sabato 3 aprile 2010

Simbolico
“Sumballo in grego significa non mettere insieme, ma far coincidere. Piuttosto, a definire la nozione di simbolo è la specifica organizzazione tra il tutto e le parti. Nel symbolon, la parte sta per il tutto: un pezzo della tessera sostituisce non solo l'altro pezzo della tessera, ma questo il punto, rimpiazza la tessera nella sua interezza. Proprio perché simbolico è relazione tra le parti e le parti sono nulla senza questa relazione, una parte non solo rappresenta ma è l'altra: quel che conta è il loro reciproco scambio” (pars pro toto, due in uno).
Simbolo sta come qualcosa per qualcos'altro che non c'è più. A causa di ciò l'unità simbolica ricreata porta con sé l'odore della morte alla quale si oppone, ma allo stesso tempo la conserva immunitariamente in quanto antidoto artificiale. Infatti l'atto simbolico è possibile solo a partire da una negazione originaria che lo fonda e lo presuppone. E il nuovo però rimane legato a qualcosa che si è perso, rifondandolo, cioè mettendo insieme i residui, i frammenti di quello che rimane. Si tratta insomma di una operazione per certi versi metonimica, nel senso che i frammenti sono la parte (residua) che dovrebbero sostituire il tutto perduto, per un nuovo tutto restaurato, salvato, trasfigurato. In questo senso presuppone una sublimazione cioè un superamento dialettico, alla fine uno spostamento però al massimo all'interno di una somiglianza di famiglia. Sapendo però che quello che è andato perso lo è per sempre. Sebbene lo si provi a esorcizzare tramite il rito, il linguaggio, il sogno. Il Reale è quella dimensione pre-immaginaria (indicale?) e pre-simbolica perduta per sempre. Con Reale si può intendere qualsiasi cosa originaria, come la dimensione naturale da cui deriviamo, l'animale che lascia spazio alla dimensione umana, la madre come oggetto del desiderio irrangiungibile. In questo senso il simbolico è la strategia magica operata dal desiderio per superare un lutto, una mancanza apparentemente irrecuperabile. Sia nel senso di una sostituzione per somiglianza e contiguità, ma anche nel senso di riportare in vita, alla luce, far nascere di nuovo. Hegelianamente parlando si potrebbe considerare come l'istituzione paradossale dell'identico del non identico. Cioè del superamento di qualcosa perduto forse irreversibilmente attraverso una copia o un simulacro. Comunque si è già all'interno di una dimensione cronica che divora i suoi istanti. In questo senso il “male” è il dilagare della morte e del ritorno al caos come indeterminato che va continuamente reidentificato e reindiviualizzato sistematicamente all'interno di un flusso di coscienza in questo caso discontinuo.


Dialettica e indeterminazione
Il livello di non contraddittorietà di una teoria viene testato dalla successiva che la sostituirà, se risulterà ancora più forte di quella precedente. Più forte è da intendere nel senso di più esaustiva e controllabile.
Eppure all'interno di ogni livello raggiungibile rimane un punto di indeterminazione ineliminabile, cioè un momento di indecidibilità sugli assiomi stessi che lo fondono e sul suo valore di non contraddittorietà che ogni volta lo rimettono in discussione. Tale residuo obbliga il sistema a una ulteriore verifica e comunque a una messa in discussione. In ogni caso ciò lo porta al crollo momentaneo, smascherandone, cioè mettendone a nudo i limiti e le irrisolvibili contraddizioni, obbligandolo a ricercarne un eventuale superamento. Si genera così un elemento di dinamismo che costringe il sistema stesso a un continuo trascendimento. In quanto ricerca di un punto di vista superiore, cioè onninglobante e sistemico capace di appianare le idiosincrasie rivelatisi. Questa in breve è la dinamica della dialettica del divenire dall'uno al due e viceversa. Questo punto cieco della conoscenza, spesso generatore di “dissonanza cognitiva”, non sembra lo si possa evitare. Infatti, una volta focalizzato, attiva tale processo in modo automatico e implicito, nonostante i tentativi di arginarlo o di ignorarlo. Questa sembrerebbe essere la potenza del negativo hegeliana. Negativo non da intendere in senso bivalente come contrarietà, ma come contraddizione. Nel senso di né l'uno né l'altro. Cioè apertura al diverso, (eteron). E tale rapporto, lo ripeto non sempre è tra due entità determinate, ma di solito avviene tra qualcosa di determinato e qualcos'altro di indeterminato, al limite infinito.


Negazione linguistica
Una parte fondamentale del pensiero novecentesco si è interessata alla negazione simbolica, considerandola come la responsabile principale del male sociale e di tutti gli atti di misconoscimento e di svalutazione dell'alterità. Anche le recenti acquisizioni neurologiche sull'empatia naturale dovuta al sistema implicito di simulazione generato dall'attivazione di neuroni somatomori denominati neuroni mirror hanno alimentato l'idea di una scissione tra il livello embodiment di socializzazione istintuale e quello invece simbolico di socializzazione culturale. Alla fine si tende a considerare il primo come naturalmente ottimale e il secondo, a causa del suo potere di negare simbolicamente l'alterità, il responsabile del fraintendimento e infine nei casi più radicali del male relazionale, cioè sociale. A tanto sembrerebbero ricondurre i discorsi di Gallese e di Virno, il primo uno tra i neurofisiologi scopritori dei neuroni mirror, il secondo uno studioso di antropologia filosofica e di filosofia del linguaggio. Insomma esisterebbe una catalogazione pre-simbolica dell'esperienza più pura e efficace rispetto a quella simbolica. Quest'ultima avrebbe soprattutto la funzione di individuare i percetti distinguendoli dallo sfondo indifferenziato attraverso l'attribuzione essenziale di valore. Insomma una volta appurata l'esistenza di qualcosa, cioè il suo esserci qui e ora, si opererebbe una ulteriore riduzione circostanziale specificante. Cioè si definirebbero le qualità essenziali, però in modo spesso arbitrario e soprattutto interessato. Non senza essere spesso mossi inconsapevolmente da dinamiche profonde a volte perverse, causa di un mascheramento non di rado svilente dell'alterità. Secondo questa posizione, la negazione linguistica sembrerebbe essere originaria. Inoltre, in riferimento all'origine del male, una volta attivata andrebbe a compromettere la spontanea natura empatica ritenuta positiva, accogliente dell'uomo pre-simbolico. Ma le cose starebbero davvero così? È sostenibile che la natura umana sarebbe, almeno fino a un certo punto, un positivo puro poi corrottosi a partire da tale livello in poi? Quest'ipotesi così formulata sarebbe in accordo con l'incipit biblico del mito di Adamo e Eva. In quanto sarebbe l'assaggiare metaforico dell'albero della conoscenza, cioè della introduzione nella dimensione simbolica, a causare la cacciata dal paradiso terrestre.
Più in generale, riprendendo ad esempio le teorie psicologiche lacaniane desunte a partire dalla prima topica freudiana, ma anche certa ermeneutica, la scissione, la spaltung operata dal linguaggio produrrebbe una cesura netta, cioè una barra separatoria definitiva. Sia a livello “simbolico”, ma ancor prima “immaginario”, cioè della rappresentazione in presenza dell'oggetto in questione, si operebbe solo una ri-velazine, cioè un mascheramento travisante. In quanto il significante o l'immagine pertinente a indicare il significato del referente Reale, fallirebbero nel loro intento. Affermare qualcosa linguisticamente come un positivo significherebbe rinnegare la specificità dialettica, cioè oppositiva della dimensione simbolica del linguaggio. Che è quella di affermare qualcosa per qualcos'altro, in sua vece. Secondo la logica dell'identico del non-identico. Anche se tale relazione avvenisse comunque necessariamente e non fosse invece arbitraria come può accadere per il segno linguistico. In ogni modo i due piani non coinciderebbero più. Piuttosto l'esistenza del piano simbolico, distitosi a causa di tale processo, può accadere solo grazie a tale negazione originaria del Reale. In questo caso ciò che viene rimosso è perduto per sempre, nonostante i tentativi di recuperarlo. Da ciò originerebbero il manque, ma anche l'oblio dell'essere, in quanto sottrazione a sé stessi alla fine inevitabile.
Stando così le cose, sempre secondo questo punto di vista, il linguaggio avrebbe comunque al suo interno la possibile soluzione, l'antidoto al male da esso stesso causato. In particolare applicando il potere di negare a se stesso, ovvero al precedente atto di negazione simbolica. Rimane il fatto che bisogna dimostrare fino a che punto tale atto simbolico riparativo in quanto ri-mozione di una ri-mozione precedente sia da considerare solo come negazione di una negazione originaria compiuta, senza più resti dialettici da integrare ulteriormente. In caso affermativo il recupero dell'origine può andare solo nostalgicamento verso la restaurazione dell'inizio, possibile solo dopo la sospensione (katargein) di tale negazione originaria una volta portata alla coscienza. Solo quando si azzererebbe tale dimensione, ci si potrebbe così lasciare guidare da tale disposizione naturale non più inquinata e fraintesa dalla dimensione linguistica. Ma ciò vuol dire non affermare più nulla, nel senso di sospendere qualsiasi giudizio che non sia ricondotto alla predisposizione empatica implicita. In questo caso significherebbe tornare alla notte, o forse alla soglia limite del momento primitivo del fiat lux, dell'illuminazione, sospendendosi a tanto, senza ricercare ulteriori specificazioni o riparazioni simboliche. Cioè smettendo di impegnarsi (sens emploi), cioè di darsi da fare nel tentativo di sanare tale spaltung originaria agendo su tale livello. In questo senso significherebbe affidarsi nietzchianamente alla sapienza del proprio corpo, superando la tentazione di una restaurazione dialettica dell'unità, di una sintesi simbolica definitiva, però al prezzo di una ulteriore negazione in questo caso assoluta. Ma la vedo dura. Come è possibile pensare tale negazione? In che modo recuperare casomai tale origine perduta cercata invano a partire da quell'inesauribile spostamento simbolico e metonimico all'interno del quale si può solo girare a vuoto attorno a tale rimozione originaria. Come si fosse novelli Mosé posti di fronte all'irrangiungibile terra promessa, costretti a un esodo inesauribile.
È possibile uscire, dispensarsi da tale dialettica? E casomai come licenziare tale negare dialettico. Cioè il negare affermando, o meglio l'affermare/negando allo stesso tempo parzialmente qualcos'altro. Sia esso un nuovo mondo, una nuova forma di vita senza conservare più allo stesso tempo qualcosa della precedente, magari sottoforma di ricordo delle vestigia (memoria) e di un ulteriore riconoscimento o identificazione però solo in quanto successiva (auto/etero)narrazione, qualcuno lo definirebbe anche confabulazione, di una continuità che nei fatti sarebbe piuttosto una discontinuità. Aprendosi così all'altro totalmente, in senso apocalittico. Cioè oltre qualsiasi idea di una copia della copia, seppur restaurata e perfezionata, in quanto si accetterebbe che, nella copia, l'originale è andato irrimediabilmente perduto per sempre.
Invece, nel caso in cui non sia possibile sospendere il pensiero simbolico, rimarrebbe residualmente la strada tentata da certa antropologia francese consistente nel tentavivo compromissorio di recuperare una negazione meno drastica, almeno se confrontata rispetto all'intransigenza del pensiero identitario e del terzo escluso. Per favorire invece un pensiero capace di sopportare anche la contraddizione e l'inclusione del terzo incomodo, cioè l'ospite (hostes/xenos) inquietante alla porta. In tal caso, nel pensiero simbolico si andrebbe a negare quella diacronicità dialettica processuale, cronica ritenuta necessaria. Piuttosto si ritornerebbe a affermare la possibilità di una logica primitiva simmetrica e partecipativa fondata sulla reversibilità e sulla sostituzione, oltre che sulla partecipazione a qualcosa che non c'è più, rigenerandola esorcisticamente. Come accade nei riti, la partecipazione è infatti una rievocazione, cioè un riportare in vita ancora simbolico e allo stesso tempo al di là di esso. In questa prospettiva a essere revocata è la temporalità diacronica a favore della compresenza e della simultaneità. All'interno di una differente visione veritativa e fideistica del mondo. Non so poi quanto pacificamente accettabile.