lunedì 19 dicembre 2011

La vie se mis a nû

Il dono più bello...
Donare se stessi...
La propria vita...
Insieme.
Attraverso uno sguardo, un sorriso complice, una parola viva, una carezza celanti una pulsione arcana.
Di tutti è il più effimero.
Dura solo un istante.
Ma ti risuona per giorni.
Ti scalda il cuore.
Ti fa star bene.
Poi c'è solo una mancanza incolmabile.
Tutto il resto non conta.
Anzi.
È solo un perdere ogni volta qualcosa.
Un negare quel fatico momento.
Per traviarlo, consumarlo a ripetizione nella speranza di conservarlo attraverso pratiche esorcistiche inutili. Nel tentativo economico di scambiarlo con altro magari rivivendolo con l'immaginazione o attraverso il dono di una corpo apatico. Così facendo però difficilmente ci si potrà soddisfare poiché si sta giocando solo con un morto. Nel migliore dei casi ti sarà concesso di avere di fronte un fantasma, uno spettro. Comunque un simulacro.
Quell'istante vissuto rimane irripetibile come la sensazione di un profumo.
Svanisce presto.
Inutile provare a ricrearlo a tavolino ricercandone l'essenza. Una fatica vana in grado solo di evocarne la mancanza.
Oltre qualsiasi tecnica compensatoria, vale molto più imparare a rendere tutto prima possibile.
Accettare la perdita.
Senza sacralizzare nostalgicamente nulla per l'eternità a venire.
Meglio piuttosto predisporsi per l'occasione giusta.
Quando senza preavviso il miracolo della vita messasi a nudo si ripeterà ancora offrendosi in dono spontaneamente, senza condizioni.
Poco conta forzare la materia viva a concedersi a comando.
Al massimo ti renderà una banale superficialità non senza essersi prima barricata dietro strati impenetrabili di carne anonima incapace di riflettere qualcosa. Come si avesse di fronte un automa insensibile in grado di animarsi a gettone.
Né giova pensare di poterla sedurre strumentalmente senza vanificarne l'alchimia.
Uno scambio impossibile.

giovedì 15 dicembre 2011

Motori umani

Il fuoco bruciava lentamente dentro la carriola metallica.
Aveva assunto un colore rosso acceso.
Non faceva freddo.
Quell'inverno era più mite del solito.
Intorno stavano seduti una decina di persone tutte reduci. Lontano quanto basta dalla calca, dai decibel elevati dell'evento punk-noise del giorno.
Erano stanchi. Provati dalla lunga pedalata di più di cinque ore dello Human Motor. La critical mass di dicembre in concomitanza al Motor Show.
Stavano in silenzio, al confine tra dentro e fuori dell'Xm, a un passo dalla barricata fatta di tavoli di legno vecchi, di banchi di scuola in fornica.
Vista l'ora tarda non c'era più nessuno da far entrare.
Adesso si poteva riposare un po'.
Nonostante la lunga interminabile giornata erano felici.
Lo si vedeva dal leggero sorriso appena accennato, dai muscoli del volto rilassati.
Era passato più di un anno da quando si erano trovati tutti davanti al fuoco. Si poteva sentiva ancora l'odore delle castagne tanto era stata memorabile la serata. Nel frattempo l'Xm aveva superato quello stato d'assedio. Ora il clima appariva del tutto pacificato. C'era anche il tempo per la festa del sabato sera.
Alle tre di notte Marco Zen e Ancona conosci te stessa avevano preso le loro bici per andare a dormire. Strascicandosi lentamente erano arrivati verso l'uscita in quella terra di nessuno tra il mondo notturno dei festaioli e la Bologna stanca popolata di famiglie, pensionati solitari, immigranti lavoratori.
Attratti dal fuoco si erano fermati anche loro.
Appoggiate le bici sulla barricata avevano lasciato andare i corpi pesanti sulle panche di legno poste intorno al fuoco. Lì avevano trovato il calore giusto per attardarsi ancora, per assaporare quel silenzio con gli altri. Insieme a loro c'erano altri reduci della notte desiderosi di aprire i loro cuori, di esprimere le proprie esperienze profonde sottovoce sibilandole tra il crepitio delle fiamme. Fra i tanti c'era anche una giovane ragazza peruviana di appena diciannove anni giunta lì per caso. Lo sguardo era fiero, sincero. Le sue parole si concedevano generosamente senza filtri.
Aveva cose da dire, il desiderio di condividerle.
Nonostante la giovane età sembrava già navigata, sicura di se quasi avesse messo dietro le spalle l'eternità.
Uno di fianco a l'altra, Marco Zen e la ragazza avevano intravisto un appoggio sicuro al punto di aprirsi senza remore. Vuoi per l'atmosfera intima, vuoi per la sensazione sottile di sentire l'altro così vicino quasi da riflettersi allo specchio. Così quelle esperienze solitamente lasciate sullo sfondo emergevano con semplicità. Il rapporto con i genitori, l'essere raminghi e strapiantati da sempre come marchio di fabbrica comune.
Nonostante la differenza anagrafica tra loro c'era intesa perfetta. Senza disturbare il silenzio, le parole si rincorrevano pacatamente provando a intrecciarsi tra loro sopra il rumore leggero del fuoco vivo.
Quel giorno regnava la pace.
Era il momento giusto per un po' di riposo dopo tante battaglie dimenticate dai più.
Non certo da loro.
Verso le sei della mattina fece capolino anche la colazione.
Un inatteso dolce vegano a base di cioccolato.
La teja girava sulle ginocchia dei presenti. A turno tutti ne presero un boccone come si stesse partecipando a un rito. Per rafforzare i legami di gruppo, per incarnare uno spirito comune almeno il tempo di una notte. Prima di rendere di nuovo tutto e ricominciare le proprie vite confuse di tutti i giorni.
Per un poco i morsi della fame si erano attutiti.
In mancanza di latte, a liberare le gole dal malloppone stopposo ci aveva pensato del buon vino.
Il buio piano piano si stava stemperando.
Il cielo non era più così scuro, anche perché quella notte c'era stata la luna piena.
Il sole era lì in attesa come ogni santo giorno.
Non per molto.
Il nuovo scenario luminoso stava prendendo il posto della notte attraverso una lenta dissolvenza incrociata.
La luce nera si stava facendo via via sempre meno scura e le ombre assorbite dall'alba erano sul punto di scomparire.
Fatti uscire gli ultimi sbandati ubriachi, i battenti dell'Xm furono chiusi. Anche quella sera il possente cancello di metallo alto tre metri fu serrato a forza di braccia non senza difficoltà. Vuoi per la pesantezza della struttura, per la ruggine sui binari di scorrimento.
Tutto era filato liscio.
Niente imprevisti quel giorno.
Erano rimasti solo cumuli di bicchieri di plastica, carte sporche, dappertutto. Sembrava di stare in una discarica.
Solo quel fuoco non si era ancora assopito riuscendo a trattenere gli ultimi rimasti intorno a lui come una calamita.
L'alba alla fine aveva quasi preso il sopravvento.
Il nuovo giorno si era fatto impellente.
Era ora di togliere le tende.
Non prima di un saluto affettuoso.
La giovane peruviana fu la prima a andarsene.
Dopo aver rivolto un gesto caloroso a tutti si voltò verso il compagno di confessioni.
A te ti saluto meglio...
Si avvicinò fino a cingergli il corpo.
Stettero così per un breve istante.
Poi si scostarono delicatamente dandosi appuntamento in un improbabile nuovo incontro.

Svegliarsi la mattina e percepire il mondo diverso.
Guardarsi allo specchio e non riconoscersi più.
Qualcosa nel frattempo è successo.
Il mondo non è più quello di prima oramai popolato da soli fantasmi.
Nuove forze premono da terga. Con gentilezza, il sorriso in volto. Reclamano il loro spazio, il loro tempo.
Da una parte sempre più in periferia si osserva il nuovo con curiosità, spesso con distacco. Una lontananza infinita. Anche se ci si sfiora risuonando insieme.
Perennemente inquieta la vita non si ferma.
Cambia, si rinnova senza sosta.
Sempre uguale eppure ogni volta differente.
Lo stesso apparente stampo però qualcosa sfugge, si trasforma diventando irriconoscibile. Lo spettro nudo alla fine ha trovato nuova carne dove essere ospitato, dove mascherarsi ancora. Rivitalizzando la materia, rivitalizzandosi. Un incontro proficuo. Per chi resta un déjà vu destabilizzante. Già morti eppure vivi tocca in continuazione provare a rifamiliarizzare con il nuovo mondo a venire. A volte si trova l'accordo, allora ci si sente nuovamente partecipi della vita. Capita di aspettare giorni, settimane, mesi, poi all'improvviso si viene risucchiati nel vortice vitale. Allora l'ebbrezza sale fino a toccare vertici inauditi. Per un istante ci si sente ancora eletti. Tutto torna a avere un briciolo di senso, a armonizzarsi miracolosamente con quanto ti circonda. Basta non ritrarsi, dando in questo modo la possibilità dell'incontro. Allora la vita nuova ansiosa di emergere ti offrirà il suo lato migliore. La spontaneità. Senza maschera mascherata, senza freni o barriere di sorta. Lo stesso devi fare tu per risponderle proficuamente. Per essere accolto accogliendola. Certo bisogna essere abbastanza sradicati, un po' fantasmi da sempre. Non stare mai fermi da nessuna parte. Così da riuscire a attraversare le sottili pareti di mondi paralleli differenti lì a una spanna. E sufficiente fare il passo, premere leggermente il dito sulle sottili pareti divisorie. Estendendo il limite al punto di trapassarlo ancora. Tutto con delicatezza.
Solo allora un nuovo mondo da sempre al tuo fianco si aprirà rendendotene partecipe.
Basta volerlo con tutto se stessi, contro tutto, contro tutti.
Non smettendo mai di cercare.

lunedì 28 novembre 2011

Corpo celeste

Eclissato l'universo maschile tra le dune delle canarie, in un casolare di campagna vicino ma non abbastanza, dentro un negozio di bici, impantanato in interminabili questioni tecniche mortali come la noia, rimane solo il femminile.
Un universo parallelo alieno distante all'infinito.
Irriducibile, imprendibile.
Si può solo fingere per provare a stare insieme, per accordarsi un po'. Non senza aver fatto prima i conti con la propria follia. Senza chiedere troppo, dire più del necessario, travisando sempre con ironia delle verità implosive. Solo così si può convivere con quel mondo di carne fantastica, celeste. Perso tra pianeti e costellazioni astrali, tra spiriti della notte e presenze spettrali, secondo i tempi mistici delle coincidenze, del fato. Giocando seriamente(?) tutto (!?). In vista dell'incontro con l'altro. Incontro affatto intellettuale. Solo carnale. Sebbene il più metafisico, impossibile. Assecondando il mistero della carne nuda, la medicina contro ogni male. La sua mancanza un tarlo corrosivo, soffocante. Una castrazione infinita. Solo donandosi all'altro la si può percepire di riflesso quanto basta per riempire il buco. Allora si trova pace. Per una frazione di tempo.
Oltre il banale porno...
Forse è solo porno celeste...
Il più metafisico e carnale allo stesso tempo.
Quasi un esorcismo.
Fiumi di parole per agire sempre allo stesso modo, per nascondere quella voglia atavica dell'altro, del suo corpo, dei suoi organi, delle superfici morbide da accarezzare, mordere, baciare, dei suoi odori forti, dei suoi liquidi vivi. Sospese in attesa del viandante solitario di turno, bisognoso complicemente di un giaciglio. Alimentando nel frattempo la fantasia, il desiderio. Non senza fare i conti con un sentimento di colpa severo capace di irretirle in una ricerca psicologica asfissiante quanto un processo infernale comunque inutile. Spesso basta l'incontro giusto per sgomberare il campo di incertezze... per farvi ritorno in breve... Un ciclo interminabile, uroboro sempre identico a se stesso. Nell'attesa illimitata di una risoluzione definitiva, dello scatenamento liberatorio. In preda a una nostalgia infinita per una perdita incommensurabile suturabile solo con l'Altro. Intanto, nella mancanza, meglio la pulizia periodica delle ragnatele. Tutto per raddrizzare non ho ancora capito bene cosa. Mai rilassate, paghe, oscure in volto, rivendicative con l'altro sesso mentre affilano le unghie. Tutto in proporzione all'età, allo svincolamento dalle gabbie sociali prefissate.
Alla fine sole, come tutti, come tutto.
Al massimo si può provare a condividere le personali esperienze, i propri amori impossibili, asfissianti.
Con ironia quando va bene.
Amiche incapaci di amicizia.
La comunità delle donne infelici a caccia di una soluzione immediata, assoluta.
Mosse da una forza dentro smisurata quanto la loro cecità.
Quanto la mia.

mercoledì 23 novembre 2011

Voodoo Sound

Quel giorno suonavano da Maurizio.
Un buco da aperitivo.
Tanto era piccolo da non starci tutti.
Così erano stati scremati su più piani.
In fondo la sala.
Attaccati alla parete con delle ventose come gechi.
Un miracolo di acrobazia averli incastrati tutti. Compreso il batterista con la batteria in formazione ridotta. Di fianco il basso, sopra il piccolissimo soppalco. A seguire il chitarrista allocato sulle scalette. Sotto ancora, circondato dal pubblico venuto apposta per loro, il frontman, cantante, tastierista, sassofonista...
Appiccicati l'un l'altro come sardine in scatola ci si sorreggeva a vicenda. Difficile, quasi impossibile raggiungere il bancone del bar infestato di corpi appoggiati come cozze patelle sullo scoglio.
Afrobeat il genere.
Musica dionisiaco orgiastica, però profonda, fatta bene, pure impegnata. Ma soprattutto danzereccia. Anche perché immediata nei rif, nelle melodie, nei ritmi neri voodoo in grado di possederti l'anima. Allora ci si lascia andare come marionette muovendo sinuosamente il corpo non senza eccitazione. Insieme, sfregandosi l'un l'altro. Rispondendo con il sorriso a sguardi complici.
Eppure quel giorno non erano partiti bene.
Troppa la fatica di cominciare la cerimonia. Per l'ennesima volta. Un rito infinito, all'apparenza sempre uguale. Difficile divertirsi se è lui a possederti totalmente...
Ma alla fine qualcosa era scattato.
Anhe quel giorno il miracolo si era compiuto, complice la pausa e la reprise.
Erano tornati trasformati.
Come avessero riposto nell'armadio le loro svogliate controfigure.
Si... ora li si riconosceva senza ombra di dubbio.
A dimostrarlo erano i bacini n'roll, le braccia dimenanti, gli occhi chiusi di piacere, le labbra premute delicatamente.
Di colpo era salita la temperatura.
C'era chi si svestiva mettendo a nudo le superfici sudate.
Anche i musicisti provati dallo sforzo erano in apnea.
Presto!
Acqua!
La gola del chitarrista aveva preso fuoco.
Una giovane ragazza in carne con un vestitino nero estivo scollato, lo sguardo vispo come un porto dove affogare per una notte, passa una bottiglia al chitarrista quasi offrisse se stessa. Impossibile rimanere indifferenti a tanta prodiga sensualità.
Come un coccodrillo immobile da tempo dietro un cespuglio, gli occhi del sassofonista si illuminano di botto per inseguire quel movimento leggiadro. Le labbra socchiuse prefigurano un piacere orgasmico. Tutto stando fermo, continuando a suonare come nulla fosse. Per la fiera affamata anche oggi è arrivato il lauto pasto. La vita nuda colta nell'istante del suo donarsi. Prima di vederla nascondersi ancora sotto strati di carne anonima, apatica quanto la superficie di un cadavere.

lunedì 21 novembre 2011

Deserto tartaro

Muoversi da naviganti solitari è sempre più difficile. Specie poi in quei luoghi di periferia dove l'ospite è l'eccezione. Comunque si tratta sempre di problemi di economia, di lavoro, di produzione di valore, di beni, di condivisione.
Una logica ferrea dello scambio, di cosa sia possibile permutare, mettere in comune secondo regole, tempi prestabiliti, si confronta, scontra contro una volontà di non essere inquadrato, poi inglobato all'interno di gabbie relazionali ordinate secondo la pratica del dono controdono obbligatori. Mai un fare qualcosa a perdere, per agire senza calcolo all'interno di rapporti poco commensurabili eppure possibili. A volte basterebbe dare la possibilità di essere al di là di un senso apparente, rassicurante.
Forse era solo il giorno storto.
Quando tutto precipita in fretta.
E non puoi farci nulla se non vedere ogni singolo piano del tuo mondo implodere su se stesso.
Velocemente.
A niente vale resistere.
Tutto frana inesorabilmente.
I tuoi ragionamenti non mi piacciono.
Se non ci fossi io a sostenere la baracca...
Tu prendi solo...
Il succo del discorso.
Ma poi ce l'hai la tessera per entrare?
No!
E bravo!
Neanche ci rispetti.
Non rispondo.
Esco.
Troppi i paletti i se e i ma frapposti.
Faccio terra bruciata.
L'inverno preme.
Anche questo porto andato.
Come sopravvivere qui in provincia.
Cosa inventarsi ancora.
Bandito per l'ennesima volta.
A torto o a ragione.
Chi se ne frega.
Amen.
Adieu.
Intanto dopo l'esorcismo uno spirito ramingo vaga nudo.
Fuori dal corpo sociale.
In attesa di rivestirsi ancora.
Al momento propizio.
Quando un nuovo ambiente meno ostile sarà pronto ad accoglierlo.
Almeno per un po'.
Aspettando primavera.

domenica 20 novembre 2011

Dinosauri

Non gli era rimasto molto.
Il suo carattere poco incline alla comunicazione, la naturale chiusura, l'introversione ne avevano fatto un animale poco sociale.
Ormai viveva quasi da solo. Non fosse per quelle due volte a settimana quando andava a trovare la moglie all'ospedale.
La sera stava in casa.
L'inverno aveva cominciato a farsi sentire.
Nella stanza al buio, coperto per resistere al freddo e all'umidità, guardava la televisione. L'unica apertura verso un mondo fosse anche il più artificiale e indifferente possibile.
Altro non era concesso.
Di più non poteva o voleva fare.
Anche la voce si era trasformata.
Non più avvezza a sfornare parole articolate in un discorso sensato, quando obbligato a rispondere emergeva tutta la ruggine accumulata. Prima di cominciare a parlare occorreva qualche colpo di tosse per oliare gli ingranaggi, per schiarire quel poco di voce rimasta.
In tanta solitudine a perdere gli era rimasta solo la moglie. Sebbene menomata di una parte di vita. Tra di loro era una gara a chi prima avrebbe restituito tutto.
Eppure nonostante gli innumerevoli acciacchi resistevano ancora. Come due dinosauri reduci da chissà quale cataclisma cosmico abbattutosi all'improvviso. In realtà lì da sempre a minacciare la loro esistenza precaria.
Da un po', quando la salutava all'ospedale, prima di andare via, la baciava in bocca. Con affetto. Lei sulla sedia a rotelle, lui chino verso di lei.
Da tempo non succedeva.
Forse non era mai accaduto.
Eppure a fronte di tanta mancanza anche il quasi niente assumeva un valore assoluto. Lasciate da parte le normali incomprensioni, le idiosincrasie basilari, quel rapporto si era colorato di un qualcosa di nuovo. Anche perché perso quello non ci sarebbe stato più nulla, più nessuno. A un passo da essere l'ultimo sopravvissuto di un'umanità in via di estinzione. Prossima a salutare per sempre questa terra nel silenzio più profondo. Senza aver lasciato alcuna traccia significativa.

giovedì 10 novembre 2011

Io sono la morte

In preda a furore impugno la chitarra.
Di studiare oggi non ce n'è.
L'ho già capito.
Comincio a suonare a caso.
Da solo.
Come uditori i vicini lontani, gli spiriti della casa, le suppellettili.
Il rituale ha inizio.
Seduto sulla sedia con la coperta di lana avvolta intorno al corpo, la chitarra accordata alla meno peggio, il plettro semirigido sulla destra.
Inizia lo strimpellio.
Deciso, secco, metallico.
Le corde violentate rispondono urlando rumore.
Intanto la voce si accorda al ritmo e strilla lenta...
Io sono la morte...
Io sono la morte...
Poi il giro di basso, il ritornello per ricominciare ancora...
Io sono la morte...
Io sono la morte...
All'infinito.
La frase partorita di getto pochi giorni fa, urlandola dentro.
Dopo averla vista scendere il viale del cimitero asciutta fino all'osso. Per fermarsi allo stop e guardare verso la mia direzione compiaciuta. Senza concedere lo sguardo coperto da occhiali con lenti rotonde come orbite colorate di azzurro psichedelico.
Dopo il giro della morte non fa più paura il passo ulteriore.
Io sono la morte!

martedì 1 novembre 2011

L'arte di arrangiarsi

Un ragazzo napoletano gira a vuoto disperato.
Ha una ruota in mano.
La deve aggiustare.
Ma non sa come.
Il cerchione è di una misura particolare.
Il copertone lo eccede di pochi millimetri.
Quanto basta per non stare incollato al cerchio lasciando intravedere la camera d'aria.
Impossibile gonfiarla senza farla esplodere.
I suoi occhi sono in preda all'ansia di non riuscire a completare l'opera, di fallire nei propri intenti basilari.
Partire con una bici con le ruote funzionanti.
Poi il resto si vedrà.
In tanta foga la soluzione più sorprendente, inaspettata.
Legare stretto il copertone al cerchio con delle fascette elastiche di plastica nera.
Senza parole.
Oltre qualsiasi logica immaginabile.
Un gesto creativo inaudito dettato dalla disperazione.
Geniale quanto disarmante.
Eppure alla fine inutile.
Il copertone non vuole saperne di stare attaccato alla ruota.
Seppure costretto a forza non si vuole adattare.
Come rincorrere una bolla d'aria.
Tanto più ti avvicini a lei, tanto più si sposta.
All'infinito!
La tensione cresce, così il senso della disfatta.
Le spalle basse, gli occhi tumefatti lucidi, le mani ai fianchi. La ruota ancora lì davanti come ostacolo insormontabile.
Destrutturato da tanto sforzo le parole escono a forza.
Come un bambino senza più certezze prova a chiedere appoggio ai vicini.
Prendetemi per mano, aiutatemi...
Dicono in silenzio i suoi occhi neri fissi verso il possibile soccorritore. Mentre solleva stupito i pezzi rotti del giocattolo in mano.
Alla fine sostenuto dai vicini una soluzione arriverà.
Rimane il gesto autentico.
Difficile da interpretare per chi ha già la soluzione bell'e pronta.
Un esempio mirabile dell'arte di arrangiarsi.
Degna di un napoletano verace.

domenica 30 ottobre 2011

Il teatro della crudeltà

Antonin Artaud è morto di cancro al retto come la zia.
Forse proprio così ha compiuto la sua opera senza opera.
Al di là di ogni contaminazione metaforica.
Per non sparpagliare fuori altri scarti.
Tappandosi letteralmente il buco del culo.
Per smettere di seminare intorno.
Per non generare più.
Opera implosa per eccellenza.
Disimpegno totale verso le proprie funzioni vitali.
Kundalini turgida di feci dure impossibilitate a uscire se non ripercorrendo il tragitto contrario verso l'alto. Al punto di innalzarti fino alla morte.
Un sacrificio perfetto!

Restless

È il titolo dell'ultimo film di Gus van Sant. Parla di giovani violentati dalla vita, di elaborazioni del lutto di esserci ancora, della scoperta di non avere un proprio ma di essere ostaggi dell'altro. Un sé anarchico dato in prestito per un po' a una coscienza ignara. Giusto il tempo di scoprire come stanno le cose e avere modo di prepararsi alla vita imparando a restituirla senza scarti. Lo si può fare con tragica grazia oppure ribellandosi demiurgicamente. Provando a fare finta di condurre il gioco, a farsi violenza da soli per nascondere la violenza originaria. Alla fine si tratta solo di una identificazione con l'altro carnefice prendendone all'occorrenza le veci. Al massimo si può diversificare la storia. Però si è sempre all'interno dello stesso gioco al massacro sia auto o etero indotto.
I giovani di Gus van Sant hanno scelto per quanto possibile la prima via. Inutile il risentimento, il rimbalzo della colpa, la rivendicazione, la rivalsa. Andare oltre non è semplice. Dopo tante battaglie, rimane solo l'accudimento reciproco in vista del proprio o altrui funerale. Con una grazia infinita, una dolcezza d'animo in grado di farti morire in piedi nonostante i colpi della vita. Tutto con leggerezza, distacco partecipe. Consapevoli di aver già perduto ogni cosa ancora prima di nascere. Espropriati da sé stessi da sempre. Il massimo dell'alienazione però con coscienza. Il sé come altro. Il rapporto costante con un nemico con il quale bisogna fare comunque i conti.
A chi interessano oggi tali tematiche?
Tra qualche giorno sarà Halloween.
Si parteciperà alla festa nonostante tutto, come nel film. Però nulla a che spartire con lo spirito orgiastico di chi pensa di prendere parte a un banchetto. Nella vita non si tratta di prendere, quanto piuttosto di rendere. Al massimo si può partecipare allo spettacolo del proprio corpo fatto a pezzi lentamente, trasformato al punto di essere irriconoscibile. L'alieno sublime inguardabile allo specchio. Doppio perturbante per quanto familiare e sconosciuto allo stesso tempo.
Insomma un film per tutti, alla fine per nessuno.
Una garanzia di qualità.
Totalmente estraneo alle logiche dello spettacolo.
Film antieconomico per eccellenza, per questo scartato a prescindere.
Una sola settimana di programmazione all'Odeon.
Poi il sacrificio sull'altare del botteghino per risorgere due settimane dopo all'Antoniano. Un cinema parrocchiale incluso nell'antistante convento dei frati. Un luogo un programma. Cinema della spoliazione per l'appunto, accolto da chi ha fatto della povertà il simbolo assoluto della vita. L'unica concessione a tale rigore è la festa post mortem. Il banchetto conclusivo per chi rimane a portare in silenzio la memoria intima dei bei momenti vissuti insieme.
In sala siamo in sei.
Appena seduto trovo al mio fianco una coppia di amici. A una spanna, senza volerlo. Ancora una volta l'imprevisto piacevole come la ciliegina sulla torta.
A metà film si accende una luce a rompere l'atmosfera.
Non si sa perché.
Rimarrà a farci compagnia fino alla fine.
Ma va bene così.
Questo è un cinema del disincanto e della giusta distanza.
Anche il troppo buio può accecare!
Meglio stare a contatto con la realtà circostante per potersi dire “è solo un film”.
Senza esaltazioni particolari.
Chissà... forse era previsto dal copione...
Usciti ci troviamo fuori a parlare tutti e sei.
Come amici di vecchia data.
Fuori dal tempo, dallo spazio.
Si sta insieme per un po'.
Poi ci si saluta fraternamente. Non prima di essersi dati appuntamento al Galliera, un altro cinema parrocchiale. Per vedere l'ennesimo film scartato dalla “vita”.

venerdì 21 ottobre 2011

Palazzo Paleotti

Il venticinque di via Zamboni.
Luogo storico di tante battaglie.
Lì si è consumata alla fine degli anni ottanta l'occupazione del bar dello studente con la conseguente autogestione antieconomica. Poi il sistema costituito si è rimpossessato degli spazi rinchiudendoli per un lungo periodo.
Da qualche anno, dopo la cura normalizzante, la nuova apertura al pubblico come sala da studio da una parte e di navigazione dall'altra. Tanti computer l'uno di fianco all'altro in serie. Però la luce non è affidata a una semplice lampada qualunque ma a un modello Artemide costosissimo.
Cosa non si farebbe per illuminare la triste catena di montaggio dello studente perfetto in grado di macinare esami su esami come nulla fosse. Piegato sui libri tra una lezione e l'altra senza spezzarsi mai.
Eppure anche questa trasformazione non ha resistito al tempo, alla stretta normativa. Troppa la storia incisa sui muri verniciati a nuovo per poter essere imprigionata entro le moderne regole di sicurezza.
Alla fine la sala navigazione è stata chiusa.
Non tutte le disposizioni di agibilità erano garantite.
Tutto in nome della salvaguardia degli utenti ora in strada senza più computer. Al massimo solo undici postazioni disponibili per i non studenti contro le trecento di prima.
Non è facile vivere in questo mondo.
Soprattutto rispettare quegli ideali di sicurezza tarati secondo livelli disumani di salute pubblica. Stando a quei parametri sarebbe certificata l'impossibilità della vita sulla terra. Luogo ameno, poco ospitale, non in grado di garantire una sicurezza assoluta. Dove a prevalere è casomai l'imprevisto.

Ciclofficina esistenziale

La ciclofficina esistenziale non ha bisogno di luogo. Non lavora in superficie, tanto meno vuole ordinare la materia per farle assumere una forma.
Puoi trasformare gli ambienti, spostarla da qualsiasi parte.
Non è un problema!
Lei si adatta.
O meglio... rimane indifferente.
A contare è solo la presenza, la relazione tra le persone in carne e ossa disposte al confronto, a mettersi in gioco per cambiare dentro. Oltre ogni logica vittimistica, contro l'idea di voler manipolare l'altro per farne un oggetto manipolabile sebbene in vista del “bene”.
Si lavora solo su sé stessi, sulle proprie emozioni, sulla propria immaginazione, sulle capacità di analisi. Scoprendo livelli sempre nuovi sebbene ogni volta familiari. Disposti a mettere tutto in discussione in ogni istante. Senza freni.
Quanto da abbattere va abbattuto senza remore o nostalgie.
La verità di oggi non vale domani.
Tutto in nome di una precarietà dinamica capace di portarti a fondo se non adeguatamente gestita.
L'importante è saper perdere.
All'occorrenza tutto.
Restituendo prima possibile ogni orpello trattenente il flusso vitale. L'altro silenzioso, l'ospite inquietante capace di possederti per un istante solo se gliene si lascia la possibilità, lo spazio, meglio il vuoto.
Senza troppo resistere, senza essere del tutto passivi possiamo solo opporre un leggero filtro creativo. La maschera essenziale del momento con la quale la materia si incarna in qualcosa, in qualcuno. Seppure per il tempo di un istante.

E il naufragar m'è dolce in questo mare...

Machestaiadì!
È il rischio del fraintendimento assoluto, il punto abissale dove affondano i pensieri, il proprio mondo, le proprie basi esistenziali.
Le parole erette come castelli in aria precipitano scosse dal terremoto della vita. Invano hanno provato a circoscriverla entro recinti di senso. A ondate ritmiche come uno tsunami la vita si riconquista le posizioni perse. Inutili le barriere, le recinzioni per contenerla. Tutto viene travolto e riportato al caos. In quel frangente dove vacilla ogni certezza si viene condotti sulla soglia della follia. Dopo il crollo si resta nudi, in silenzio, senza protezioni, con le spalle al muro. Tutto è sospeso, indefinibile. Lì si toccano gli opposti neutralizzandosi. Ogni posizione diventa plausibile. Yin e yang, il luogo della paratassi dove si perdono i pensieri. Il punto in cui si incrociano tutte le storie, le narrazioni plausibili. Senza più la possibilità del discernimento.
Insopportabile l'abisso senza fondo raggiunto per non rivestirsi frettolosamente di un ulteriore catena di parole organizzate in un discorso sensato. Per recidere tanta varietà, tanta complessità stritolante. Troppo lo spavento, il freddo patito per non coprirsi ancora cercando di nascondere per un po' quel naufragio senza ritorno sempre dietro l'angolo. Già parlarne è segno di esserne sopravvissuti ancora, di aver messo i piedi su chissà quale isoletta sperduta nell'oceano in procinto di sprofondare senza preavviso.

venerdì 14 ottobre 2011

A morte lo zen e l'arte della manutenzione della bicicletta

Era inevitabile?
Nessuno può dirlo.
In tempi di crisi tutto si sospende. Spesso emergono comportanti inaspettati dettati più dalla sofferenza del cambiamento in atto. Difficile sopportare la prospettiva di morire per nascere in altro.
Nel volgere di un anno o poco più si era passati dalla ciclofficina esistenziale sospesa, destrutturata, minimale, a quella funzionale del fare.
Ma l'estate aveva portato scompiglio.
Alle più o meno complesse forme di stare insieme intorno alla bici si era affermato il caos anarchico. Ogni pratica comunitaria si era andata a farsi benedire. Così, vuoi per la mancanza di una parte dei ciclofficinari, vuoi per il naturale rilassamento estivo, c'era chi ne aveva approfittato. A man bassa avevano depredato la ciclofficina dei suoi strumenti, degli oggetti preziosi. Incuranti del futuro. Pronti a ferirla mortalmente. A tale situazione si era aggiunto la normale attitudine spensierata di chi veniva per la prima volta in ciclo senza avere le idee chiare.
Sarebbe bastato aspettare un po', dare modo a tutti di farsi le ossa, di innestare nuove dinamiche relazionali improntate sull'amicizia e la cura reciproca. Alla fine si sarebbe trovato un nuovo equilibrio. Se solo si fosse rimasti ancora un poco in apnea. Resistendo, sopportando questi naturali momenti di riassetto.
Invece no!
C'è chi non ce l'ha fatta a sospendere e frenare il proprio impulso a agire.
Già da un po' di tempo in ciclofficina era affiorata una insana tentazione di ordine e di disciplina.
La forma è il contenuto... qualcuno urlava!
Tutto andava catalogato, reso disponibile in modo chiaro, secondo un senso palese capace di innestare i giusti comportamenti consequenziali nell'applicazione delle normali regole di manutenzione.
Basta con le bici fuori posto!
Anche la disposizione degli utenti andava regolamentata secondo un disegno preciso, economico, utilitaristico. Presi per mano i nuovi arrivati venivano condotti nei loro box già preordinati.
Da ora si aggiusta le bici solo dentro gli spazi della ciclo.
Chi sta fuori è escluso.
La manutenzione della bicicletta si era meccanicizzata.
Niente più inconvenienti o imprevisti.
Tutto era diventato logico, rigoroso, secondo una catena causale di azioni e di conseguenze previste.
O bianco o nero!
A volte si rasentava l'eccesso e per chi era abituato ai vecchi standard la cosa dava un po' fastidio. Anche perché al caos creativo di prima si era sostituito un apparato gestionale di certo efficiente però disumano. La tecnica aveva prevalso sull'uomo. La ciclofficina utilitaristica portata all'eccesso era divenuta post-human. In linea con le tendenze generali già viste all'interno di una società tecnocratica, biopolitica.
Se prima si riusciva a perdonare le fisiologiche idiosincrasie grazie a delle dinamiche affettive compensatorie, ora in nome del senso, della verità si preferiva la disciplina, l'allineamento. Mossi da un antico spirito utopico di educazione certamente autoritario, pronto a sacrificare sull'altare della funzionalità tutto, compresa l'amicizia e le sue dinamiche non lineari.
A conti fatti tale regime austero non sarebbe durato a lungo.
La forza arcana della ciclofficina avrebbe prevalso ancora una volta.
Troppo duro il prezzo da pagare per i sacrificatori di turno, per i normali utenti privati delle loro abituali libertà.

mercoledì 12 ottobre 2011

Minuteria

Strati su strati di bulloni, viti, nipple, piccoli oggetti di ferro più o meno accatastati nei luoghi del riciclo. Dei piccoli contenitori a cassetti appoggiati al muro con su scritto il nome della categoria generica. Che so coni, sferette, chiavelle... Ma il luogo più interessante è un contenitore a settori abbastanza grosso da coprire la superficie increspata di un vecchio tavolo di legno. Quello è l'abisso della ciclofficina. Il punto zero dove affonda la struttura complessa di una bicicletta. Sorta di buco nero capace di assorbire la materia ordinata per neutralizzarla. Lì c'è il livello minimo, atomico dal quale potrà rigenerarsi qualsiasi cosa. Basta un po' di pazienza e una non comune predisposizione archeologica. La sedimentazione delle ciclofficine passate ha compiuto il suo corso. Ne rimangono solo le tracce confuse, mescolate.
Chi ha messo lì i pezzi?
Chi li ha smembrati e conservati?
Di loro rimane le vestigia del lavoro di sminuzzamento, l'attitudine a differenziare il materiale in categorie distinte. Mossi dalla pulsione di fare ordine, di dare luogo a un nuovo corso tutto da inventare.
Con il ditino indice proteso in avanti, la testa bassa, lo sguardo focalizzato su di un piccolo settore si rovista piano piano spostando il materiale a destra e sinistra. Di poco. A caso. Come farebbe un bravo archeologo sulla sabbia a caccia di reperti. Qualcosa emergerà da tale caos. Mescolandolo ancora. Basta avere un'idea vaga di cosa cercare in tanto marasma. Si lavora in prospettiva. Raccogliendo pezzo dopo pezzo come con un mosaico. Senza sapere bene dove si arriverà. Piuttosto ci si lascia guidare dall'intuito. Alla fine i pezzi combaceranno in qualche modo. Prima o poi emergerà una forma conchiusa, un oggetto di nuovo funzionale.
Il piacere della ricerca è immenso.
Ci si può passare ore e ore a rovistare nel nulla per portare quei frammenti a essere ancora qualcosa.
La varietà incontrata è sorprendente.
Una quantità smisurata di minuteria tutta differente inventata per scopi oramai dimenticati.
Massimo il potere creativo.
Lo stesso di quando si giocava con i lego.
Ci puoi costruire un grattacielo se vuoi.
A partire da un nulla.
La formula segreta della creatività.
Oltre il regno della tecnica, della funzionalità seriale.
Basta immergersi.
Stare in apnea il più possibile per scovare i frammenti giusti.
La seduzione dell'oggetto è totale.
Si viene posseduti dalla forma di una vite, di un bullone.
Tanta l'ammirazione e lo sconcerto per il pezzo trovato.
Si potrebbe arrivare sulla luna da lì.
Con un po' di volontà, un pizzico di spirito critico. Il tutto condito da un'attitudine creativa non facilmente incline a lasciarsi influenzare dalla mancanza, dalla paura abissale.
Prima però bisogna sospendere tutto.
Fissarsi lì in quei pochi centimetri davanti al naso senza fiatare.
Qualcosa succederà.

lunedì 3 ottobre 2011

La ciclofficina spettacolare

A fianco di tutte le ciclofficine finora affrontate, quella esistenziale, del fare, utilitaristica, antieconomica, esiste un ulteriore livello tenuto finora in ombra.
Di tutti è il più astratto, il meno tangibile.
Però c'è. E sebbene faccia fatica a affrontarlo mi trovo costretto a parlarne. Per onore del vero.
Si tratta della ciclofficina virtuale, evenemenziale, spettacolare, mediatica. Come già accennato di tutte è la più inconsistente. Forse non sussiste nemmeno. Anche perché non ha bisogno di un luogo per esistere. Basta solo se ne parli. Attraverso i blog, per radio, sul giornale. Sono loro a decretarne l'esistenza. Alla fine a contare più di tutto è l'evento in sé isolato da una volontà ostinata a far emergere qualcosa dal silenzio, dall'oscurità. Per farlo entrare strumentalmente nel circuito della comunicazione, del dialogo al fine di parlare d'altro. Di politica, di moda, di sociologia, di costume. Per scovare che so... lo spirito del tempo, per denunciare gli abusi sociali in nome della giustizia.
Tale ciclofficina ha i suoi sacerdoti e i suoi adepti. Per farne parte è sufficiente partecipare a una riunione reale o virtuale al fine di far emergere una volontà generale condivisa. Il prezzo la separazione tra la parola e l'azione, il legislativo dall'esecutivo, l'atto locutorio dal performativo. Non più dico mentre faccio ma qualcuno farà qualcosa secondo quanto disposto. Così c'è chi pensa l'evento per farne oggetto di condivisione attraverso i media e chi si adopererà per allestirlo ad hoc. Bell'è pronto per apparire sulla scena davanti ai riflettori avidi di inquadrature, di notizie apprezzabili. Entrambi complici della società dello spettacolo, della violenza dell'opinione fondatrice di verità, del consenso, nonché strumento. Una volta consumato l'evento chi s'è visti s'è visti. Le biciclette scassate ritornano a vegetare tra cumuli irriducibili di spazzatura e di sporcizia, tra detriti informi in attesa di essere catturate e valorizzate da uno sguardo oggettivizzante poco incline a sporcarsi le mani.

domenica 2 ottobre 2011

La ciclofficina a nudo

Punto a capo.
La ciclofficina è di nuovo senza timoniere.
Va alla deriva allo sbaraglio come una nave fantasma.
Ma non affonda.
Resiste nonostante le falle, nonostante sia stata depredata degli strumenti necessari. Le chiavi inglesi, lo smaglia catene, i tiraraggi.
Senza più capo il caos ha prevalso di nuovo.
Ogni cosa è abbandonata dagli utenti distratti dove capita.
C'è ancora qualcuno intento a reclamare una dieci.
Ma nessuno risponde.
Pazienza, occorre trovare un'altra soluzione.
Oggi ad aprire c'è solo Igor.
Senza di lui i battenti sarebbero rimasti giù.
Non c'è la calca del mercoledì, quando la ciclo si riempe di studenti impazienti di aggiustare la bici nel modo più veloce possibile. Non senza un pizzico di arroganza.
Dopo la ciclofficina esistenziale, del fare cosa accadrà ancora?
A resistere come nulla fosse è solo la ciclofficina migrante. E Said è il suo profeta.
Lo scopo è minimale. Aggiustare la bici quel tanto necessario per farla funzionare sulla strada l'indomani. Non conta il tipo di guarnitura, la marca dell'asse della ruota. Basta solo farle camminare ancora un po' con quanto a disposizione. Lo stretto necessario. Riciclando il più possibile. Questa è la ciclofficina più primitiva, originaria. Lo zoccolo duro da cui potrà emergere ancora chissà quale nuova forma di vita complessa.
Eppure in tanta disorganizzazione c'è qualcuno mosso da uno spirito originale.
Alessandro ha trovato nel cortile di casa una bici abbandonata con il telaio storto. Si è sentito in dovere di ridonarle un'altra chance. Come fosse stato infatuato da quell'oggetto reclamante ancora vita. Con tutto se stesso ha accettato la sfida all'apparenza impossibile. Dopo averla smontata pezzo dopo pezzo sta portando il telaio ferito a nudo. Seduto in un angolo gratta delicatamente la vernice azzurra con la carta vetrata. Piano piano emerge in superficie un argento luminoso. Non durerà per molto. In poco tempo prevarrà la ruggine. Ma anche così l'effetto è mozzafiato.
Intanto il vero problema rimane il telaio storto.
Non sarà facile riportarlo a un nuovo equilibrio.
Però non si perde d'animo.
Fiducioso continua la sua missione.
Non importa finire oggi.
Prima o poi si arriverà.
Alessandro ha portato pure una bottiglia di vino.
Vuole condividere questi momenti con qualcuno.
Sotto sotto da vita alla sua idea di ciclofficina.
In silenzio.
Senza apparire.
Dopo l'ennesimo sterminio la ciclofficina regredita a un nuovo grado zero di significazione è pronta per risorgere dalle sue ceneri.
Il vecchio è già digerito. Disperso tra le macerie di tentativi di ordine andati a vuoto. Tra tanto caos c'è ancora lo spazio per generare nuove possibili opportunità.
La ciclofficina sotto sotto è in fermento.
Lei non si preoccupa affatto del suo futuro.
Sempre pronta a rigenerarsi come un'araba fenice.
Quante volte è stata data per morta.
Eppure è ancora lì. A dispetto di quanti ne hanno preventivato la fine. Piuttosto sono stati loro a scomparire risucchiati dalla vita.
Impossibile non rimanere affascinati da tanta potenzialità pronta a esplodere all'improvviso.
Nuova vita alla nuova ciclofficina!


Ampioraggio
Forse è finito un ciclo.
Tutto quanto c'era da apprendere è stato preso.
Ora rimane il tempo di restituirlo a qualcun altro.
Per svuotarsi ulteriormente, per ricambiare il dono.
Ai nuovi, a chi è desideroso di intraprendere tale cammino.
Per non fermare l'esperienza all'interno del ciclo dell'identico.
In modo da far dischiudere nuove opportunità!
Questa ciclo ha fatto il suo tempo.
È ora di battere nuovi sentieri inesplorati tutti da scoprire.
Mettendosi a nudo ancora!
Aprendosi a nuovi orizzonti.

giovedì 22 settembre 2011

In missione

È notte fonda.
In un vicolo buio cieco sta adagiata una bicicletta da corsa Montanari. È senza lucchetto. Abbandonata al suo destino.
È bellissima... tutta guarnita campagnolo con la sella brooks!
Da mesi sta lì. Un gioiello ignorato sotto una coltre di polvere e smog! Da vari giorni è entrata nel nostro mirino. Senza fretta l'abbiamo lasciata lì! In attesa di deciderne la destinazione!
Nel frattempo nessuno l'ha presa!
È ancora dove l'abbiamo vista la prima volta!
Ad Ancona a un nostro amico è stata rubata la bici da corsa e non sa come fare!
È arrivato il momento di agire!
Con la fissa lanciata mi spingo repentino verso la meta agognata come attratto da una calamita irresistibile.
Niente può distogliermi. Non vedo altro.
Ancora poche pedalate e ci sono!
Rallento un poco per trovare il passaggio giusto tra le macchine parcheggiate al centro della carreggiata per attraversare la strada!
In giro non c'è più nessuno.
Poi all'improvviso una ragazza giovane con il casco in mano mi corre incontro gridandomi di fermarmi.
Di sicuro ha meno di diciotto anni.
Mi racconta la sua storia.
Non ci faccio caso più di tanto, tanto non cambierebbe nulla.
Deve prendere un taxi...
Se no ciccia... niente ritorno a casa...
E non fa più caldo come qualche giorno indietro.
Non ho moneta cartacea... Solo qualche spiccio. Il resto del resto.
Decido di aiutarla per quanto posso.
Mi colpisce una sua frase...
Se tutti quanti incontrati mi avessero dato due euro il problema sarebbe già risolto...
E va bé ecco i due euro...
Quanto atteso... né più né meno.
Non troppo per me, abbastanza per lei...
E in bocca al lupo!
Riprendo la strada sebbene con tanta perplessità e stupore. Come se qualcosa di potente si fosse frapposto ai miei progetti segreti. Quasi un presagio! Qualcosa si è incrinato. E non sono più tranquillo e deciso. La sensazione è di stare trasgredendo qualcosa di profondo.
Pieno di dubbi imbocco la strada.
La percorro fino in fondo.
La bici non c'è più presa da chissà chi.
Di colpo un senso di leggerezza mi pervade.
Mi sento all'improvviso libero, affrancato da tutto.
Mi torna pure il sorriso.
Dietrofront!
Danzando sulla bicicletta me ne torno a casa.
Buonanotte a tutti!

giovedì 15 settembre 2011

Nuova vita

Per le strade desolate, negli angoli più oscuri lontano dalle luci dei lampioni giacevano biciclette ferite mortalmente.
Ancora poco e sarebbe stata la fine.
Già monche di una ruota, di una sella aspettavano il colpo definitivo. Che so la perdita dei pedali, dei freni ad opera dello sciacallo di turno.
Legate al palo da una grossa catena altro non potevano fare se non guardare inermi il proprio sfascio.
A ogni colpo si levava alto nella notte l'urlo dalle lamiere contorte e arrugginite.
Non durava per molto.
Dopo ripetuti colpi man mano le forze venivano meno.
Allora non si sentiva più nulla.
Stremate si lasciavano morire in silenzio durante la spoliazione selvaggia.
Quanto rimaneva sarebbe finito nel dimenticatoio come lo scheletro di tanti animali del deserto incappati in circostanze avverse. Tutto il resto avrebbe rimpolpato vecchie biciclette inferme in attesa di un trapianto.
Le più esposte le più belle. Quelle con gli ornamenti ricercati, una guarnitura di marca, dei pedali resistenti.
Per loro la fine era quasi immediata.
Per le altre l'agonia durava molto più.
In attesa del colpo di grazia.
Tra di esse, le più sprovvedute o lungimiranti, aspettavano il salvatore. L'uomo della notte venuto a portare altra vita, a suturare le ferite con nuovi pezzi.
Come novelle Lazzaro speravano nel miracolo della resurrezione.
Ma quell'incontro non si era ancora verificato.
Da tempo immemore aspettavano invano.
Tutti quanti si erano avvicinati lo avevano fatto solo per depredarle di qualcosa.
Difficilmente quella sera sarebbe successo il contrario.

venerdì 2 settembre 2011

Memorie di uno schiavo

A far compagnia alla zia ora c'è anche Yzu.
È morto la fine di agosto.
Di cancro.
Come la zia.
Sembra non si sia voluto affidare alle cure del caso e abbia accettato di restituire tutto prima possibile per essere definitivamente libero. Lui che si chiamava per scelta Yzu schiavo.
La notizia non sorprende più di tanto.
Aveva la morta scritta in corpo, nel volto.
In fondo come tutti.
Però lui non lo nascondeva.
Per un po' ha provato a prendersene beffa, a sfidarla.
Come scagliarsi contro i mulini a vento.
Forse morire è stata una soluzione.
Non so se un bene.
Comunque una liberazione.
Dal mal di vivere.
Dal risentimento di esserci.
Dopo aver appreso la notizia, di notte sono andato a vedere la sua pagina internet. A caccia delle ultime tracce lasciate.
Al posto della solita foto c'erano le sacche di sangue con i tubi allacciati.
Una scena già vista.
Ironica per chi vestiva abitualmente i panni di un vampiro randagio assetato di alcol.
Durante l'estate, con la zia moribonda, l'ho incontrato più di una volta al solito baretto vicino al teatro comunale.
L'aspetto non era per niente buono.
Ma non troppo differente da tante altre volte reduce da sbronze, nottate insonni.
Sapeva tutto ma non ha mai lasciato trapelare nulla. Come se non stesse succedendo niente di particolare.
In fondo si muore da sempre.
Con il contagocce.
Teneva tutto nel groppone in silenzio.
Con la pesantezza camuffata di un Atlante.
Senza fiatare.
Portando sulle spalle il proprio fardello.
Con dignità.
Sempre pronto alla battuta.
Fino alla fine.

lunedì 22 agosto 2011

Violetta

Solitamente la chiamavano Viola.
Lei aveva provato a controbattere.
Scusate, il mio nome è Violetta Helena.
Ma nessuno l'aveva ascoltata.
Anzi con il tempo anche i parenti più lontani la chiamavano così.
Beh... tutti la chiamano così.
Anche quando ripresi non c'era nulla da fare. Quel nome si era impresso nella loro memoria come un marchio di fabbrica.
Alla fine aveva ceduto e per tutto il periodo accanto alla zia come badante si era mestamente rassegnata a tale evidenza.
Era la prima volta a trovarsi in quel ruolo e non era stato facile. Inizialmente si era prefigurata ben altri scenari. Più di una occasione era stata sul punto di cedere e di abbandonare l'intera baracca al suo destino. Anche perché di problemi personali da risolvere ne aveva assai. Questioni fondamentali capaci di invischiare l'esistenza come dentro una gabbia asfissiante. In fondo lo stare al fianco della zia era stato il pretesto per fermare una traiettoria vitale impazzita. Una fuga da un mondo ostile dove c'erano però tutti gli affetti di una vita.
Sebbene non ci fosse stata mai una reale comprensione aveva trovato negli amici della zia un'accoglienza basilare. Lasciando perdere la storpiatura del nome la sostenevano per come potevano. Che so portandole da mangiare o facendole la spesa. Anche perché senza di lei veniva a cadere l'intera impalcatura di accudimento della zia. In tutto questo tempo era riuscita comunque a raccontare le sue vicissitudini al nipote. L'unico ad ascoltarla veramente, a conoscere la sua storia. Almeno per quanto poteva. Senza di lui sarebbe già caduta più di una volta. Ma anche nelle situazioni peggiori era riuscito pazientemente a contenere le sue crisi passeggere. Alla fine si era fatta le ossa. Per questo si mostrava riconoscente verso di lui al punto di voler ricambiare con quanto poteva. Un aiuto nell'amministrazione delle piccole cose domestiche del tutto lasciate all'incuria. Ciò era stato facilitato anche dal breve soggiorno a casa sua dopo la morte della zia. Così aveva avuto la possibilità di entrare nel suo sancta sanctorum. Avrebbe voluto risistemarlo secondo delle regole igienico-sanitarie generalmente condivise. Ma senza successo a causa della reticenza di lui. Quel caos all'apparenza disorganizzato corrispondeva al suo modo destrutturato di vivere. Nonostante la mancanza di ordine tutto si trovava a disposizione con facilità in vista delle occasionali esigenze minime di sopravvivenza.
Ma c'era dell'altro.
Sotto sotto sapeva bene cosa si nascondesse dietro quell'apparente altruismo disinteressato. Un modo per creare riconoscenza e riconoscimento al punto da legare l'altro sottilmente secondo la logica implicita del dono-controdono. E non ne voleva sapere. Ci teneva alla sua libertà e faceva di tutto per svincolarsi da tali dinamiche. Per questo la evitava quando poteva per non essere invischiato in quella trappola a ciel sereno difficilmente gestibile. Anche perché non avevano granché da dirsi né da condividere. I loro obiettivi erano del tutto non sovrapponibili. Il loro incontro frutto solo del caso. In condizioni normali difficilmente si sarebbero avvicinati l'uno a l'altra. Perciò era saggio rimanere ognuno per la propria strada. Tutto nel rispetto reciproco e nella trasparenza delle opinioni.

lunedì 8 agosto 2011

Bela Lugosi is not dead

Arrivano verso mezzanotte.
La zia è già morta da un po'!
Ha ancora la carnagione rosea. Il sangue non ha defluito del tutto.
Sono in due. Il vestitore e l'accompagnatore.
Prima del rigor mortis la zia va cambiata. In fretta e furia bisogna cercare dei vestiti nel guardaroba, rigorosamente in bianco e nero, le collant non si trovano, pazienza...
Il vestitore è alto, quasi cieco, impacciato nel camminare. Al primo gradino inciampa barcollando paurosamente.
Sarà per la statura di oltre un metro e ottanta, l'età avanzata, i capelli bianchi spettinati, la camicetta celestino chiaro un po' trasandata sembra uno zombie richiamato dall'oltretomba per fare il lavoro sporco. Dare una presentabilità alla zia restituendola a una dimensione senza tempo. Sospesa da sempre nell'eternità. Come se tutto quanto vissuto di recente non fosse stato. Potesse le donerebbe anche un leggero sorriso beato.
Nonostante la mole, quando si presenta lo fa con una vocina piccolina piccolina quasi fosse ancora un bambino un po' troppo cresciuto nel frattempo. Con sé ha portato la cassetta degli attrezzi come quella dei medici di un tempo. Una borsa nera in pelle con apertura a scatto centrale.
Non perde tempo. Come un automa attivato sa bene cosa fare e nulla lo può distogliere dalla meta intravista. Il corpo della zia immobilizzato a letto. Circondiamo la zia per le presentazioni. Ma non c'è tempo. Il nostro eroe sta già smontando il letto per agevolare il lavoro... L'accompagnatore lo ferma... ei un attimo... aspetta. Ma tanta è la voglia di cominciare da voler bruciare tutte le tappe, gli ostacoli tra lui e lei.
Lo lasciamo da solo.
Vanno tolti gli oramai inutili strumenti di sopravvivenza, il catetere, i due ani artificiali, la maschera per l'ossigeno. Poi come un bebè incontinente dovrà fasciarla per evitare le perdite. Allora la vestirà con quanto trovato lì a disposizione. Dopo circa un'ora l'opera di trasformazione è terminata. La zia è stata restituita integra a nuova vita. Vengono gettati in una busta trasparente tutto quanto di residuale non più conforme al nuovo stato. La zia come una farfalla ha lasciato la crisalide. La metamorfosi è ora compiuta. Nuova vita alla nuova carne.
Prima di andare il vestitore tira fuori dalla borsa nera un contenitore in plastica bianca di amuchina offrendolo a tutti come lauto premio per il buon risultato. Manco fosse un infermiere d'ospedale o un consumato attore di C.S.I.

giovedì 4 agosto 2011

Ciclofficina antieconomica

La ciclofficina non è un'istituzione.
È piuttosto un evento occasionale unico capace di rigenerarsi ogni volta dalle proprie ceneri. Oggi c'è domani chi lo sa. Nessuno è impegnato. A meno non gli faccia piacere. Non si deve nulla a nessuno, non si dà nulla a nessuno. Questo per scongiurare qualsiasi ottica utilitaristica. La ciclofficina è antieconomica. Non ha nulla da guadagnare, tutto da perdere. Se ne infischia delle pratiche caritatevoli. Va per la sua strada. Chi vuole percorrere insieme lo stesso cammino è libero di farlo. La ciclofficina è uno stile di vita applicato alla realtà utilizzando come pretesto la bici. Ma poteva essere qualsiasi altra cosa. A contare non è il risultato ma il fare, stare insieme per un po'. Poi ognuno per la propria strada fino al prossimo incontro. Senza obbligazione alcuna, imparando a gestire la perdita, l'incertezza, l'instabilità. Tutto in nome di una libertà negativa svincola da qualsiasi imposizione, dispositivo di qualsiasi natura. Se proprio volessimo trovare un'analogia, la sua propensione atelica può essere avvicinata alla dimensione del gioco.
In conclusione, non ci interessa l'economia, la logica dello scambio reciproco, il fare il bene, l'utilitarismo, il volontariato, la ricerca di salvezza. Piuttosto meglio la perdizione ciclica, l'impasse, la sospensione, lo sciopero a oltranza.

sabato 30 luglio 2011

The fly

Quanto rimasto della zia aveva ingaggiato una dura lotta per la sopravvivenza. Nulla era risparmiato. Il computer di bordo seppur scassato aveva ricominciato a girare. Era necessario un piano d'emergenza. Subito! Senza esitazione alcuna. Andava fatta un'attenta analisi della situazione per valutare cosa salvare, cosa utilizzare nell'evenienza. Bisognava stringere alleanze, tagliare i rami morti. Non c'era tempo per ulteriori riflessioni sulla propria miseria. Ogni energia andava canalizzata per agire più velocemente possibile con il minimo spreco. Una lucida follia si era impossessata della zia. Resistere a qualsiasi costo. L'unico nipote rimasto era stato inglobato nel suo delirante progetto. A quanto pare ne rappresentava un tassello imprescindibile. Per questo veniva messo alla prova.
Quanto mi ami... quanto posso contare su di te.
Solo l'amore come un laccio invisibile sarebbe riuscito a legarlo al suo corpo.
Senza sarebbe stata perduta. Null'altro al mondo avrebbe potuto trattenerlo a lei. Così appena entrava nel suo mirino gli chiedeva di espletare compiti basilari.
Sollevami dal letto...
Dammi da bere...
Guarda qui... indicando le ferite ancora aperte.
Ma soprattutto accettami per quello che sono.
Amami incondizionatamente al di là di tutto. Della mostruosità, degli umori, dei liquidi fatiscenti.
Amami e basta. Senza fiatare.
E se non ti viene naturale, imponitelo.
Ma tutto doveva partire dal corpo, dalla sua cura, dalla manipolazione pratica.
Toccami...
Non stare lì a fare niente.
Accarezzami!
Donami il tuo amore sennò muoio.
Senza sono nuda, indifesa.
Fa tanto freddo.
Ricoprimi d'affetto.
È tutto quanto può ancora salvarmi.
Ma le cose non stavano così.
Tutt'altra cosa la realtà rispetto le fiabe.
Per il nipote veniva più naturale prendere le distanze agito da una tensione al basso ventre, dalla nausea soffocante.
Quanto sarebbe durato ancora il girone del vomito?
Ma forse il problema era ancora più grande.
Quel letto in mezzo alla stanza era diventato il sinedrio circondato dalla folla inferocita.
Un mondo con le sue regole pronto a giudicare e a condannare il deviante di turno se messo in discussione. Per una parte contava solo l'esecuzione, l'allineamento, l'obbedienza, per l'altra l'arresto, la sospensione, la disseminazione anarchica. Uno scontro di forze. Alla fine uno contro tutti. Sarebbe riuscito a cavarne fuori le penne?
La sera portò il corpo stanco sui gradini della piazza antistanti il bar del teatro. Sempre più reduce si riposava un po' per l'indomani. Impossibilitato a comunicare ai suoi amici il peso della battaglia sostenuta, il livello dello scontro in atto invisibile ai più.


A ben vedere oltre qualsiasi logica della colpa e della pena, oltre qualsiasi responsabilità soggettiva in fondo a tutto si contrapponevano due visioni della vita antitetiche, forse le facce distinte di una medesima medaglia. Da un lato una volontà di adattamento infinita votata a una continua trasformazione a ben vedere radicalmente conservativa. Dall'altro invece l'attitudine di riuscire a dire “è abbastanza”, tutto è compiuto, finito, ogni secondo in più inutile, osceno, irrispettoso, ingeneroso. La vita ottusa incontenibile contro la battaglia per limitarla, de-finirla, de-terminarla al punto di desiderare di scomparire, restituire tutto per sfuggire da tale pulsione cieca e indifferente capace di dare alla testa se non abituati a riconoscerla, a prenderne le distanze. Una sorta di rinuncia come in un rito esorcistico.
Rinunci alla vita?
Si, rinuncio!
Per tornare a essere non posseduti, liberi e affrancati dai legami economici da essa imposti. Insomma superare l'atto creativo sospendendolo a partire da se stessi. Come esempio per tutti. Non lavorare più per la vita, scioperare, rifiutando di avere un ruolo attivo nella sua conservazione smisurata, eccessiva.

giovedì 28 luglio 2011

Biodiversità

Sarà per aumentare le varietà. Comunque da sempre vengo tenuto in vita da nemici prossimi, i genitori, la zia. Per anni ho combattuto il loro mondo, la loro visione della vita. Però, allo stesso tempo provvedo alla loro conservazione. Una sorta di paradossale parassitismo simbiotico. Fuori dalle solite regole dello scambio mutualistico. Tutto nei limiti della sopportazione reciproca. Mossi dall'odio più che dall'amore. In equilibrio precario. Come con un cancro. C'è, te lo tieni, ci convivi.
Però la troppa vicinanza fa male.
Dopo un breve contatto urge la distanza, la più profonda possibile. Senza allontanarsi troppo. Stando lì nei paraggi. Il tempo di perderli di vista, di non sentirli più.
Alla faccia del buon samaritano.
Mossi dallo stesso entusiasmo impiegabile per conservare un panda o uno squalo. La cura minima necessaria. Con una garza sulla sinistra e il coltello pronto a essere brandito sulla destra. E non si tratta di vincere l'uno sull'altro. Si sa già di aver tutti perduto a prescindere.

mercoledì 27 luglio 2011

Mago Zurli

Le previsioni di oggi indicano tempesta.
Barricati in casa ci si sente ostaggi della situazione.
Si vorrebbe uscire, fare sport su un prato, ma non è possibile. Si è sequestrati dagli eventi in attesa di una schiarita per partire con nuovi progetti.
La zia appena uscita dall'ospedale è andata in crisi di brutto. Senza più timoniere in mezzo ai flutti alti delira. Altro non può fare, ostaggio della propria emotività, di un pensiero distaccato da tutto capace solo di girare a vuoto inarrestabilmente.
La nave affonda e la zia si attacca a qualsiasi legno disponibile per non sprofondare del tutto. Questioni di tempo.
La nuova apocalisse avviata ha la sua storia. Un inizio, uno svolgimento, un'economia votata alla sopravvivenza assistita. In nome di una possibile qualità della vita.
Riuscirà il sistema zia a reggere l'urto e mettere insieme i pezzi residuali, il salvabile?
Finora ha dato prova di una resistenza inaspettata. Oltre il delirio, il vaneggiamento, il suo corpo non molla. Anzi resiste strenuamente, prova a riorganizzarsi per ripartire ancora. Come fosse un terminator inarrestabile in grado di trasformarsi irresistibilmente in qualcosa... a partire dai propri cocci smembrati.
Datemi tempo e vi stupirò.
Tutti siamo in attesa del nuovo miracolo. Titubanti e spaventati casomai dal dopo. L'ulteriore livello del gioco. Uno step in cui può accadere di tutto. Prima del fatidico game over.
In tanta trepidazione non resta di ridere a crepapelle senza motivo apparente. In macchina, sulla scrivania, mentre scrivo. Senza un perché. Un riso puro, viscerale. Una ginnastica mascellare per attivare un po' di positivo così da mettere in scacco abitudini implicite deleteree. Un modo come tanti per distogliere l'immaginazione barando.

lunedì 25 luglio 2011

In treno

Sono salite a Cesena.
Sono due giovani ragazze dall'età indecifrabile.
Avranno si e no quindici anni. No, forse venti. Ma potrebbero averne anche trenta, trentacinque senza difficoltà. Mature e giovani allo stesso tempo. L'una attaccata all'altra per sopportare meglio le insidie della vita, per non cadere all'improvviso. Insieme si sostengono complicemente. Forse sono più che amiche. La ragazza di fronte ha i capelli neri ricci, gli occhiali da intellettuale. Non sorridono. Sono troppo impegnate a scrutare il mondo circostante con attenzione. In modo sottile, discreto, non muovendo muscolo alcuno. Solo gli occhi sono vivi, vispi. In silenzio seguono i fatti, i gesti delle persone attorno, tutto con curiosità. I loro movimenti sono sincronizzati. Bevono, chiudono gli occhi per riposare insieme, bisbigliano pacatamente, si voltano da una parte all'unisono. Sempre per confondere le acque la stessa ragazza di prima ha una borsa in pelle nera abbastanza austera. Stride con la delicatezza del suo volto, con la gentilezza delle sue espressioni adolescenziali.
La giovane di fianco è la più fragile. Si vede dalla posizione del corpo proteso nella direzione dell'amica come per trovare accoglienza, protezione. I suoi lineamenti sono più definiti, quasi da ragazzo, come se i tratti fossero stati disegnati da un fumettista con la matita nera in bianco e nero. Il colore della sua pelle e dei vestiti in contrasto.
Mi piacerebbe parlare con loro, sono dell'umore giusto. Vorrei scherzare insieme, amoreggiare amichevolmente perché sento l'intesa.
Quanti anni avete?
Sedici, Diciassette...
E tu?
Sedici più diciassette più qualcos'altro.
Non va così.
Prima di scendere le saluto.
Mi rispondono in coro con un arrivederci sussurrato.
Quanto basta per scavare distanze.

domenica 17 luglio 2011

La zia mehaigné (magagnata)

Il serpente canceroso avanza verso l'alto come una kundalini. Non ha ancora compiuto tutto il suo cammino lasciando la zia sospesa. Già morta e non ancora. Lì sul punto di soglia. Viva e morta allo stesso tempo come il gatto di Schrödinger. Vestigia di qualcosa che fu eppure non del tutto scomparsa. Il sacrificio della zia non è ancora compiuto del tutto. Un resto minimo è rimasto inevaso. Lo sterminio non ha raggiunto la perfezione. Non gli è stata fatta ancora la festa.
Eppure questo resto è in grado di sopportare una memoria, di far emergere una memoria simbolica condivisa, di indurre azioni negli altri. A sua volta potrebbe essere la portavoce epigona di un antico messaggio di una catastrofe remota propagato grazie a una residuale radiazione di fondo capace di portare a rinnovare quell'evento in vista di una possibile risoluzione!
Quella catastrofe non si è ancora conclusa.
La conflagrazione non è terminata.
Se ne aspetta la morte da tempo immemore.
Forse la morte è proprio quel punto vuoto dove si decide della vita. Cioè si opera una frattura, un taglio irrimediabile, senza più possibilità di salvare qualcosa. Al di là di possibili residui periferici in grado di disseminarsi nomadicamente. Di inventarsi qualcosa pur di provare a essere.
No la morte non si è ancora compiuta. Almeno fin quando la vita conserverà il potere di amministrarsi risorgendo dalle proprie ceneri.

sabato 16 luglio 2011

Amministrazione quotidiana

Ci siamo!
I parenti, gli amici più stretti si preoccupano di attivarmi per gestire il dopo! Tanto lo sai come vanno queste cose. Non perdere tempo. Vatti a informare prima.
Secondo la zia Mariola la zia avrebbe già disposto ogni cosa. Tua zia ha già un forno! Quello di zia Armanda e del marito. Prima però bisogna rimpicciolirli, poi fatto spazio c'è posto pure per lei. Però d'estate non vengono aperte le bare, né ridotti i cadaveri. Fa troppo caldo! Perciò bisogna prima parcheggiarla fino a settembre da qualche parte. Potrei mettere a disposizione il mio fornetto. Perché spendere tre quattro mila euro quando lo spazio c'è già? Vuoi non ci abbia già pensato? Senti ne parlo con tua madre. Lei saprà certo cosa fare!
Insomma siamo all'ultimo atto, una sorta di couch surfing post mortem per poi rompere l'unione dei coniugi in vista di un menage a troi... Alleluja!... A proposito se vuoi la messa devi pagare pure quella!

venerdì 15 luglio 2011

Questioni di natura...

Tanto e non più!
Ripete la vicina della zia.
Sembra questa la quadratura del cerchio per il suo intestino! Se no son guai...
All'interno dell'amministrazione banale della vita ogni cellula è preordinata a compiere il proprio ruolo. Cambiare sodio con potassio, svolgere la reduplicazione dell'rna nei ribosomi e così via... Rispettando quel tanto e non più... Fermarsi non è concesso, ne andrebbe della loro stessa esistenza. Altro non possono fare. Anche quando non c'è più un sistema generale in grado di coordinare tanta febbrile microattività.
La zia si sta pian piano sfasciando.
Pezzo dopo pezzo. Come quelle vecchie carcasse arenate in qualche spiaggia.
Senza più comandante alla regia i muscoli del volto sono lenti, quasi inespressivi. Così la bocca sta naturalmente aperta. Sebbene non del tutto. Il cuore pompa ancora, i polmoni scambiano ossigeno con l'aria. Ma senza l'armonia di una volta.
Non posso far altro di documentare tale sfacelo.
Sto al suo fianco con la penna in mano distaccato.
La vita, in questo caso la morte, non riesce a emozionarmi. In barba a tutte quelle trasmissioni tipo la morte in diretta o i film strappalacrime sul capezzale. È un evento così normale da annoiare da morire.
Cellule del cazzo quando smetterete di produrre ATP... pompe dei sali quando bloccherete il flusso delle sostanze. Non mi va di stare con le mani in mano a aspettare come una di quelle pie donne accanto al “Cristo de scurto” del Mantegna. Fare il testimone è il personale modo di non partecipare passivo agli eventi, di non dare il mio fiat a tale sceneggiata.
Ho altro da fare!
Il mio anelito vitale, le mie cellule non sono organizzate per stare ferma davanti a della materia inerte. Sono una macchina predisposta a agire, a non girare a vuoto senza senso e meta. Assistere passivo all'esalazione dell'ultimo respiro non è un evento contemplato dai miei comportamenti standard.
Sono stato messo in questo mondo senza preavviso... va bene... mi hanno imposto un gioco spietato... e va bene pure questo... Ma almeno provo a cambiare le regole sospendendole per quanto mi è concesso dai miei sistemi di regolazione, dalle leggi cui sottosto.
Per un attimo la zia ha aperto gli occhi. Sembra volere comunicare qualcosa. Sollecitata prova a rispondere alle nostre domande con un si e no espresso dai movimenti del volto. Ma non c'è modo di dialogare.
Cellule industriose come tanti soldatini al fronte quando vi arrenderete? Firmate il vostro armistizio, accettate di deporre le armi diventando inoperose. Per voi è finita!

lunedì 11 luglio 2011

Povera sono nata, povera morirò...

Quale sensazione può suscitare l'aprire gli occhi e sapere di esserci ancora. Come svegliarsi la mattina presto dopo un sonno interminabile. Il tempo di ricucirsi i panni addosso, di rifocalizzare le coordinate spazio temporali. No l'incubo non è finito, cosa potrà riservare di positivo la giornata. Per un attimo si fa pure strada la sensazione di essere immortali, indistruttibili. In fondo si è vivi nonostante tutto. Non durerà a lungo. Basterà la sensazione di nausea poi un conato di vomito per capire come stanno le cose.

La luce è quella del crepuscolo.
Le serrande sono rade abbassate fino a terra.
Si vede poco ma non è buio.
Un chiarore diffuso avvolge i corpi, li staglia in chiaroscuro senza eccedere.
Ogni superficie viene avvolta calorosamente quasi si stesse davanti al focolare domestico.
La scena apparsa all'improvviso dopo aver varcato la soglia d'entrata della camera ricorda certe “sacre famiglie” immortalate da alcuni pittori lombardo veneti del cinque seicento. La stessa intima luce notturna di un Lotto o un Tintoretto. Però il luogo non è una stalla ma una semplice camera d'ospedale, anche se sarebbe potuto essere un bunker di Berlino in procinto di essere espugnato dall'armata rossa o una stanza addobbata del palazzo d'inverno circondato da rivoluzionari inferociti. Una tranquillità irreale prima del fatico crollo, sospesi nella terra di nessuno in attesa dell'apocalisse.
Attorno al letto della zia c'è uno stuolo di persone.
La zia distesa sul materasso dispensa battute ironiche come un papa.
Al suo fianco c'è la vicina.
Scesa dal letto, le è seduta accanto mano nella mano.
È una signora immensa come una montagna di panna sopra il profiterol.
Nonostante l'operazione subita risponde con una vocina angelica come quella di una bambina credulona sempre sorridente.
Altro non può fare.
Davanti le manca un dente.
Ciò la rende di un'umanità smisurata neanche fosse la superstite di un incidente aereo o di un naufragio nei mari tropicali.
Appoggiate l'una all'altra si fanno forza indolentemente.
A circondare la zia c'è poi uno stuolo di amici, chi seduti al letto, chi sulla sedia di fianco.
Come per un bebè appena nato sono venuti in adorazione.
Si respira un clima entusiastico, di eccitazione strana, eccessiva, solo per mascherare la tempesta in arrivo. Una sorta di quadretto del paese della cuccagna immortalato da un ispirato Bosch demoniaco.
La vita ha prevalso ancora. È riuscita a ritagliarsi un ulteriore scenario dove dare spettacolo, commemorarsi. Sebbene sappia di non poter resistere a lungo.
Con il piede fuori dalle lenzuola la zia cerca un contatto con i vicini come farebbe un gatto con le fusa.
Ei sono qui, accoglietemi, datemi il vostro affetto... Nonostante il fetore delle carni marcescenti a impregnare l'aria, il vomito continuo per il riflusso gastrico.
Siamo entrati in un nuovo girone de sadiano: quello del vomito, dopo quelli della mania, della merda, del sangue. Girone preannunciato poche settimane prima dalla gastroenterite virale di una amica a Bologna, attestante il rituale della restituzione di tutto, a partire dalla vita esalata a fiotti.
Vengo invitato a prendere parte al quadretto.
Rifiuto...
Preferisco rimanere alla giusta distanza per scattare un'istantanea con il cellulare della zia. Prima di rendere anche quell'immagine inconsistente come tutto.

sabato 9 luglio 2011

To be or not to be... this is the question...

Voglio morire!
Anzi no... non voglio morire!
Fosse disponibile un sicario sarebbe tutto più semplice per la zia. Ma se deve scegliere prevale la tentazione di provarle tutte, anche le soluzioni più atroci, compiendo un destino apparentemente irrevocabile quanto il dover bere il calice amaro della vita fino all'ultima goccia.
Il problema l'intestino divorato dal basso dal cancro.
La scommessa spostare sempre più in alto l'ano artificiale.
Al limite bocca e ano potrebbero coincidere. Mangiare digerendo tutto subito in un sol boccone. Come trasformare acqua in aceto.
Si potrebbe pensare di passare, di dire basta e non scommettere più. Fine, end, compimento, sospensione.
Ma le cose non stanno così.
Il dispositivo biologico dell'autoconservazione ti porta a elevare sul piedistallo più alto il valore della vita in sé. Sebbene privata oramai di qualsiasi qualifica positiva. Anche al costo di diventare ano e basta. Un ano parlante, un toro circolare sempre più sottile. L'estrema scommessa della natura: lavorare a togliere, per sottrazione. Cosa rimane alla fine? Michelangelo vi aveva intravisto degli schiavi stritolati dalla materia avvolgente. Eppure senza quella materia quegli stessi schiavi non sarebbero potuti essere. Liberarli significava renderli solo dei fantasmi eterei, pura apparenza magari gloriosa.
La zia non parla più.
Seduta sulla sedia con gli occhi persi vorrebbe un amore infinito capace di sospendere il suo dilemma abissale quanto un buco nero tutto divorante.
Chi possiede questo amore disumano?
Troppo grosso il carico da sopportare, troppo pesante la croce da sostenere fino al calvario, meglio affogare i pensieri, dimenticare tutto, annullarsi a puro corpo, vita nuda in sé per sé. Per questo perfetta, compiuta nel suo nichilismo antropologico.
Cosa ne rimarrà della zia?
L'intervento come funtore biologico capace di sospendere e di aprire verso un nuovo stadio esistenziale, sebbene a perdere. Quale altra forma residuale di vita oscena si genererà? Quale mostro verrà partorito non senza dolore... Probabilmente un altro freak dalle belle speranze. Potrà essere ancora felice, appagato della nuova esistenza? Sarà ancora umano?
Ai presenti rimane la contemplazione sublime del nuovo miracolo della vita. A fronte di tanto spettacolo ci sarà ancora qualcuno a applaudire l'ennesimo tentativo di creazione demiurgica?
Ei aspettate ancora un poco... non lasciate la sala...
Non è finita...
C'è pronto un altro mirabolante spettacolo.
Che non c'è limite alla fantasia!

martedì 28 giugno 2011

Coccole

Quella sera non c'era luna piena, era un giorno qualunque, una domenica come tante altre passate in ciclofficina a riparare bici incidentate.
Si era trovato con Silvia per sistemare una ruota malconcia. Insieme ce l'avevano fatta non senza intoppi. Però alla fine la bici funzionava bene e il fare insieme aveva rinsaldato anche il loro umore.
Decisero di mangiare da lui, non lontano dalla ciclo. Era sera tarda, le pizzerie erano già chiusa.
Fecero l'alba a parlare seduti sul terrazzo l'uno di fronte a l'altro mentre i vicini riposavano silenziosamente.
Dormirono insieme.
Erano due reduci, ognuno con le proprie storie diverse. Ma non era importante. Non c'era da sapere molto. Bastava la loro fragile umanità, la sensibilità non comune.
Da più di otto anni non passava la notte abbracciato con una ragazza. Però era tranquillo. Sapeva cosa voleva. Glielo disse con semplicità.
Lei acconsentì. Era quasi ovvio, scontato.
Senza dire nulla poteva succedere di tutto. Bastava stare vicini con i corpi a contatto, abbandonati alle proprie sensazioni.
Nel buio della notte fece capolino anche la parola “coccole”. Un lemma strano, capace di contenere tutto e niente.
Lui stava bene, non cercava né voleva fare altro.
Si sentiva libero, sciolto da tutto, da ogni impegno e responsabilità. Non sarebbe accaduto nulla più.
La mattina si sveglio presto.
Si strinsero insieme con forza, le baciò la spalla delicatamente, poi si alzò.
Alleggerito da ogni desiderio voleva solo continuare per la sua strada come ogni giorno. Nell'attesa del risveglio della compagna prese il solito libro, cominciò a studiare con piacere sollevato da tutto. Poi mangiarono insieme prima di confondersi nella mischia quotidiana, rinfrescati intimamente dalla presenza dell'altro.

lunedì 20 giugno 2011

Lazzaretto

Venerdì la mamma è stata trasferita in ambulanza al Santo Stefano.
L'ospedale è in riva al mare.
Soltanto pochi metri e ci si potrebbe bagnare, non fosse per la ferrovia invalicabile come un muro di cinta.
Il paradiso a una spanna eppure lontanissimo.
Però lo si può mirare dalle vetrate del secondo piano.
Uno spettacolo bellissimo e lacerante per chi sta chiuso lì dentro in attesa di chissà quale miracolo.
Appena entrati dalla porta d'ingresso principale si viene investiti da uno stuolo di freak in carrozzella liberi di girare tra le piazzette e le vie di raccordo tra uno stabile e l'altro. Persone deformi, diversamente abili e coscienti sorridono beote in continuazione. Nonostante la testa storta, il volto deturpato, la mancanza di un arto. C'è chi si sposta in carrozzella mosso da un solo piede come fosse sullo skate. Però va lento.
Con movimenti catatonici si avvicinano a te.
Vogliono qualcosa, un contatto. O sono semplicemente curiosi.
Per attirare l'attenzione sorridono intercalando note monotone.
Hi hi...
He he...
Non stanno male.
Eppure sembrano non poter uscire dai confini dell'ospedale.
Sull'asfalto c'è pure disegnata la corsia preferenziale per le carrozzine, vicino l'uscita un sottopassaggio utile per raggiungere un giardino chiuso da una rete metallica al di là della statale. Però è vuoto. Nessuno di loro sembra interessato a confrontarsi con la realtà là fuori. Meglio evitare di dare spettacolo di fronte a un pubblico indifferente non in grado di apprezzare.

venerdì 3 giugno 2011

Festa della res publica

La stazione di Bologna è stracolma di gente ansiosa di bagnarsi nell'acqua opaca della riviera. Sono gli stessi pendolari di tutti i giorni. Hanno cambiato un po' il look oggi più turistico. Comunque sommesso e triste nonostante i colori primari esibiti, il rosso, il giallo, il blu. Non è facile coprire il solito grigiore quotidiano. È una questione endemica non risolvibile lavorando solo sulla superficie. Basta grattare un po' per fare emergere quel colore indelebile.
In ogni caso oggi è giorno di festa. La massa ordinata prova a sorridere, a essere più disponibile. C'è spazio solo per il divertimento, per la vacanza. Poi domani si cambierà regime. Si riprenderanno i più usuali panni.
Il treno arriva sul binario.
La gente comincia a salire uno alla volta come una mandria di buoi prima di essere marcata.
È una questione di numeri.
Fin quando una somma illimitata di persone può riempire uno spazio finito?
Con il passare del tempo si arriva alla soglia limite, ogni spazio viene riempito. Eppure non tutti riuscono a prendere posto. Occorre un ulteriore sforzo.
Espirare tutti insieme!
Ora!
Interstizi minimi si aprono.
È il momento di salire, di infiltrarsi tra un viaggiatore con gli occhiali da sole, una valigia cubica immensa.
Fiuh...
Alla fine salgono tutti.
In silenzio, senza protestare.
In attesa della destinazione finale.
Solo qualche pensionato memore di tante battaglie collettive non riesce a trattenere la rabbia.
Tanti sforzi per arrivare a questo punto morto.
Una sconfitta destrutturante, non ricomponibile.
Per avere più spazio e magari trovare un angolo dove sedermi vado in prima classe. Non prima di essermi aperto il cammino con il machete attraverso una selva impenetrabile di corpi, borse.
I buoi ammassati nei corridoi non osano oltrepassare tale soglia limite.
E se poi mi fanno la multa?
Nonostante l'assurdità della situazione a prevale è ancora il senso di colpa. Alla fine sembra più importante assecondare fino in fondo regole inutili per applicarle alla lettera contro ogni evidenza. Il popolo esecutore ha appreso bene la lezione. Solo così si può entrare a far parte del meccanismo amministrativo burocratico della res publica. Basta agire conformemente, senza fare mai domande. Soprattutto non ribellarsi mai.
Trovo “posto” per terra. Tra le due file di poltrone del vagone di prima classe.
Incurante di tutto mi seggo.
Grave errore...
Bisognava essere più previdenti. Dare prima uno sguardo attorno, asccoltare le sensazioni sottili.
Appena poggiato con le spalle sulla poltrona di plastica morbida vengo investito da un fiume lagnoso di parole.
Due vecchiette di Sassuolo votate al culto mariano della grande madre parlano a ruota libera. Davanti mi scorre tutta la loro vita.
In ordine di apparizione si materializza la storia dettagliata della vita dei nipotini, poi la madonna, il culto del rosario. Scopro così l'esistenza di un bambino operato ai testicoli. Nessuno lo deve sapere. Soprattutto i compagni di classe. Per loro è frattura di un arto! Poi vengono citate in ordine alfabetico uno stuolo di suore clarisse, tutti i luoghi di culto tra Fatima e Majugorje.
Ma la cosa più sorprendente è il look pitonato chiaro di una delle due vecchiette. Stride con l'immagine usuale della fedele praticante. Che sia l'ultima frontiera per avvicinare la fede alla vita di tutti i giorni?
Con il passare del tempo la gente comincia a scendere.
Qua e là si liberano qualche posto.
Una signora al mio fianco con una valigia nera scivola silenziosa verso la poltrona. Ne prende possesso. Poi avvicina piano piano la borsa senza fare rumore. Una volta seduta rimane lì tutto il tempo senza battere ciglia con la mano protesa sopra provando a scomparire tra il blu plastificato della tappezzeria.
In tutto questo miscuglio grigio tristezza a non tacere, oltre le due inarrestabili vecchiette, è l'altoparlante del vagone.
Attenzione!
Ci scusiamo con i viaggiatori per il ritardo di quindici minuti.
Amen!

martedì 31 maggio 2011

mamma mia!

Mamma mia!
Mamma mia!
Oh mamma mia!
In camera di zia ora sono in quattro.
Quella di fianco ha appena subito un clistere e si lamenta in continuazione.
Le dico qualcosa per farla calmare.
Mi risponde puntuale:
Se fossi al mio posto diresti lo stesso.
Si... te vojo proprio vede...
Pure se ciò novantanni non so scema.
Uaoh...
Colpito e affondato.
La signora davanti è stizzita perché è stata cazziata dalla novantenne.
Dice di vedere cani.
Guarda là non li vedi?
No... Non li vedo.
La signora di fianco, quella senza una gamba, vorrebbe andarsene da lì per non sentire più i continui lamenti. Ma non può.
Non vedi non ciò la gamba.
Vai in sedia a rotelle...
Eh no.... vengo alzata dal letto una sola volta al giorno, la mattina quando c'è il fisioterapista.
Beh comprati dei tappi per le orecchie.
Cavolo non ci avevo pensato.
Rivolta alla badante...
Me li porti domani?
Anche il sottoscritto è arrivato al limite.
Ho appena comunicato tutta la rabbia alla zia senza filtri. L'unica in grado di ascoltare, non certo di capire.
Mi risponde.
Lo sai oggi è morta una signora di cento anni.
Ah sì?
Vado a prendere da bere... così si festeggia!

lunedì 16 maggio 2011

Masse critiche

Era il secondo sabato del mese.
Il giorno della critical mass.
Come solito alle quattro mai puntuali si cominciavano a radunare il popolo variopinto in bici.
Quel giorno era speciale più di tanti altri.
Alessandro e la sua sposa avevano deciso di festeggiare la loro unione partecipando al corteo a due ruote. In risciò trainato da un valente pedalatore, seguiti dagli invitati, compresi i parenti più stretti.
Come d'abitudine scoccate le quattro e mezzo abbondanti la massa radunata nella piazza tenuta a freno con impazienza si mobilitava. In un baleno tutti girarono le loro bici poggiate al suolo a testa in giù. E via uno dietro l'altro in fila per trovare una via di fuga dalla piazza verso chissà quale direzione. Anche oggi a caso, secondo il capriccio del condottiero di turno. Tutti gli altri a seguire fiduciosi suonavano i campanelli, urlavano slogan, ridevano di gioia.
Compatti sulla strada si era creato un muro mobile, meglio un'onda capace di dilagare sulla strada occupandola tutta.
Una volta tanto le macchine dovevano accodarsi e seguire a ritmo di pedalata. Certo non senza imprecazioni, suonando nervosamente il clacson. Non tutti la prendevano male. C'era pure chi diviso tra auto e bici solidarizzava simpaticamente e incitava a continuare la protesta pacifica.
La processione durò per tutto il pomeriggio in una città caotica e variegata. Quel giorno c'era pure la millemiglia. Tanta gente stava assiepata lungo la strada per vedere i bolidi a quattroruote reduci di tanti successi oramai lontani. Alla fine a prevalere era la confusione. Tutto si mescolava al punto di non riuscire a capire più niente. Le urla della massa critica, il clacson delle auto, il rombo dei motori a dodici cilindri, il tifo degli spettatori lungo la strada. Un'immensa folla aveva invaso ogni angolo del centro. Tutto era diventato indistinto, caotico. Roba da far girare la testa.
Allo stesso tempo un sentimento di ebbrezza misto a smarrimento aveva contagiato i partecipanti. Come si fosse stati tante pedine di un gioco più grande sparpagliate a caso lungo le vie della città. Un movimento di troppo e tutto sarebbe crollato per contagio.
Non successe nulla di strano.
Anche quel pomeriggio il giro fini in piazza s. Francesco.
Ancora presto, la piazza semivuota venne invasa dalle biciclette.
Il carretto degli sposi al centro e tutti gli altri intorno a girare a vuoto. Come in un accerchiamento di indiani urlanti di gioia e frenesia.
Dopo uno, due, più giri con il mal di testa si lasciarono cadere a terra le bici. A caso, dove capitava, per costituire capannelli separati di amici. Per bere, chiacchierare, confrontarsi, mangiare. Con lo scendere della sera i gruppi seduti aumentarono. Alla fine la piazza si riempì. Non c'erano più spiazzi vuoti. Si era diventata una massa eterogenea unica. Non so quanto critica. Comunque anche grazie alle luci giallastre della piazza, alla facciata scura della chiesa gotico-circestense, al vociare continuo come un mantra, sembrava di partecipare a un grande rito pagano. Tanta l'eccitazione,la frenesia nel perdersi in quella folla mormorante.
Verso mezzanotte arrivò pure la banda, un gruppo di olandesi venuti così, senza preavviso. Facendosi spazio tra la gente conquistò il centro della piazza per intonare canti di guerra. Delle musiche balcaniche capaci di accendere gli animi ebbri prima di buttarsi a capofitto nel buio profondo della notte. A caccia di chissà quale avventura inattesa.

lunedì 9 maggio 2011

Nun se butta niente!

Non so per quale strana congiuntura astrale, però in un sol colpo la zia e la mamma si erano trovate a condividere lo stesso letto in ospedale.
Marco Zen in tutta fretta aveva dovuto raccogliere le poche cose necessarie alla sopravvivenza, i vestiti, i libri, la bici, per partire verso sud.
Una rimpatriata come non succedeva da anni.
Nonostante tutto si era accasato bene.
Aveva trovato anche là sacche di resistenza al grigiore quotidiano. Giovani artisti, musicisti, poeti, grafici o semplici fancazzisti posizionati volontariamente ai margini.
Insieme si provava a mettere in comune le forze, a mescolare le differenti esperienze. Così da trovare tutti giovamento.
Quel giorno la ciclofficina di Ancona dava una festa di autofinanziamento. Da poco aveva aperto i battenti. Quella era la prima uscita pubblica. Un appuntamento irrinunciabile.
In tutta fretta si era allestito un gruppetto sparuto di ciclisti per scendere dalle colline al mare. Tante le barriere da superare, innanzitutto dentro se stessi per provare a muoversi in modo nuovo e antico allo stesso tempo.
Alla fine si era in quattro.
Due con la bici da corsa, il resto in citybike, in mountain bike.
Tre ragazzi e una ragazza.
Già questo sarebbe sufficiente per soffermarsi a parlare di questa esperienza.
In più c'era la novità della ciclofficina.
Allestita con il niente, senza strumenti.
Armata solo di entusiasmo, di voglia di fare.
Un avamposto isolato in pieno deserto urbano dove risultano ancora sconosciute parole come critical mass o la bici fissa.
Eppure il meglio doveva ancora capitare.
La lezione del giorno sarebbe venuta dalla strada da chi meno te lo aspetti. Quando pensi sia già tutto finito.
Si era in attesa del treno per tornare a casina.
Per ammazzare quei pochi minuti si era pensato di comprare delle birre al ristorante cinese.
Usciti dal negozio ripongo il resto dentro il portamonete.
Nella foga cade in terra una monetina da un cent.
Come nulla fosse la lascio lì.
Cavolo!
È solo un cent.
Un niente!
Fosse stato un altro momento la avrei raccolta.
Ma in quel frangente non ne volevo sapere.
D'improvviso emerge dallo sfondo amorfo un barbone.
Ha la schiena torta, il volto sporco e la barba.
Si fa strada attraverso un muro di persone poco rassicuranti.
Viene deciso dalla nostra parte.
Penso voglia prendere la monetina per sé.
In effetti si china proprio davanti a me, la raccoglie.
Poi il colpo di scena.
Me la porge.
Guardandomi dal basso, con il volto inclinato di tre quarti sentenzia:
Nun se butta via mai niente!
Ricevo la monetina tra le mani.
L'ennesima lezione di vita dal basso.
Lo ringrazio sorpreso.
Anche oggi si fa i conti con la solita presunzione.
È ora di contaminarsi con la vita.
Alleluja.

venerdì 15 aprile 2011

Suicidio dopo un funerale spettacolare

Il donare pubblicamente i veli poetici agli amici mi ha colpito assai. Paragonabile al sacrificio di un Dioniso Zagreus, sbranato, smembrato pezzo dopo pezzo.
Eppure il volerlo replicare ha messo tutto in discussione.
Come se quel suicidio spettacolare non riuscisse a compiersi se non nell'ordine osceno della fiction.
Perché ripeterlo?
È stato così gustoso...
Al punto da farsi sfuggire la mano?
Alla fine sembra di essere entrati all'interno di un incubo autoreferenziale.
Senza via d'uscita se non di ripartire ogni volta da capo dal medesimo punto d'inizio.
Pensi di esserti spogliato di tutto.
Invece sotto la maschera scopri gli stessi veli all'infinito.
No, non ci si può suicidare mediaticamente davanti a un pubblico, a una telecamera.
Impossibile.
Si rimane incastrati all'interno di un tempo reversibile, ripetibile a oltranza.
Secondo copione.
Come un Lazzaro redivivo costretto all'immortalità.
Eppure ogni volta si perde qualcosa.
Si diventa sempre più eterei, astratti.
Fin quasi, e sottolineo il quasi, a scomparire per eccesso di visione.
È questo l'osceno.
La sua inutilità.
A ben vedere un suicidio anch'esso.
Però più defilato.
Quanto pensare di trovare qualcosa di nuovo cambiando film porno o al limite rivederlo con più attenzione.
Dopo un po' tutto si azzera, si annulla fino a diventare indifferente, noioso.
Cosa pensi di trovare ancora dopo quell'apice già raggiunto?
In cosa rilancerai?
Perché dovrai sorprendere ancora.
Ripetere coattivamente non basta.
Come praticare sesso sempre nella stessa posizione.
Oppure farsi sempre della stessa dose.
Alla fine si rischia di rimanere invischiati nel puro lavoro, nella routine. Se non nella farsa del mestierante.
Quando invece, una volta apparsi sulla scena, il vero capolavoro sarebbe piuttosto di saper ben scomparire.
Innanzitutto a se stessi e poi agli altri.
È questo l'unico suicidio degno di nota.
Mi sbaglio?
A te la mossa.

Lili irrefrenabile

Già il “Mharchellaaa” felliniano conclusivo ci aveva conquistato.
Poi c'è stata l'esibizione con BeMyDeelay, alias Marcella.
È ancora eccitante ripensare al gesto reciproco di spoliazione della maschera durante l'esibizione live.
Erotismo allo stato puro.
Trasudante genuinità.
La stessa di bambini immorali.
Capaci di tutto.
Senza vergogna.
Oltre qualsiasi perversione quand'anche polimorfa.
In quanto non c'è più nulla da trasgredire.
Ogni legge ha compiuto il suo destino scomparendo dall'orizzonte del senso.
Rimane solo una sensualità basilare.
Il piacere puro.
Lo scambio di sguardi è memorabile.
Non so se l'avevate programmato.
In tal caso cambierebbe tutto e questa analisi sarebbe da rivedere.
Fino a prova contraria quei gesti hanno incarnato l'inatteso, l'imprevisto all'interno di un rito iniziatico. Al punto di sorprendere le stesse protagoniste.
Mettere una maschera per diventare altro.
Per lasciarsi trasformare.
Una volta posseduti...
Via il mezzo, l'artificio della metamorfosi.
Sia esso maschera o velo.
Come quello usato dall'illusionista.
Compiuta la trasformazione non serve più.
Certo ci vuole anche la parola magica.
In questo caso la musica, il mantra ossessivo, demoniaco.
Per sedurre gli spiriti.
Così da divenire gli attori nella scena dell'Altro.
Secondo il Suo copione.
Fosse anche solo per assecondare il desiderio profondo o la natura misteriosa, arcana.
Vita nuda irripetibile, irrefrenabile.
Impossibile da fermare in un immagine, riprodurre in un filmato.
Nonostante la ripetizione continua.
Al massimo si ottiene solo l'edulcorazione dell'evento.
Fino all'annientamento totale dei suoi significati altri.
Infatti l'imprevisto diventa previsto, atteso.
Niente più souspance, spiazzamento.
L'eccesso di visione conduce solo a una masturbazione oscena.
Anche questa lettera risulterebbe oscena se pensasse di riportare a essere quella situazione.
Forse lo sarebbe comunque.
In ogni caso si prova solo a testimoniare di un'assenza.
Come quando si gioca col morto.
Evitando di usare le parole per coprire, nascondere lo spazio lasciato libero dall'evento sparito per sempre.
Infatti tale evento è sullo stesso piano dell'istante, dell'eros e della morte. Non se ne può parlare senza stravolgerli, misconoscerli, traviarli.
Comunque alla fine è tutto una mistificazione.
A partire dai nomi.
Lili Refrain.
Traducibile con qualche licenza con Lili fermati o anche riprenditi...
Volendo anche nel senso di riprendere, filmare e allo stesso tempo fermare la realtà. Sapendo di perderla conservandola.
Stesso discorso per BeMyDeelay.
Essere il proprio eco, ritardo.
Potrebbe portare a pensare a una riproduzione dell'identico a oltranza. Come un loop minimalista osceno.
Sarete invece capaci di raccogliere la sfida dell'identico del non identico e compiere ancora il miracolo della trasformazione dell'acqua in vino, meglio poi se in spritz o tequila? Visti i tempi...
Un bel paradosso.
Risolvibile solo continuando a mettervi in contatto con i vostri demoni.

La ciclofficina rituale. Costruire per dissolvere

Gli schieramenti opposti sono in allerta.
Si avvicina l'ora X.
L'apertura.
Quando la serranda di ferro lentamente si solleverà.
Allora ci si potrà contaminare senza riserva.
Rullano i tamburi.
Gli animi si caricano.
Sale l'adrenalina, la tensione.
Non tutti sopravviveranno.
Il sole sta calando all'orizzonte.
La luce è ottimale.
Non fa caldo.
Muniti di bici, o quanto di più prossimo a tale termine, i ciclisti appiedati si apprestano all'assalto.
Ancora pochi secondi...
Il bottone viene pigiato.
Un rumore sinistro di cigolii stridenti invade la scena.
La barriera si solleva lentamente.
Filtrano fasci di luce.
Pochi centimetri alla volta la serranda sale.
Un'attesa interminabile.
Per i più bassi o quelli con il mezzo più piccolo si intravede una soglia...
Senza aspettare si lanciano sul varco apertosi.
Riuscirà la ciclofficina con i suoi affiliati a sopportare l'urto?
Sarà in grado di contenere l'orda barbarica, di sopravvivere a se stessa?
Quale limite sarà oggi superato?
La linea di confine pian piano scompare assorbita dal soffitto.
Una marea simile a uno tzunami invade tutto lo spazio disponibile ricolmandolo di vita brulicante.
Ogni oggetto viene rianimato, spostato, lanciato, abbandonato dalla fiumana inarrestabile.
È il momento del corpo a corpo.
Nulla rimane escluso.
Tutto viene modificato irreversibilmente.
Per gli autoctoni il miracolo è di resistere.
Ei dove sono i coni?
E le camere d'aria?
Ho i freni andati!
Devo cambiare la gomma...
Come si fa?
L'asse centrale non va più...
Butto tutto?
Sempre le stesse domande.
Ripetute all'infinito come un eco continuo.
Sempre le stesse risposte.
Come un mantra.
Nonostante il tentativo di colorarle ogni volta con sfumature differenti.
Inutile definire i contorni, affibbiare nomi, le referenze giuste sui cassetti, gli oggetti, per indirizzare l'agire nel modo migliore.
Dura poco.
Alla fine ogni segno si contamina.
Perde di senso.
Per tornare indistinzione pura.
Caos da cui strappare ogni volta nuove storie, nuove significazioni funzionali.
Non accettare il gioco lasciandosi andare nella corrente è come votarsi al suicidio.
Vano tentare di resistere a tale dispersione di significati provando a fare di un oggetto un feticcio ossessivo.
Eppure anche in tale orgia alla fine qualcosa emerge, entra in vibrazione armonica.
Non prima di aver sacrificato tutto.
Anche oggi l'agnello sacro verrà immolato sull'altare.
Quel resto non scambiale in termini economici.
Quella parte residuale oscena da cui emergeranno ancora nuove forme di bici, modi di pedalare.
Di più...
Contro l'imposizione di senso, di valore, contro l'idea di uno scambio impari, a perdere, la ciclofficina si ribella.
Non vuole essere solo uno strumento passivo.
Rifiuta la banale logica della produzione mercificata.
Allora si fa oggetto intrascendibile, puro.
Attraverso il caos.
Sia per eccesso che per difetto.
Offrendo troppo o troppo poco.
Alla fine scompagina le scontate economie domestiche di chi pensava di risparmiare e di portare via qualcosa.
A lungo andare è lei a condurre il gioco.
A crocifiggere ogni finalità precostituita.
Ecco la magia della ciclofficina.
Far sparire tutto ciò in un baleno silenzioso.
In un sol colpo...
Voilà...
E non c'è più nulla.
Una volta liberati di tutto si entra nel gran gioco.
Nel non senso.
Nel fare fine a se stesso.
In relazione pura gli uni con gli altri.
Senza più interessi.
Tutti omologati allo stesso livello.
Anche questa volta il rito della ciclofficina ha compiuto il suo giro, il miracolo.
È il momento giusto della condivisione.
Sbuca fuori del pane.
Quello fatto con la pasta madre, farina di grano, di ceci, di farro...
Tagliato a quadretti come tante piccole ostie viene distribuito ai presenti.
Molti hanno le mani sporche o impegnate.
Allora vengono amorevolmente imboccati.
Pian piano si ricostituisce il collant comune.
Si diventa un unico corpo.
Un attimo di distrazione fatale...
Prima di affondare ancora.
Questa volta navigando a vista, secondo il vento.
Spogliati di tutto.
Senza più orpelli frenanti, compiti, orari, appelli, esami, responsabilità.
Il piacere si fa immenso.
Alla fine c'è pure chi arriva al risultato...
Ma che importa.
Anche oggi si chiude...
Rimangono gli occasionali sacerdoti di tale ritualità spontanea.
Anche loro andranno a casa.
Non prima di aver curato le ferite.
Ricomposto le membra disarticolate della ciclofficina.
È il momento della rigenerazione.
Ma non serve a nulla se non si è imparato preventivamente a morire, a dissolversi completamente.