lunedì 10 gennaio 2011

Una rotonda sul mare...

Ro-to-nda!!!
Ro-to-nda!!!
È lo slogan più ammaliante urlato in critical mass.
Di certo il più seguito.
Catturati da tale richiamo, un manipolo di ciclisti variopinti con un sorriso infantile scolpito si lancia a tutta birra intorno a una rotonda.
Non vorrebbero smetterla più.
Unooo...
Duuuuue...
Tre passaggi inebrianti.
Fino al capogiro.
Una volta ubriachi d'estasi...
Via verso altre mete impreviste.
A ruota...
Dietro l'occasionale condottiero come uno sciame d'api a ritmo di trance.
Morire di rotonda per una ciclofficina è un drammatico paradosso.
Una beffa bella e buona.
Settembre la data fissata.
Il tempo della vendemmia e della spremitura.
L'ultimatum è già in atto.
Rimane da contare i giorni sul calendario.
La città del futuro ha deciso.
Ha fretta di conformare il territorio a sua immagine.
Vuole veicolare la circolazione a suo piacimento secondo ritmi ordinati.
Alla bici si è preferita ancora la macchina.
Un nuovo asse di scorrimento veloce per una società sempre più frenetica.
Una grande rotonda in piena bolognina.
Il cuore pulsante di Bologna.
Alla confusione di un tessuto urbano brulicante di vita, di piccole realtà locali multietniche, frammentarie, lente, si appone tramite un enorme sigillo circolare la certificazione dell'ordine, della forma perfetta del potere.
Il cerchio.
La figura più emblematica e affascinante di tutte.
La linea piegata su se stessa.
Dove ogni punto è equidistante dal centro.
Così ogni inizio coincide con la fine.
Per un'armonia prestabilita fuori dal tempo, dalla storia.
La rotonda come “non luogo” per eccellenza.
Crea distanze incolmabili.
Ci si può solo rincorrere intorno.
Senza prendersi mai.
Come in tanti scatch comici.
Un girare continuo a perdersi.
Per trovarsi alla fine al punto di partenza.
Niente più incontri occasionali.
Scontri fortuiti dove ci si possa guardare negli occhi.
Salutarsi.
Il nuovo corpo sociale si è dotato di un ulteriore by-pass per aumentare l'efficienza della circolazione intasata.
Vuole scongiurare l'infarto preannunciato.
Non sa vedersi in altro modo.
Né trovare soluzioni alternative.
Intanto, con la stessa efficacia di una lama circolare sulla sfoglia appena stesa per i tortellini, sferra un fendente sul territorio capace di squarciare in due l'Xm, mutilandolo della palestra e delle cucine.
Cioè delle sue funzioni viscerali vitali.
Una ferita mortale difficilmente suturabile.
Come tagliare un corpo a metà.
Dopo sarà solo un'agonia veloce.
L'apocalisse alle porte.
Ben prima di quella astronomica dei Maja.
Non senza fragore una nuova armonia sta per essere affermata.
Per le realtà autoctone emerse nel frattempo rimarrà la via dell'esodo o dell'estinzione nell'indifferenza.
Poi solo il silenzio.
Perduti nei lager della memoria, dimenticati dai più, verranno rimpiazzati da nuove presenze all'apparenza pacificate, di bell'aspetto.
Resterà solo il nome vuoto.
Dopo l'Xmercato.
L'XXmercato.
Secondo la dura legge del divenire.
Del superamento infinito in altro.
E amen e così sia.
E mó che si fa?
Si continua a ballare come sul Titanic?


Tre... due... uno... zero...
E se invece di resistere si accelerassero i tempi?
Se apocalisse deve essere...
Allora prima possibile.
Anzi subito.
Per non cedere alle imposizioni di questo sistema esponendosi alla contrattazione, allo scambio.
Via, andare via!
Abbandonare tutto così com'è.
Disperdendosi.
Suicidandosi in un improbabile esodo.
Scomparendo silenziosamente.
Come fosse scoppiata di botto una bomba termonucleare.
Quegli ambienti degradati, eppure ancora carichi di senso, di orari fissati, di codici, di scadenze temporali, di routine, verrebbero riconsegnati di nuovo al caos, alla disorganizzazione assoluta. In opposizione totale a tutto quanto lì intorno reclama invece a gran voce cultura, progettualità, ordine, funzionalità, partecipazione.
Di punto in bianco quegli edifici vuoti, aperti a chiunque indiscriminatamente tornerebbero a far parlare.
Innanzitutto i frequentatori del mercatino biologico posti di fronte all'assenza delle bancarelle di frutta e verdure. Poi i ciclisti con i loro rottami in cerca di uno spazio d'accoglienza. Sino al popolo della notte trovatosi di colpo al buio, costretto a dribblare alla cieca i corpi stanchi di barboni nascosti sotto i cartoni.
Alla fine quell'assenza satura di significati, non traducibile simbolicamente, inscambiabile, risulterebbe insopportabile per tutti.
Come un cancro a ciel sereno.
Spiazzante e imprevisto.
Cosa fare ora?
Come impiegare tutto quello spazio vuoto?
In che modo ricambiare quel dono inatteso, quell'obbligazione inaggirabile capace di tenere sotto scacco il sistema, costretto a trasformare il niente in qualcosa, il non senso in un valore ulteriore.
All'inizio da convento a caserma fascista.
Poi da luogo di smistamento per i campi di prigionia a mercato ortofrutticolo.
Infine centro sociale.
E poi...
Dopo l'ennesimo sterminio di senso...
Cos'altro ancora?
Come convertire quel cumulo di rovine stratificate, ancora vive e urlanti?

mercoledì 5 gennaio 2011

A che gioco si gioca oggi...

Frapporre fra sé e i propri desideri una parte, un compito, una prestazione, un fare.
Per attivare dinamiche sotterranee sottaciute.
Per mettere in atto il copione di sempre.
Cercare lo sguardo dell'altro, venire riconosciuti.
Dietro si cela il voler essere amati in modo assoluto.
Senza condizioni.
A prescindere.
Invece tocca atteggiarsi, assumere un ruolo, una pratica.
Mettersi a disposizione.
Facendo finta che...
Come bambini immersi in spazi transizionali intenti a giocare al dottore, alla guerra, con le costruzioni.
Solo a queste condizioni accade qualcosa.
Si genera una storia.
Si immagina un mondo circoscritto condiviso.
Lavorando su tali piani paralleli si prova a smuovere le acque, a cambiare indirettamente il presente, la realtà.
Questioni di tecnica...
Tutto per colmare quel bisogno ancestrale d'affetto.
Eppure anche questo desiderio profondo potrebbe rivelarsi una fra le tante maschere possibili.
Quella indossata pensandola più autentica delle altre.
Magari, dopo averla realizzata, rimarrà solo la noia.
Poi il trascendimento verso qualcos'altro.
Agiti da quella potenza originaria capace di travolgere spasmodicamente ogni valore senza remore.
E cosi via...
Un altro giochetto ancora.
Quale questa volta?
Osservo stupito gli amici della ciclofficina sistemare pedantemente gli strumenti.
Al freddo.
Da soli.
Anche durante le vacanze natalizie.
Quando i normali utenti sono a casa a mangiare dolci, a giocare a carte.
Loro invece pensano già alla riapertura.
Sistemano gli attrezzi.
Fanno l'inventario.
Verificano quelli persi, rubati.
Per sostituirli con altri nuovi.
Si compila la lista della spesa.
- 3 tubetti di mastice
- 1 scatola formato famiglia di toppe per camere d'aria
- 50 metri di guaina per freni
- 20 cavi freno posteriore testa cilindrica
- 10 cavi freno posteriore testa sferica
- 1 smagliacatena
- 1 estrattore per pedivelle a perno quadro
Una voce dopo l'altra.
Rigorosamente in fila.
Per accogliere al meglio in quella piccola oasi propizia la massa di gente con la bici incidentata.
In attesa di un nuovo possibile miracolo.
Per me invece, in questo momento, si tratta di redarre il catalogo del nulla puro.
Parole vuote senza rimando.
Segni privi di mondo.
Indifferenza totale.
Per loro non è così.
Lo si vede dallo sguardo, dal sorriso.
Sembrano manipolare qualcosa di prezioso, di imprescindibile.
Come l'acqua nel deserto.
Quasi si trovassero di fronte allo shangri-là.
Con gli occhi lucidi accarezzano ogni singolo arnese.
Ci girano attorno.
Quando non lo trovano stanno male.
Toccano con mano il posto vuoto.
Senza scomporsi.
Se ci sono ancora, prendono i pezzi rimasti.
Con cura provano a compiere il miracolo della restaurazione.
Ci passano ore e ore.
Tentando di razionalizzare, ordinare il resto di nulla.
Tessendo scopi, finalità.
Non riescono a staccarsi da quel compito.
Stanno per andare via...
Tornano indietro.
Riprendono dove avevano lasciato.
Come si fosse dentro una rappresentazione teatrale di Beckett.
Davanti a attori incantati, mossi da scopi, desideri lontani.
Nell'attesa degli eventi distribuiscono amore a tutti quegli oggetti.
Per predisporli.
Li guardo incredulo.
Oggi non riesco proprio a immedesimarmi.
A mettermi nei loro panni, nei loro riti.
Qualcosa mi sfugge.
Le loro pupille brillano come fossero posseduti.
Allo stesso tempo li percepisco disumani, meccanici.
Simili a quei bambini autistici intenti nei loro rituali ritmati.
Tutto d'accapo all'infinito.
Senza fermarsi mai.
Cosa li muove...
Cosa vedono lì davanti...
Forse è solo questione di prospettiva.
Basterebbe spostarsi di poco per vedere dietro il muro.
Per riuscire a dare un senso.
Non accade.
Alla fine un solco abissale ci divide.
Una distanza incolmabile.
Allora non vedo l'ora di bruciare le tappe.
Di abbattere ponti.
Per andare via prima possibile.
Prima di essere risucchiato dallo sprofondare continuo della terra sotto i piedi.
Il respiro si fa difficile.
Sto in apnea.
Devo emergere da qualche altra parte.
Per non soffocare.
Mi metto i guanti.
Prendo la bici.
La stretta al petto è sempre più forte.
Non resisto.
Salgo.
Comincio a pedalare confuso.
Diretto più lontano possibile.
L'importante è uscire fuori.
Magari per dirigermi verso casa.
A pensare.
Per dare la possibilità a nuovi germogli, a nuove radici di crescere.
In attesa della manifestazione di un nuovo mondo condiviso.
Intanto si è in balia del vento.
Sbattuti in terre aride aliene.
Senza alcuna possibilità di contaminazione.
Si può solo prendere tempo.
Per un po' me ne sto in disparte.
Da solo.
Aspettando un cambiamento.
Proficuo.
Per tutti.
Continuando a resistere.
A lottare insieme.


P.s.
Dopo infinite discussioni è ricomparso nella lista della spesa anche il fatidico centraruote...
A quanto pare uno strumento imprescindibile nell'attuale imprinting genetico della ciclofficina. Pronto a fare capolino quando meno te lo aspetti.
Stando a recenti studi esegetici...
Quando Mosè scese dal monte Sinai con le leggi in mano, trovò gli israeliti in adorazione davanti a un "centraruote d'oro”.
(Grazie Sofista per la citazione dotta).
Non se ne esce...