Ro-to-nda!!!
Ro-to-nda!!!
È
lo slogan più ammaliante urlato in critical
mass.
Di
certo il più seguito.
Catturati
da tale richiamo, un manipolo di ciclisti variopinti con un sorriso
infantile scolpito si lancia a tutta birra intorno a una rotonda.
Non
vorrebbero smetterla più.
Unooo...
Duuuuue...
Tre
passaggi inebrianti.
Fino
al capogiro.
Una
volta ubriachi d'estasi...
Via
verso altre mete impreviste.
A
ruota...
Dietro
l'occasionale condottiero come uno sciame d'api a ritmo di trance.
Morire
di rotonda per una ciclofficina è un drammatico paradosso.
Una
beffa bella e buona.
Settembre
la data fissata.
Il
tempo della vendemmia e della spremitura.
L'ultimatum
è già in atto.
Rimane
da contare i giorni sul calendario.
La
città del futuro ha deciso.
Ha
fretta di conformare il territorio a sua immagine.
Vuole
veicolare la circolazione a suo piacimento secondo ritmi ordinati.
Alla
bici si è preferita ancora la macchina.
Un
nuovo asse di scorrimento veloce per una società sempre più
frenetica.
Una
grande rotonda in piena bolognina.
Il
cuore pulsante di Bologna.
Alla
confusione di un tessuto urbano brulicante di vita, di piccole realtà
locali multietniche, frammentarie, lente, si appone tramite un enorme
sigillo circolare la certificazione dell'ordine, della forma perfetta
del potere.
Il
cerchio.
La
figura più emblematica e affascinante di tutte.
La
linea piegata su se stessa.
Dove
ogni punto è equidistante dal centro.
Così
ogni inizio coincide con la fine.
Per
un'armonia prestabilita fuori dal tempo, dalla storia.
La
rotonda come “non luogo” per eccellenza.
Crea
distanze incolmabili.
Ci
si può solo rincorrere intorno.
Senza
prendersi mai.
Come
in tanti scatch comici.
Un
girare continuo a perdersi.
Per
trovarsi alla fine al punto di partenza.
Niente
più incontri occasionali.
Scontri
fortuiti dove ci si possa guardare negli occhi.
Salutarsi.
Il
nuovo corpo sociale si è dotato di un ulteriore by-pass per
aumentare l'efficienza della circolazione intasata.
Vuole
scongiurare l'infarto preannunciato.
Non
sa vedersi in altro modo.
Né
trovare soluzioni alternative.
Intanto,
con la stessa efficacia di una lama circolare sulla sfoglia appena
stesa per i tortellini, sferra un fendente sul territorio capace di
squarciare in due l'Xm, mutilandolo della palestra e delle cucine.
Cioè
delle sue funzioni viscerali vitali.
Una
ferita mortale difficilmente suturabile.
Come
tagliare un corpo a metà.
Dopo
sarà solo un'agonia veloce.
L'apocalisse
alle porte.
Ben
prima di quella astronomica dei Maja.
Non
senza fragore una nuova armonia sta per essere affermata.
Per
le realtà autoctone emerse nel frattempo rimarrà la via dell'esodo
o dell'estinzione nell'indifferenza.
Poi
solo il silenzio.
Perduti
nei lager della memoria, dimenticati dai più, verranno rimpiazzati
da nuove presenze all'apparenza pacificate, di bell'aspetto.
Resterà
solo il nome vuoto.
Dopo
l'Xmercato.
L'XXmercato.
Secondo
la dura legge del divenire.
Del
superamento infinito in altro.
E
amen e così sia.
E
mó che si fa?
Si
continua a ballare come sul Titanic?
Tre...
due... uno... zero...
E
se invece di resistere si accelerassero i tempi?
Se
apocalisse deve essere...
Allora
prima possibile.
Anzi
subito.
Per
non cedere alle imposizioni di questo sistema esponendosi alla
contrattazione, allo scambio.
Via,
andare via!
Abbandonare
tutto così com'è.
Disperdendosi.
Suicidandosi
in un improbabile esodo.
Scomparendo
silenziosamente.
Come
fosse scoppiata di botto una bomba termonucleare.
Quegli
ambienti degradati, eppure ancora carichi di senso, di orari fissati,
di codici, di scadenze temporali, di routine, verrebbero riconsegnati
di nuovo al caos, alla disorganizzazione assoluta. In opposizione
totale a tutto quanto lì intorno reclama invece a gran voce cultura,
progettualità, ordine, funzionalità, partecipazione.
Di
punto in bianco quegli edifici vuoti, aperti a chiunque
indiscriminatamente tornerebbero a far parlare.
Innanzitutto
i frequentatori del mercatino biologico posti di fronte all'assenza
delle bancarelle di frutta e verdure. Poi i ciclisti con i loro
rottami in cerca di uno spazio d'accoglienza. Sino al popolo della
notte trovatosi di colpo al buio, costretto a dribblare alla cieca i
corpi stanchi di barboni nascosti sotto i cartoni.
Alla
fine quell'assenza satura di significati, non traducibile
simbolicamente, inscambiabile, risulterebbe insopportabile per tutti.
Come
un cancro a ciel sereno.
Spiazzante
e imprevisto.
Cosa
fare ora?
Come
impiegare tutto quello spazio vuoto?
In
che modo ricambiare quel dono inatteso, quell'obbligazione
inaggirabile capace di tenere sotto scacco il sistema, costretto a
trasformare il niente in qualcosa, il non senso in un valore
ulteriore.
All'inizio
da convento a caserma fascista.
Poi
da luogo di smistamento per i campi di prigionia a mercato
ortofrutticolo.
Infine
centro sociale.
E
poi...
Dopo
l'ennesimo sterminio di senso...
Cos'altro
ancora?
Come
convertire quel cumulo di rovine stratificate, ancora vive e urlanti?
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