalare.
Appena in sella eccolo manifestare tutta una serie di acciacchi fantomatici quasi volesse convincerti a distoglierti dal tuo intento.
Ah bello dove vai.
Non vedi come sei messo?
Ma non bisogna lasciarsi ingannare.
Bastano poche pedalate per silenziarlo.
Un rapporto agile.
Andare per un po' a bassa velocità.
Allora nuove energie si attivano.
La macchina inizia a andare.
Una volta approdati a quel livello occorre non lasciarsi distrarre. Che so dal guardare la velocità, l'orologio, dal farsi contagiare dalla voglia di arrivare. Basta un niente per ricadere nella pesantezza del tempo, nella gravità. Solo adesso capisco la scelta di michele di aver tolto il contachilometri dalla sua bici da corsa.
Un altro consiglio, sempre se posso permetterlo.
Non andare dietro il ciclista di giornata.
Altri ritmi, altre mete.
Pedalare invece con il proprio passo.
Imperturbabili a tutto.
Ah, in città non seguire i cartelli stradali fatti a posta per portarti fuori.
Puntare piuttosto dritti al centro.
Non si sbaglia mai.
Le tangenziali, i raccordi anulari, le secanti oltre a allungarti la strada sono fatti per le macchine, non per le bici.


Surfare in bike
Duecento chilometri al giorno.
La distanza minima necessaria per raggiungere quello stato magico come si fosse in trance.
Quando tutto va armoniosamente.
Non si sente più alcuno sforzo.
Fuori dal tempo.
Dalle distanze.
Dalla velocità programmata.
In piena estasi.
Un giro, un altro ancora.
Così all'infinito.
Ritmo puro.
La musica dell'eternità, del presente continuo.
Ora, ora, ancora ora.
Oltre chronos, il divenire mortificante.
Basta un niente per scendere da quello stato.
Un pensiero opprimente non stoppato a tempo, guardare il contachilometri. In un baleno ecco manifestarsi tutta la pesantezza del mondo.
La mattina presto partire è sempre dura.
Quello il momento più difficile.
Come già detto.
Il corpo non vuole saperne di entrare a regime.
Fa di tutto per scoraggiarti.
Ecco affiorare un dolorino a un muscolo.
Una fitta articolare.
Sentire tutta la pesantezza dell'acido lattico.
Basta non farci caso.
Continuare a pedalare pazientemente a denti stretti.
Senza identificarsi con quei sintomi figli del corpo della sofferenza secondo tolle.
Dopo un po' spariranno miracolosamente come non ci fossero mai stati.
Dalla mattina fino al pranzo, la prima vera lunga pausa, si riesce si e no a fare cento centoventi chilometri.
Quanto basta per accedere al primo punto sogliare.
Superatolo senti attivarsi qualcosa.
Delle nuove energie inaspettate.
Di colpo ogni sensazione di stanchezza se ne va.
Il corpo pigro un lontano ricordo.
Dopo aver superato i centocinquanta chilometri un'altra soglia ancora.
Un altro livello raggiunto.
Tac, tac, tac.
Una pedalata rotonda dietro l'altra si trasforma magicamente in un movimento lineare.
Allora non vuoi più saperne di fermarti.
Un sentimento di euforia ti pervade.
Tutto sembra possibile.
Vorresti non smettere più.
Sai non durerà molto.
Ma non fa nulla.
Intanto ti godi il momento.
Sapendo di ricominciare tutto da capo il giorno dopo.
Come una ritualità sacra.
In questi momenti ogni gesto sembra facile.
Schivare le buche ad arte.
Salire in souplesse con leggerezza per superare un dosso.
Prevedere le traiettorie delle auto, dei pedoni per anticipare le mosse.
Tutto con naturalezza.
Senza pensarci su.
Tanta è la sintonia con quanto ti circonda.
Un'attenzione vigile ti fa vedere ogni dettaglio utile al momento.
Un albero di fichi per nutrirsi.
Una fontana un po' nascosta.
Sei tutto orientato allo scopo.
Quello di arrivare alla meta prefissa.
È questo il momento più bello.
Anche perché tra un po' il sole comincia a tramontare dipingendo il cielo dei colori dell'arcobaleno.
La temperatura si abbassa lentamente.
Si comincia a avvertire l'aria fresca.
Allora ti godi quel panorama fantastico.
Arrivi alla meta.
Non ti fermi.
Ancora un po'.
Il sole è già tramontato.
Comincia a fare capolino il buio.
Niente paura.
Circondati da una natura incantevole ci si perde.
Non prima di aver acceso le luci.
Soprattutto per non farsi investire.
Si va un po' alla cieca.
Anche perché la strada non è più tanto visibile.
A guidarci la solita linea bianca.
L'aria si fa più rigida.
L'oscurità prevale su tutto.
Fino a non riuscire più a distinguere le cose.
È il momento di cercare in fretta un giaciglio per passare la notte.
Non prima di aver messo qualcosa tra i denti.


Capolinea
Ancona, bar del porto.
Seduto fuori sorseggio un paccatello freschissimo a base di verdicchio.
Il sole non è ancora tramontato.
Nell'attesa preferisce stare nascosto dietro un grigio opaco.
Da quando sono partito è la prima giornata incerta.
Forse andrà a piovere stanotte vanificando il mio progetto di dormire sul forte...
Così avrebbe dovuto cominciare questo ultimo scritto.
Non è andata così.
In cerca di un letto mi lascio dirottare in un incontro noiosissimo sulla poesia, sul gruppo '63, su interminabili discorsi sul montaggio, la modernità.
Dovrebbe esserci anche ghezzi.
Ma per ora di lui neanche l'ombra.
Avrà preferito un tuffo in riviera.
Come non capirlo.
Ecco, anche questo è un modo di cadere dentro le trame appiccicose della “civiltà”. Quel rivestimento sociale di solito superfluo per molti necessario. Insignificante quanto l'apparenza. Un sentimento di estraneamento raramente vissuto in questi giorni.
Voilà la società mediatica.
Al sud si era costretti a stare più a nudo. A valere era la regola del deserto, dello spogliamento, della disconnessione combinate alla miracolosa arte del sapersi arrangiare. Per rivestirsi d'altro. Abbandonati all'imprevisto, alle emergenze del momento in un territorio spesso deserto, arso dal sole. Certo. Senza esagerare. Con le spalle coperte, gli appoggi giusti.
Alla fine prevaleva un sentimento di leggerezza.
Spesso finito di pedalare, aspettando in riva al mare il tramonto, si godeva in silenzio quei momenti di intimità con sé stessi. Altre volte ci si apriva a quanto succedeva intorno, cercando di entrare in contatto con le persone incontrate, ascoltando i loro racconti. E si stava bene. Non c'era bisogno d'altro.
Non era infrequente trovarsi per quasi cento chilometri da soli, senza incrociare anima viva. Giusto tre o quattro macchine veloci.
Altre le priorità.
Più basilari.
I pensieri non andavano al montaggio, alla poesia.
Non ce n'era tempo.
Per carità anch'esse possono svolgere un importante ruolo nello svelamento delle apparenze. Ma laggiù si era a un altro livello dello scontro. O trovavi l'acqua o erano cazzi. La sera, senza un giaciglio si era in lotta con il buio per scovare il posto giusto per dormire. Arrivando spesso al limite aiutati solo da una debole luce a led pur di non lasciarsi abbagliare dalle opportunità all'apparenza più facili. Ogni energia serviva per realizzare quegli intenti profondi. E non si poteva sbagliare, né permettersi di perdere le poche occasioni a disposizione.
Riassorbiti entro le maglie avvolgenti della società civile il problema è ora il contrario. Circondati da una miriade di opportunità per lo più effimere, il problema si sposta sul piano semantico. Nel saper riconoscere i segnali giusti in un eccesso di stimoli caotici spesso fuorvianti. Senza lasciarsi traviare da tutte quelle offerte seducenti sparse ovunque per riuscire a trovare quelle poche cose semplici necessarie al viaggio, a vivere.
P.s.

La migliore granita
Alla mandorla.
A zafferana in una gelateria in piazza.

Il miglio gelato
Al gusto di bergamotto e mandorle tostate.
A gerace nella piazza del paese.

Il miglior canolo
In una pasticceria di scicli.
Lungo una via principale.
Gestita da due giovani simpaticissimi.
Fanno anche il miglior torrone alle mandorle mai assaggiato.

Il miglior vino
Quello di nicola.
A tursi.
Fantastico

I migliori dolci alla pasta di mandorle
Quelli assaggiati a patti chez marco s
Grazie filippo.

Il miglior dolce rustico
Il totò al cacao scovato la mattina presto in un fornaio di milo

Buona caccia