venerdì 24 dicembre 2010

Galeotto fu...

Cena yoga prima di natale.
In tutto una decina di partecipanti.
Tra di essi Francesca.
Gli era piaciuta sin da subito.
Sebbene il loro rapporto non fosse semplice né lineare.
Francesca era stata toccata dalla vita.
Il suo equilibrio ne aveva risentito.
Da primogenita aveva dovuto sopportare da sola il peso della crisi. La frantumazione del suo mondo “naturale”, la famiglia.
L'umore era soggetto a sbalzi improvvisi.
Da allora i suoi occhi non avevano smesso di urlare in silenzio.
Increduli di fronte a quella realtà disarmante, imprevista.
Impossibile affrancarsene.
Si era dovuta presto abituare a vivere con la terra tremante sotto i piedi.
In attesa del crollo.
Quando capitava di botto, senza preavviso.
Non c'era tempo per la disperazione.
Si doveva ripartire.
Senza fiatare.
Fosse concesso avrebbe preferito affondare indolentemente.
Non senza autocommiserarsi un po'.
Tanto nessuno perde tempo a ascoltarti, a comprenderti.
In questi casi ci si può solo rialzare.
Da soli.
In silenzio.
Per ricominciare a marciare come nulla fosse successo.
Perché il mondo intorno non si ferma a aspettarti, va avanti.
Allora sei costretto a rincorrerlo con affanno.
Non c'è mai tregua.
Né pace, né vacanza.
Il tour de force della vita.
Quel giorno era cambiato qualcosa.
Lo aveva cercato lei con lo sguardo.
Fin da subito.
Da quando si erano incontrati all'appuntamento pattuito.
Mostrando un sorriso delicato, accogliente.
Il suo corpo si avvicinava con naturalezza.
Senza frapporre ostacoli.
Davanti al bicchiere di birra smezzato insieme si era aperta.
Di più...
Aveva rilanciato.
Quando mi inviti a casa?
Lui era rimasto sorpreso da tale slancio.
Ma anche contento.
Prima possibile...
Magari dopo le feste...
Porta anche i libri.
Così si studia insieme.
Poi dalla borsa tira fuori un fumetto.
Appena letto te lo passo.
Attraverso quella borsa si era spalancato un varco nella sua intimità, nei suoi interessi quotidiani.
Un modo per donarsi all'altro.
Senza barriere.
Con naturalezza.
Aveva fatto centro.
Anche lui era un appassionato di fumetti.
Restava il fatto della novità.
D'incanto le porte del suo intricato labirinto si erano spalancate.
Ora era concesso penetrare nei suoi santa santorum.
Non c'erano più impedimenti.
Quale chiave aveva aperto le serrature.
Cosa era successo?
Quella notte la luna aveva virato prepotentemente verso il rosso per scomparire del tutto dietro uno sfondo nero impenetrabile come non mai da più di quattrocento anni.
Quella notte solstizio d'inverno astronomico, calendariale, luna piena, eclissi totale erano collassati.
La notte più buia di tutte.
Senza l'illuminazione del sole, ora anche della luna.
Rimanevano solo le stelle lontane anni luce.
Quando alla fine della sera si salutarono.
Lo fissò intensamente.
Poi lo accarezzo delicatamente sul volto.
Lui non comprese subito.
Rimase spiazzato.
Sebbene avesse portato con sé quella carezza come un bene prezioso.
Custodendola nei suoi pensieri.
Fino la mattina seguente.
Quando la nebbia si diradò lentamente.
Sensibilizzata a sopravvivere davanti alla vita cieca, ottusa, Francesca aveva risposto.
A modo suo.
Con tutta se stessa.
Nonostante la voragine spalancata da tempo sotto i suoi piedi.
Un doppio salto carpiato nel vuoto.
Lo avrebbe capito?
Sarebbe stato altrettanto sensibile da accoglierla?

domenica 5 dicembre 2010

Mattina presto in stazione

Otto e trenta di mattina.
Stazione di Bologna.
Binario sette.
Tra cinque minuti parte il treno per Ancona.
Oramai sono diventato il pendolare del soccorso.
La mamma chiama...
Mi tocca scendere.
Fuori piove.
Una pioggia finta.
Secondo Vera.
Una giovane amica austriaca.
Ti bagna ma non la vedi.
Il binario è pieno di persone in attesa.
Sono tutte tristi.
Come le passioni dei nostri tempi.
Immobili nella loro routine quotidiana.
Come ogni giorno aspettano il treno per andare a lavoro, a scuola.
Non fa differenza.
I volti non esprimono nulla.
Se non rassegnazione.
Sono tutti vestiti bene.
Senza essere ricercati.
Sobri fino a scomparire nel grigiore della stazione.
Stanno in fila ordinati.
Nessuno fischietta, sorride, dialoga.
Le labbra sono serrate.
Mute.
Gli occhi spenti.
Assenti.
Qualcuno rimbalza lo sguardo sul giornale.
Per circoscrivere recinti.
In tale clima plumbeo a parlare sono i monitor della pubblicità.
Di auto.
Oggetti fashion.
Usano colori accesi.
En pendent con i toni delle superfici da poco rinnovati.
Dovrebbero stimolare.
Provocare sensazioni piacevoli.
Invogliare.
Far agire.
Anche grazie alla musica di sottofondo.
Solitamente motivi esotici, spensierati.
Il tutto stona assai con l'atmosfera presente.
Nessuno ci fa più caso.
Il monitor vicino le scale ha una cassa andata.
Il suono è sparato al massimo.
Va in distorsione battente.
Secondo un ritmo costante.
Sembra un effetto ricercato.
Da fastidio.
Tutti sono irreprensibili.
Come non ci fosse.
Non lo udissero.
Inabissati metri e metri nei loro bunker.
Nessuno si prende la briga di cercare il telecomando per spegnerlo.
Oppure la spina per staccare lo strazio.
Andrebbe bene anche scaraventare con rabbia la propria ventiquattrore di plastica dura contro lo schermo.
Fino a frantumare la superficie.
Per far uscire la materia grigia.
Transistor, fili, schede elettriche.
Come fuochi d'artificio.
Nessuno compie tale gesto caritatevole.
Sono tutti sprofondati nel buio peso.
Con lo spirito vitale lasciato a dormire sotto le lenzuola.
Non è ancora ora di svegliarsi.

mercoledì 24 novembre 2010

Come l'uomo ha imparato a non preoccuparsi e amare la bomba

La massima potenza trasformativa nasconde la massima potenza distruttiva.
L'acme è anche abisso.
La vita morte.
La fine l'inizio.
È qualcosa di inscritto all'interno della natura.
L'uomo ne incarna solo uno dei tanti aspetti.
Quello in cui il connubio apoteosi, devastazione è spinto più in là di tutti.
Non sembrano esserci soluzioni di sorta.
O sospendersi.
Contenendosi.
O darsi da fare.
Liberi da ogni resistenza.
Senza più freni.
Comunque fine programmata sarà.
Tanto vale imparare ad amare il proprio destino.
Ma se apocalisse deve essere.
Allora perché non la più spettacolare possibile.
Coinvolgente quanto quella testimoniata dalle foto delle radiazioni cosmiche di fondo emesse dopo il Big Bang.
L'inizio di tutto.
Questa volta per essere testimoni dello spettacolo della fine.
Per l'avvio di un nuovo improbabile Big Bang.
Attivandoli con un semplice bottone.
Come nel film di Kubrick Il dottor Stranamore.
Per essere protagonisti assoluti.
Allo stesso tempo spettatori rigorosamente in prima fila.
In ogni caso, sempre meglio morire a cavallo di un surf lanciati a tutta birra verso l'atmosfera terrestre.
Consumati come un moscerino attratto dalle lampade violette antinsetticide.
Come in Dark star di Carpenter.
Che morire di noia.
Certo sarà solo un rumore istantaneo.
Quel clamore inutile dell'essere.
Poi il nulla.
Il silenzio.
Niente più.
È forse questa l'essenza thaumatica dell'uomo?
Essere disposti a lasciarsi accecare luciferinamente dalla luce per partecipare entusiasti a questo gioco inutile soltanto a perdere.
Kubrick lo aveva intuito.
Non si può leggere 2001 odissea dello spazio se non articolandolo con il precedente Il dottor Stranamore: ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
A contare più della vita, della verità, dei valori etici sembrerebbe il raggiungimento residuale di tale stato euforico eccitato.
Tanto basterebbe.
Il potere di incanto delle immagini sull'uomo ha lo stesso effetto della luce sugli insetti, sugli animali.
Avendo il potere di sbloccare indirettamente il nostro disinibente vitalistico in modo irresistibile.
Come accade in quegli assurdi balli di corteggiamento per accoppiarsi.
Un rituale spesso pagato con la vita.
In passato l'uomo si è definito in tanti modi.
Uomo politico, religioso, faber, oeconomicus, sociologicus.
Forse sarebbe più corretto ludico, thaumatico.
O ancor meglio il-ludens.
Per rimarcare quella propensione all'illusione agita attraverso la strategia regressiva, euforizzante del gioco.
Anche di fronte all'evidenza del dolore, dell'atrocità più radicale possibile.
Il postmoderno, nella dissoluzione dei valori etici, veritativi tradizionali, potrebbe aver dato ulteriore spazio a un soggetto ludico svincolato da qualsiasi costrizione.
Un soggetto capace di godere di tutto.
Senza limiti di sorta.
Dalla bontà più profonda, al male più perverso.
Al di là del bene e del male.
Indifferentemente rispetto a quello che passa il convento, il Dio di turno.
Da quello mistico spirituale a quello demiurgico a quello anticristico.
L'importante è l'intrattenimento puro.
Rigorosamente inglorious.
Volendo citare un recente titolo di Quentin Tarantino.
Il predicatore pornonichilista trashcendentale oggi più famoso.
Nel suo ultimo film Eyes wide shut, Kubrick ha provato fino alla fine a denunciare tale strategia esistenziale edonistico-thaumatica perversa, porno.
Davanti alla raggiunta consapevolezza dell'orrore prodotto.
Alla dismisura delirante del proprio desiderio.
Di fronte alla coscienza del male radicale incarnato, agito involontariamente.
I protagonisti del film non trovano di meglio di andare a scoparci su.
Per affogare tutto.
Per godersela residualmente ancora.
Coprendo tutto con un sottile velo di silenzio certamente approssimativo.
Però sufficiente per tirare ancora a campare a lungo.
Così va la la Vita, con la v maiuscola.
Senza rinnegare gnosticamente l'esistenza.
Rilanciando in dimensioni, spazi, tempi paralleli o escatologici.
Senza abbracciarla incondizionatamente.
Non bisogna smettere di cercare altro.
L'unica possibile posizione sostenibile.
Almeno dal sottoscritto.

venerdì 19 novembre 2010

Amore sovversivo

In piena emergenza.
Ho proclamato il mio amore ai miei amici, amiche, vicini.
Con eccesso.
Con disperazione.
una questione di vita o di morte.
in molti sono rimasti perplessi.
Colpiti.
La maggior parte si è ritratta.
Non abituata a tanto.
Alla fine sono più solo di prima.
sebbene frequenti ogni giorno una marea di persone.
Abbandonato all'occasio.
Alla manna quotidiana.
Palliativo solo per la sopravvivenza.
Dopo avr toccato per un istante il cielo con un dito.
Aver provato a rimanerci tutti insieme.
Il più a lungo possibile.
Sono sprofondato peggio di prima.
Un mondo va ricostruito.
Con calma.
Pazienza.
Trasformando l'incolore manna in qualcos'altro.
Di più appetibile.
Di più elevato.
Intanto indosso la maschera.
Mi nutro di microbico plancton.
Giusto per non morire.
Lo chiamano destino.
I più audaci provvidenza.
Fanculo.
È naturale.
Fanculo.
Dov'eri quando ho creato il mondo...
Fanculo.

venerdì 22 ottobre 2010

Bora lacrime

Hanno al massimo ventitre anni.
In superficie sono delicati.
Visi puliti, sbarbati.
Corpi non ancora sfondati dalla vita.
Stropicciati dalle rughe.
Però sono già vecchi.
Reduci anticipati.
Ben prima di diventare adulti.
Provo pena per loro.
Accumunati dallo stesso destino.
Almeno per ora.
Riusciranno a sopportarlo?
Sono cresciuti a pane e grunge.
Lo hanno incarnato fino in fondo.
Musicisti provetti.
Sono senza pubblico.
Oggi suonano al Gaudio.
Un locale arci lungo il viale della vittoria.
In uno stabile nuovo.
Anch'esso invecchiato precocemente.
Nel volgere di pochi mesi.
Sulla facciata ancora fresca di vernice si spalancano vetrine trasparenti dentro stanze vuote.
Gaudio, vittoria nomi senza senso.
Paradossali.
Inverosimili.
Non sono in molti.
Si contano già i dispersi.
Serrate le fila rimane un piccolo manipolo di disperarati.
Tommy, dei .cora., di fronte all'ennesimo schiaffo della vita ha provato a dissolversi fino all'osso.
Stava già in apnea.
Non poteva respirare l'aria che soffocava.
Il giro di vite successivo è stato rifiutare cibo avvelenato.
Al punto di scomparire quasi del tutto.
Sul volto risaltano solo gli occhi strabuzzati.
Comunicano incredulità, spiazzamento per la disumanità sperimentata.
La salute ne è stata danneggiata non poco.
La voce residuale fuoriuscita da polmoni non più abituati a accogliere l'aria non riesce a urlare come un tempo.
Dopo poco prevale la tosse per anossia.
Il suo corpo inconsistente è fragile.
Nonostante tutto ha mantenuto l'ironia.
La voglia di prendersi in giro.
Di scerzare con i suoi amici.
Prima di loro c'era Checco.
Un debutto da solista.
Dopo l'esperienza dei Solindo.
Il suo gruppo da sempre.
Incapaci di riflettere ancora i raggi del sole.
Comincia a cantare accompagnato dalla chitarra acustica.
Strofe cantautoriali grunge si intrecciano profondamente.
La tecnica è sopraffine.
La voce ispirata oltre la battuta.
Come di copione.
Lo aiuta Sté.
Il batterista dei .cora.
Da naufrago accudisce l'ennesimo sopravvissuto.
Seduto al suo fianco gli sorregge i testi.
Volta le pagine al momento giusto.
Segue con il dito le parole.
Come una mamma affettuosa con il pargolo.
Dopo tanto olocausto ci si può solo sostenere a vicenda.
Esibendo un amore profondo.
Sovversivo.
Irriducibile.
L'unico modo per ribellarsi alla vita.
Continuare a amarsi.
Disarmati.
Senza identificarsi con il carnefice.
Per non accettare regole spietate, assurde.
Provare invece a giocare a altro.
Interferendo.
Per dissimulare, sospendere, eludere qualsiasi logica perversa.
Hanno capito l'essenziale.
Non ho nulla da insegnare loro.
Una lezione di vita imprescindibile.
Checco finisce il primo pezzo.
Si presenta agli amici.
Gioca con l'identità dei suoi vecchi compagni sottrattisi per inseguire sirene.
Al secondo pezzo si rompe la corda.
Senza scomporsi, suona fino alla fine armonie infrante.
Tommy gli passa la chitarra elettrica.
Il suono è pulito, senza distorsioni.
Sa bene come tararla.
Si conoscono da una vita.
Da quando bambini avevano cominciato a suonare.
Non riproducevano le solite canzoncine spensierate.
Avevano fatto la gavetta con Twist.
Dei Korn.
Quaranta secondi di bava alla bocca di un animale ferito a morte, smarrito.
Si trovano al Ventaglio.
La notte.
Per suonare insieme gli Alice in Chains, i Pearl Jam, i Nirvana e quant'altro.
Con le loro ragazze.
Imbottiti di vodka.
Nascosti dietro le quinte del parco naturale a forma di teatro greco.
C'era pure una lapide dedicata al più metafisico degli scrittori italiani del novecento.
Calvino.
Li avevo conosciuti lì.
Una sera d'estate solitaria.
In quello spazio limite.
Dopo aver inseguito i loro echi sonori.
Intanto Checco sostituita la chitarra con quella elettrica di Tommy si ferma.
Sembra voler abbandonare.
No ragazzi.
Basta occupare altro tempo.
Suonate voi.
Lasciamo spazio ai .cora.
Va bene così.
Sostenuto dall'affetto dei suoi amici porta a termine altri due pezzi.
Poi si sospende definitivamente.
Fa spazio agli altri.
Sottraendosi.
Sottovoce.
In tutto il locale il tono è sommesso.
Nessuno si lascia contagiare dall'eccesso.
Sebbene sia sabato.
Ci si consola al massimo bevendo insieme il vino della casa.
Del buon verdicchio.
Offerto a soli sessanta centesimi al bicchiere.
Una piccola manna dal ciel...
No...
Semmai da chi già esangue non smette di accudire il proprio prossimo.
In questi tempi bui.

mercoledì 6 ottobre 2010

Acufeni grunge

Ci sono giorni in cui l'aria è più nitida del solito.
Accade soprattutto nei cambi di stagione.
Quando il tempo si fa variabile.
Mosse dal vento d'alta quota le nuvole si spostano repentine.
A volte può piovere.
Non dura molto.
Il sole va e viene.
I raggi hanno ancora la forza di scaldare la terra.
Non si sta male.
La luce ha una tonalità insolita.
Non c'è più l'afa, la calura, l'umidità estiva.
I contorni sono netti.
I colori accesi.
Gli spazi si dilatano a dismisura.
Per un attimo può capitare di vacillare.
Il vuoto non resiste.
Viene saturato dai suoni.
Tutto diventa udibile.
Il rumore d'acqua di una fontana lontana.
L'abbajare di un cane.
Le voci riverberate delle persone.
Da tutte le direzioni si accavallano frenetiche.
Senza soprapporsi.
Le distingui chiaramente.
Una a una.
Le più distanti arrivano basse con un eco.
Non sembrano umane.
Evocano qualcosa di spettrale, d'inquietante.
Un urlo si prolunga all'infinito.
Si stira a dismisura.
Per decadere imploso in se stesso.
Lentamente consuma tutte le tonalità discendenti.
Fino alla soglia dell'udibile.
Per la densità si appiccica addosso.
Non si scrolla più.
Anche stando lontani dal traffico, si riconosce il sibilo sordo delle auto.
Il vibrato basso, penetrante degli autobus arriva fin dentro la pancia.
Se si cammina per strada le cose non cambiano.
Si distinguono le voci dei passanti.
I sorrisi.
Le battute.
Il suono metallico delle suonerie.
I tacchi rimbombanti sull'asfalto.
Se ne vieni avvolti.
Non c'è spazio, luogo dove si è al riparo.
Dentro ci si smarrisce.
Una legione caotica, frammentaria prende il sopravvento.
Si vorrebbe trovare un po' di tranquillità.
Ci si sposta in una piazza, in un giardinetto.
Ma è inutile.
Non si può sfuggire.
Conviene fermarsi.
Braccati come una preda.
Alla mercè del colpitore di turno.
Resistere non serve.
Viene spontaneo chiudere gli occhi, le orecchie.
I suoni si amplificano.
Fino a penetrare dentro come il fischio di un trapano.
Paralizzati, si aspetta la fine.
In attesa di un mondo meno invadente.

Castagne sul fuoco

Rimaneva ancora molto per l'alba.
I presenti stavano immobili davanti al fuoco.
Un legno grosso piantato nel bidone lottava per non essere consumato.
Resisteva da più di un'ora.
Il suo destino era segnato.
Il fuoco lo aveva avvolto.
La stretta si faceva sempre più forte.
La base si stava annerendo.
Era cominciata lenta la trasformazione irreversibile verso il niente.
Insieme al fumo, alle particelle di cenere volatili si alzava lento l'ultimo grido.
Dopo l'iniziale scoppiettio, l'esplosione di frammenti impazziti, il processo aveva assunto ora un ritmo regolare.
I lamenti si erano tramutati in borbottii rassegnati.
Quella sera si era in allerta.
Lo spazio occupato, divenuto il luogo di riparo di tanti naufraghi senza più meta, era in pericolo.
Per l'ennesimo assedio strisciante di un sistema ferito perennemente in stato d'allarme.
Pronto a colpire alla cieca.
Di preferenza i più deboli.
Si trattava di superare anche questa situazione.
Tragica e imprevista.
Questioni di sopravvivenza.
Ma anche di salvaguardare con tutte le forze quel microcosmo sociale fuori da tutti gli schemi vigenti.
Lì non valeva la legge del più forte, del più seducente.
A contare era il consenso di tutti.
Quando non c'era, giù a discutere.
Piuttosto girando a vuoto.
Nell'attesa di una soluzione giusta.
In grado di superare le divergenze.
Roba da fantascienza sociale.
Certo non mancavano le incongruenze.
Non tutte le ciambelle riuscivano con il buco.
Si provava a apprendere dagli errori.
Per migliorare la volta successiva.
In tale diversità era venuto fuori il meglio.
Molti avevano conosciuto l'abisso.
Ma erano sopravvissuti.
La vita li aveva temperati a saper resistere alle condizioni peggiori.
Oltre agli autoctoni puri, il luogo era frequentato da occasionali visitatori.
Anche loro vi avevano trovato posto.
Molti venivano da scienze politiche.
C'era pure un professore di sociologia.
Altri erano mossi da intenti creativi.
C'era la scuola migranti.
La palestra con i corsi di yoga, box, tessuto.
Il gruppo del mercoledì.
Quelli del mercatino biologico.
I dj tecno.
E anche la ciclofficina.
In tale situazione d'emergenza era stata rischiesta pure la loro presenza.
Avevano accettato di buon grado.
Non si trattava di solidarietà.
Quanto di proteggere i propri spazi contro una normalizzazione tutto avvolgente, stritolante.
Si era diventati un'unica famiglia.
La più variegata, eterogenea possibile.
Si stava bene insieme.
Certo quel luogo non pretendeva di essere un paradiso.
Nessuno lo considerava tale.
Era casomai il migliore degli inferni possibili.
Tutti avrebbero venduto cara la pelle per quello spazio.
I raga della ciclo si erano dati appuntamento per mezzanotte di fronte all'alto cancello sbarrato.
La porta normale d'ingresso.
Volevano partecipare anche loro.
Non erano in tanti.
Non importava.
Valeva solo esserci.
Dentro il castello assediato bisognava tenere a bada i punti critici.
L'entrata principale, il cancello posteriore.
Quello aperto verso la distesa deserta abbandonata.
Luogo di confine non ancora addomesticato.
Un micromondo selvaggio.
Terra di nessuno, di sbando.
Dove la natura conta ancora.
Detta legge tra le rovine del vecchio mercato.
Nonostante la presenza di una gru alta venti metri, rivolta verso il cielo come un'antenna traballante in balia del vento.
Il nuovo avamposto della futura colonizzazione.
Avevano scelto di piazzarsi lì.
In quello spazio invaso da decine e decine di bici rottamate.
Alcune degne di tale nome.
La maggior parte oramai solo scheletri arrugginiti.
Se si fosse deciso di girare Terminator in Italia, quello era il posto giusto.
Il connubio fuoco più biciclette aveva convinto tutti.
Senza nemmeno il bisogno di uno sguardo si erano tuffati sulle sedie intorno al fuoco.
Dal cielo scendeva ogni tanto qualche gocciolina di pioggia mescolata con le numerose particelle di cenere sollevate dal calore.
Sembrava nevicare.
Non faceva freddo.
Il bidone infuocato riscaldava a sufficienza.
Qualcuno aveva portato le castagne.
Ottobre aveva fatto capolino da alcuni minuti.
Poggiate sopra una ruota di bicicletta storta usata a mo' di grata, le castagne prendevano il colorito giusto.
Nonostante il tentativo di sgambetto del fuoco per mandare tutto all'aria.
Una volta dorate furono portate sotto l'ombrellone blu.
L'ultimo avamposto prima della distesa deserta sommersa nel buio della notte.
Furono mangiate in un baleno.
Tra il silenzio rotto da battute sussurrate.
Per non compromettere l'atmosfera.
Poco lontano si stava girando un film.
A testimoniarlo c'era la gru di un dolly, alcuni riflettori accesi, il vociare degli attori.
Grazie all'evocatività surreale del luogo si aveva la sensazione di essere all'interno di un unico immenso set cinematografico. Ognuno con la propria parte da recitare in attesa del fatidico:
Azione!
Si gira...
Sullo sfondo il rumore sordo della città, una sinfonia dissonante di echi meccanici, un concerto di auto in movimento interrotto ogni tanto dall'assolo in battere di qualche argano al lavoro.
Anche di notte la metropoli del futuro non dorme.
È impaziente di trasformare ogni cosa senza remore.
Giusto per ricordare ai presenti il destino già scritto di quei luoghi.
Prossimi alla fine.
Eppure in tale sospensione la natura, gli esseri animali, gli uomini erano riusciti a dare forma a un ambiente indefinito, misterioso.
Luogo di possibilità arcane, magiche.
Sarebbe potuto accadere di tutto.
L'incontro di una giovane devota con uno squatter.
Offrire castagne a un puffo blu emerso da una botola nascosta lì vicino.
Giocare a briscola con uno di quei grossi cani sempre a zonzo, mentre mastica mentine.
Il tutto con la spontaneità di un bambino sorridente.
Nonostante il tentativo da parte del buio di nascondere ogni espressione, provando a sovrastare la debole luce radente del fuoco.
Durante la battaglia i volti erano scolpiti in bianco e nero.
Dalle tenebre emergevano i lineamenti duri di teschi in lotta per incarnare ancora vita.
Per aspirare a identità più definite.
Prima di soccombere come tutto lì attorno.
Nella notte pesta, qualcosa di bello, di indicibile riusciva a far vibrare i cuori.
Allora il silenzio prendeva il sopravvento.
Lo sguardo si abbassava lentamente fissando il nulla davanti.
I rumori di fondo si amalgamavano trovando pace.
Si era fatta una certa ora.
A parlare erano rimasti solo gli schiamazzi striduli di animali battaglieri.
Presi dalla stanchezza i ragazzi della ciclo decisero di andare.
Per Nilo e Mimmo si trattava di affrontare il momento più duro.
Il resto della notte.
Quello più nero.
Da soli.
Come tante altre volte.
Stringendo i denti senza fiatare.
Sapendo di poter contare solo sulle proprie forze.
Aspettando un'altra alba, un nuovo giorno forse possibile.


Mauss
Viveva all'Xm.
Era magro.
Non troppo alto.
Capelli lunghi neri.
Raccolti in una coda.
Un po' di barba.
Vestiti scuri.
Poteva ricordare un moschettiere decaduto.
Lo si vedeva dallo sguardo fiero.
Era un patito di teatro, di letteratura.
Retaggio di un percorso esistenziale passato.
Aveva la battuta facile.
Spesso era tagliente.
Il punto giusto.
Era sensibilissimo.
La vita lo aveva portato a conoscere bene le passioni umane, la sincerità degli sguardi.
Era un fine interprete delle espressioni altrui.
Da tempo era relegato lì.
Insieme agli altri.
Forse desiderava altri sentieri.
Per rompere l'isolamento.
Lo reclamava a gran voce pur stando in silenzio.
A volte lo manifestava con ironia velata di cinismo.
Aveva imparato a trattenere le proprie emozioni.
A saper tenere a bada il proprio pensiero.
Piuttosto si sospendeva, rimaneva immobile con lo sguardo fisso.
Dentro invece era un franare rovinoso di desideri, sentimenti infranti, traditi.
Un terremoto devastante.
Allora tirava il diaframma.
Chiudeva la bocca facendola piccola piccola.
Ritraendosi in se stesso risucchiava le guance come un topo in trappola ricacciato a forza nel suo abisso.
Abituato a ben altro, soffriva nel vedere il mondo fuori insensibile ai suoi appelli.
Ostile nonostante le apparenze gentili.

giovedì 30 settembre 2010

Ecce homo

Oltre ogni melanconia.
Al di là della speranza.
Provo a giocare con il potenziale.
In qualsiasi forma si presenti.
Nei modi, nei luoghi piu impensati.
Stando ai margini.
L'unica chance concessami per trascendere questa attualità.
Anche solo per un istante.
Sperimento una “debole forza messianica”.
Sottosogliare.
Non critica, apocalittica.
O comunque rivoluzionaria.
Roba da armata Brancaleone.
Alla Don Chichotte.
A conti fatti la rivoluzione non so nemmeno cosa sia.
Si tratta piuttosto di resistere.
Nonostante tutto.
Contro tutti.
Quando possibile.

venerdì 24 settembre 2010

Destino e rivoluzioni lunari

Destino
Non so cosa c'era prima.
Quali tavolette abbiamo scelto in sorte.
O quale bottone abbiamo pigiato senza saperlo.
Ma lo scenario apertosi è stato sublime.
Spiazzante.
Ammutolente.
Un'annunciazione nel deserto.
Un'epifania sottile.
Un chiamare e un rispondere reciproco.
Sento ancora viva la tua voce tremante.
Tanta la sorpresa di trovarmi li.
Quanto durerà?
Chi lo sa.
Magari è stata solo casualità.
Però la più improbabile.
Quante volte infinite si è ripetuta la scena senza successo?
Io in bici e tu a piedi.
Quante volte ci siamo cimentati a vuoto su quella salita amena senza incontrarci.
Immersi nei propri pensieri.
Nei propri silenzi.
Aspettando chissà cosa.
Quale incastro cosmico ha permesso ieri quella svolta?
Quale rivoluzione.
Non so rispondere.
Rimango ancora stupito.
All'ombra di una luna crescente spaccata nettamente in due.
Sullo sfondo di un cielo limpido di fine estate.


Rivoluzioni lunari
Anche oggi tramonterai dall'orizzonte.
Dopo esserti mostrata totalmente.
Scomparirai.
Per apparire in nuove forme.
Intanto assisto alla tua dissoluzione.
Differenze insanabili emergeranno.
Fino all'ecatombe.
Quando la luce del tuo volto si spegnerà del tutto.
Allora nuova vita sgorgherà ancora.
Inaspettata.
Si sarà ancora pronti?
Disposti a risuonare armonicamente insieme?
Però non passivamente.
Continuando a resistere a oltranza.
Per partecipare a qualcosa di entusiasmante.
Da definire.
Oltre eros.
Oltre agape.
Al di là di un divenire indifferente, spietato.
Al di là di una staticità paralizzante, anestetizzante.

sabato 11 settembre 2010

Un piccolo paradiso per un giorno

Era arrivato a Stiore da solo.
Con la bici da corsa dopo una pedalata di circa trenta chilometri per la bassa.
Tirando a tutta per essere puntuale.
Quei posti li conosceva bene.
Erano gli itenerari soliti.
Per questo sapeva individuare tutte le scorciatoie e le strade secondarie.
Anche per evitare il traffico.
Ma soprattutto per mirare paesaggi incantevoli lì a portata di mano. In particolare quando il sole tramonta e la luce riverbera in tante sfumature intense.
Lì c'era l'appuntamento con i suoi amici.
Un luogo solitamente ameno ai più.
Di sicuro tagliato fuori da tutte le mappe turistiche di qualsiasi genere.
Un gruppo doveva venire da Savigno reduci da un matrimonio in campagna.
Una sorta di cerimonia pagana propiziatrice della vita.
Con i loro djembé avevano animato la nottata.
Guidati da Bacco avevano tirato l'alba.
Fino a quando una nebbia alcolica aveva preso il sopravvento.
Allora chi nel camper, chi nel sacco a pelo o dove possibile avevano depositato i loro corpi provati.
Dopo tali eccessi, Stiore poteva essere il posto giusto per rifocillarsi e riprendere le forze.
L'altro gruppetto sarebbe arrivato da Bologna.
Michele e la Cami erano da poco tornati da un giro in bici e tenda fino in Calabria.
Più di mille chilometri di avventura.
Abbandonati all'occasione pura e all'ospitalità casuale.
La festa di Stiore era un pretesto per riprendere insieme a pedalare.
Non solo.
Viaggiare in bici è anche un modo per affermare una scelta di vita differente e più sostenibile.
In fondo la macchina crea naturalmente una distanza.
Ti chiude in uno spazio protettivo.
Tu puoi vedere fuori e essere in parte nascosto dallo sguardo altrui.
Un po' come nei safari o al limite al cinema.
Lì è la pellicola a cambiare gli scenari.
Con la macchina sei tu a spostarti dentro.
Alla fine il risultato è lo stesso.
Con la bici invece è differente.
Si è più immersi nel contesto.
Non ci sono barriere di lamiera e di vetro.
Ci si vede negli occhi.
Anche se per un piccolo istante.
Senti i profumi e i rumori.
Inoltre può capitare più di frequente di smarrire la strada e essere costretti a chiedere informazioni.
Così diventa più naturale arrivare alla connoscenza di quelli del posto.
Se poi si è curiosi e desiderosi di sfidare la sorte, e si ha anche la sensibilità di cogliere al volo le situazioni giuste, si possono fare tanti incontri interessanti.
In fondo quando si va in questi posti in culo al mondo il gioco è abbastanza facile.
La domanda e l'offerta si incontrano facilmente.
Tu cerchi calore.
Loro buone nuove.
E tu porti quel tocco colorato all'interno della loro routine quotidiana.
Il tutto senza esagerazioni.
Se no si crea facilmente incomprensione e disturbo.
In questo senso la bici mantiene basso il profilo, esprimendo un certo stato di precarietà e di bisogno.
Per chi ti sta davanti viene naturale accoglierti e accudirti.
Se poi ritorni, sei subito riconosciuto.
Sei quello giunto in bici.
Vestito un po' strano.
Con i capelli lunghi spettinati dal vento.
Una strana borsa davanti al manubrio come la bisaccia dei viaggiatori del passato.
Per quanto puoi portare via, sarà sempre poco.
Perciò non sei temuto.
E poi se si è nella stagione giusta sfrecciare per le strade di campagna è come passeggiare in un piccolo Eden.
Lungo il ciglio della strada trovi di tutto.
Dalle ciliegie alle mele.
Dalle more alle prugne selvatiche, quelle un po' aspre.
Ma anche uva, nocciole, noci e castagne a seconda del periodo.
Così dopo aver pedalato per un po', quando comincia a affiorare la fatica, ti fermi davanti a tali prelibatezze.
Semplicemente allunghi la mano e ti rifocilli.
Quando sei stanco e affamato poi, tutto ti sembra buonissimo e allettante.
In ogni caso i prodotti presi dalla pianta sono più saporiti e genuini di quelli comperati in qualche supermercato.
In questo periodo la natura non è troppo avara e ci si può soddisfare con ciò di cui si ha bisogno.
A volte quando ci si spinge più in là verso la montagna si può arrivare in certi caseifici artigianali.
Allora a prezzi modici si può portare a casa anche del buon formaggio.
Almeno lì hai la possibilità di vedere di fianco le vacche al pascolo e un po' ci si sente garantiti.
Per concludere.
Se si riesce a concepire il giro in bici non solo come una performance atletica o un momento di sfogo, si possono fare tanti piccoli incontri fortuiti.
Un po' come se si fosse in viaggio sebbene a uno sputo da casa.
È vero non ti cambiano la vita.
Però se ci si lascia andare qualcosa di sorprendente accade sempre.
Quel lato epico celato anche in queste piccole esperienze alla fine viene fuori.
E quando meno te lo aspetti.
Basta essere ben disposti.
Cioè disimpegnati da tutto.
Dal lavoro, dagli affetti, dai sensi di fallimento o dal voler arrivare chissà dove a qualunque costo.
In fondo anche questo è un modo piacevole d'oziare.
Ovviamente nella sua accezione alta.
Come quella formulata dagli antichi.
Ma tornando a noi...
Quel giorno c'era anche la festa del vino a Calderino.
Un paese lì vicino.
Era quello l'evento clow del fine settimana.
Lì sarebbe confluita tutta la gente della piana.
Attirata dal nettare degli dei come le api dal miele.
Eppure si era optato per la piccola festa di Stiore, dedicata a sant'Egidio.
Un giusto equilibrio tra il diavolo e l'acqua santa.
Anche per continuare la tradizione dei don Camillo e don Peppone di turno. Sebbene qui più pacificati e spesso a braccetto insieme.
Stando al volantino ciclostilato, alla mattina si comincia con le laudi mattutine.
Poi c'è il torneo di burraco e la messa.
Una dietro l'altra tutto d'un fiato fino al pranzo gestito dall'associazione culturale del luogo.
Dopo il caffé ancora burraco, la tombola e i balli medioevali.
Nient'altro?
A i vespri.
Per chiudere la giornata ringraziando le divinità autoctone qui ancora vive.
Anche perché la vallata sembra un piccolo protettorato del paradiso in terra. Preservata da tutte quelle calamità metropolitane così caotiche e perturbanti.
Per questo non è difficile vedere affiorare il sorriso nel volto di quelli del luogo.
Nella loro semplicità sanno trasmetterti calore e affetto.
Basta uno sguardo, un piccolo gesto e ti senti subito in sintonia con loro.
Qua i ritmi sono differenti dal tram tram quotidiano e la gente non è stressata.
In più il vino è quello buono.
Direttamente prelevato dalle botti del contadino.
Al bar, non ci si arrovella certo a come fare la cresta sul pellegrino di turno.
Un bicchiere di cabernet o di pignoletto costa solo settantacinque centesimi.
Record per ora battuto solo dal mitico ritrovo degli anziani di Castelbellino.
Nelle Marche.
Lì un bicchiere di verdicchio alla “spina”, prelevato ingegnosamente dalla damigiana e refrigerato al momento, lo si prende a quaranta.
Senza parole.
Come si diceva, lo scopo non è arricchirsi.
Piuttosto si prova a vincere la ripetitività della natura.
Allora ci si stringe fianco a fianco tutti insieme.
Magari bevendo un sorso di vino sotto l'ombra del portico antistante il bar del circolo culturale.
Quando si entra dentro si vede subito sulla sinistra un banchetto di libri.
Anche per non tradire una certa vocazione culturale.
I libri sono di seconda mano.
I titoli se ci si avvicina un po' di più possono sorprendere.
Ma sono la fotografia più autentica di un'Italia anfibia.
Quella silenziosa dedita umilmente a portare avanti tutta la baracca.
Di certo non è esposta al vento travolgente dell'ultima novità di mercato.
Oltre a trovare romanzi gialli e d'amore appassionato del tipo nove settimane e mezzo fa bella mostra anche Manzoni con il suo libro più famoso.
I promessi sposi.
Incredibile.
Un libro normalmente dato al macero dopo il filtro scolastico tritatutto.
Oggi la “libreria” è stata spostata fuori sulla piazzetta antistante insieme alle altre bancarelle.
Lì si possono trovare vestiti e bigiotteria di ottima fattura e a prezzi stracciati.
Ripeto lo scopo non è quello di guadagnare.
Ma è solo il pretesto per incontrarsi, parlare insieme, conoscersi, fare battute, spettegolare un po' ma senza malizia.
Anche per rendere un po' più memorabile la giornata.
Il tutto funziona.
E si viene contagiati piacevolmente da questo spirito magico senza troppi effetti speciali.
Qui ci si commuove con poco.
Ma è l'essenziale.
Per questo non c'è bisogno di musica urlata come sfondo.
Al massimo si sente il vociare della chiacchiara paesana, qualche risata, il rumore degli oggetti spostati e dei bicchieri.
A commuovere è lo stringersi insieme come si stesse davanti al focolare del salotto buono del paese.
In effetti ogni cosa è ordinata e pulita.
Il tutto mette di buon umore e predispone all'apertura.
Di fianco alla tavolata del pranzo c'è anche un biliardino.
Ovviamente non occorrono monete per gareggiare.
Chi vuole può cimentarsi.
Ricordandosi che si è in collina.
Così il campo pende un po'.
Però basta farci l'abitudine.
Tutto è fatto per gioco.
Non a caso i giovani del paese si divertono a portare le succulenti pietanze locali, compreso il friggione
Il tutto con delicatezza e leggerezza.
Insomma bravi ragazzi impegnati a svolgere al meglio il loro compito.
Grazie a loro, polenta e stracchino, lasagne al ragù, carne ai ferri giungono a destinazione nei tavoli numerati.
Ce ne sono una quindicina.
Ma tanto basta a soddisfare la richiesta dei commensali.
Alla fine tutti riescono a trovare posto.
E poi per chi volesse strafare...
Crescentine e tigelle dopo le quattro.
Imperdibili!
Nonostante il chilometro di salita ripida lì ad attenderci subito ai piedi di Monte Oliveto.
Vabbè meglio non pensarci.
E farsi un'altro bicchiere di cabernet.
Non prima di aver partecipato all'immancabile tombola e ai balli medioevali francesi.
Un modo per poter mostrare sotto tanta semplicità anche un lato nascosto raffinato.
Spiazzanti!
Tra quei campi di uva e di ciliegie sembra essersi realizzato miracolosamente quel connubio tra cielo e terra all'apparenza impossibile.
Almeno per questa domenica.
Nonostante la pioggia pomeridiana abbia provato a rovinare tutto.
A monito per gli altri giorni a venire...

giovedì 19 agosto 2010

Turista non per caso

Essere turista in un piccolo paese montanaro abruzzese vuol dire appartenere a una categoria precisa di essere umano.
Innanzitutto non esiste sempre.
Va e viene a seconda del periodo.
Lo trovi soprattutto d'estate.
Ma anche a Natale e Pasqua, nei fine settimana soprattutto quando c'è il sole e ci si avvicina alla bella stagione.
Abitualmente il repertorio di azioni a lui associato è abbastanza esiguo. In ogni caso sono tutte riconducibili alla particolare condizione dello stare in vacanza. Ovvero in quello stato di ozio visto come svaccamento o anche come ricerca compulsiva di eventi per l'appunto turistico-culturali. Il tutto dalla mattina alla sera, per un tempo indefinito, di solito un paio di settimane, a volte anche per un mese, più di frequente per una manciata di giorni.
Nel primo caso il turista è propenso a non fare granché.
Può riposarsi a casa, in albergo, sulla spiaggia del lago o in qualunque posto adeguato per parcheggiare il proprio corpo tendente naturalmente alla stasi o al limite a una serie stereotipata di movimenti lenti. Per esempio può muovere un braccio per afferrare un drink o sollevare gli occhiali per mirare con cupidigia sempre le stesse identiche cose.
Comunque di solito va per la maggiore l'opzione di passare ore e ore immobili a crogiolarsi al sole, girandosi di tanto in tanto sopra la superficie d'appoggio occasionale come allo spiedo. Magari sorseggiando lentamente una bevanda fredda o sgranocchiando qualche prodotto tipico.
In ogni caso lo vedi in giro la sera quando si appropinqua alla piazza del luogo prescelto per abbandonarsi stanco in qualche sedia di bar o in una panchina.
Se gli va bene, qualcuno provvede a riempirgli la serata con un concerto, un piano bar, una lotteria o una sagra di paese. In fondo però non è così importante. Tanto per lui sarebbe lo stesso. A contare è lo stare lì a fare niente o quasi. Che so chiacchierare del più e del meno tra una birra e un sorbetto, oppure trascinare a rilento un ipertecnologico passeggino...
A questa figura di turista fondamentalmente inattiva e passiva si oppone il turista curioso e dinamico, a volte fino all'eccesso. Sempre desideroso di conoscere qualsiasi cosa. Quando raggiunge il suo scopo spesso si lascia andare a esclamazioni estasiate del tipo:
Bello...
Oohhh...
O altri mugugni similari.
Per arrivare in tale stato è pronto a spingersi dappertutto senza alcun ritegno.
Nulla deve sottrarsi al suo sguardo.
Ogni luogo va marcato e catalogato attraverso lo scatto di almeno una foto. Magari abbinandovi anche la propria figura per attestare la propria presenza agli amici.
La foto, nella sua staticità cronica, è riuscita a imporsi come supporto ideale per conservare la memoria di quegli eventi occasionali, conferendo loro la categoria dell'eternità.
In ricordo delle generazioni future si potrà attestare: Io c'ero. Anche quando quell'Io materiale si sarà dissolto in un: Egli c'era, e poi in un'entità ancora più astratta e ideale. Una pura virtualità dai connotati spesso impalpabili.
In ogni caso la piazza centrale diviene il punto di contatto delle due diverse categorie di turisti. Il luogo in cui si accordano e provano a convivere pacificamente.
In fondo non sono così dissimili. In quanto incarnano due facce della stessa identica medaglia, quella del lavoratore medio in vacanza con la famiglia al seguito. Anzi quel momento particolare diventa l'occasione sociale per esibire i propri capolavori.
Che so il prodotto di unioni oggi sempre più precarie. Oppure sé stessi dopo estenuanti cure maniacali necessarie per ben apparire. E quando ciò non basta si può sopperire alle presunte mancanze con bigiotteria colorata, magliette con scritte, pantaloni con ricami floreali, qualche tatuaggio e via dicendo.
Se va bene, si può arrivare anche alla conoscenza più approfondita dei propri simili, magari davanti al bancone della gelateria o grazie all'incontro scontro di passeggini occupati da pupi ben vestiti e compostissimi.
A volte galeotto può essere la passeggiata con il cane.
In questo caso lo sforzo da compiere è minimo.
Non sei più tu a dover scegliere.
Fa tutto lui.
Scodinzola, si avvicina o abbaja e ringhia secondo l'intensità dell'odorato, degli ormoni in circolo, del sesso.
L'unico inconveniente è l'essere consegnati in balia del destino e della natura, spesso cieca.
Ma non va sempre male.
Alla fine qualcuno o qualcosa di interessante lo si trova sempre.
Un giorno qualunque d'agosto passò per caso un tipo strano.
Non guardava i monumenti e comprava poco.
Passeggiava con gli altri ma tirava diritto senza cercare scritte storiche o insegne di macellerie ovine o di panificatori artigianali di dolci.
Teneva con sé un piccolo zaino da lui inseparabile.
Dopo aver preso un café al bar popolare, quello di solito frequentato dagli oriundi autoctoni del paese, continuò il suo girovagare.
Non si capiva bene cosa cercasse.
Alla fine trovò anche lui il suo posto.
Una panchina all'ombra sulla via principale tra due auto parcheggiate.
Si tolse lo zaino.
Lo aprì e estrasse una busta trasparente.
Per strada non c'erano più tanti turisti e nemmeno la gente del posto. Si era giunti infatti a l'ora della siesta o della pausa café come preludio per una eventuale pennichella pomeridiana.
In giro c'erano solo pochi fanciulli intenti a giocare con il niente.
Due di essi, lì nei paraggi, per un attimo si fermano incuriositi da quell'evento eccezionale.
Ei ma che fa quello?
Che cosa avrà mai tirato fuori dallo zaino?
Senza farsi notare fanno finta di continuare la passeggiata.
Poi alla prima occasione quella più vicina si volta di scatto e getta un'occhiata veloce.
Troppa è la curiosità per resistere.
Il viso luminoso e un po' sfacciato e lo sguardo tirato fino al limite ottengono il premio tanto cercato.
Dentro la busta trasparente si intravedono dei libri, dei fogli di carta, ma anche una penna verde e un evidenziatore.
Si sono due libri, però di quelli mai visti prima.
Eh no... non si tratta delle solite guide turistiche, né di mappe dettagliate di sentieri montani o di strette viuzze del paese.
Lo strano tipo li prende entrambi.
Comincia a leggerne uno per un po'.
Poi passa velocemente al secondo, aprendolo in mezzo, in una pagina ben precisa, per tornare funambolicamente all'altro.
Di colpo prende della carta bianca e comincia a scrivere quasi senza fermarsi più.
Nel mentre passa lì davanti una giovane ragazza down.
Deve cercare qualcosa in auto.
Supera il tipo senza dire nulla.
Ciao... si sente dire.
Risponde immediatamente... arrivederci... e poi sorride.
Intanto dalla finestra sopra la panchina si sente urlare in dialetto:
Melissa!
Ti chiami Melissa?
No... Melisa con una esse sola.
Dopo aver rovistato a lungo in macchina senza trovare nulla ritorna a casa.
Questa volta è lei a salutare.
Ciao!
Ciao...
Il tempo continua a passare ma quel signore non fa una piega.
Di solito i turisti stazionano lì per un po'. Che so per bere una coca, mangiare un mostacciolo, per consultare le carte da viaggio.
Poi però si alzano e riprendono il cammino.
No, lui invece sta lì quasi immobile, rapito da quei libri come se tutto il resto non esistesse.
Le due fanciulle a braccetto tornano indietro da dove erano venute.
Questa volta senza dire nulla si dirigono decise verso la stessa panchina e si seggono al suo fianco.
Parlano tra loro di altri fanciulli.
A un certo punto alla vicina di quel turista anomalo spunta fuori un cellulare color ciclamino.
Cerca una foto per mostrarla all'amica.
Il ragazzo, sospesa la lettura, dopo aver assistito in silenzio alla scena prova a conoscerle:
Ciao... siete di qui?
Si, siamo di qui.
Non c'è molto da fare, vero?
Già...
I più grandi si trovano di solito ai “giardinetti”.
Ma noi non siamo così grandi...
E tu sei un turista?
Un attimo di pausa prima della risposta, poi:
Beh... forse... ma non solo...
Non del tutto convinta dalla risposta, dopo aver giocato per un po' con la mascherina del cellulare mostrando una notevole abilità, di scatto si alza con la sua amica.
Legate indissolubilmente a braccetto continuano il loro girare spensierato in cerca di situazioni curiose.
Non prima di aver salutato con un sorriso.

sabato 14 agosto 2010

Maria tra gli avatar

Una ennesima nuova generazione ha deciso di dare una svolta.
Vuole cambiare il mondo dandosi da fare.
Stanchi delle parorole vuote e delle astrazioni inconsistenti si affidano alla forza poietica della creatività.
Però provando a essere meno invasivi e più rispettosi dell'alterità, qualunque essa sia.
Novelli Vulcano per temperamento, ma aggraziati nell'estetica, forgiano la materia grezza con la saldatrice e il flessibile solo per imprimerle una forma ludica. Espressione di una nuova dimensione estetica spesso votata all'ozio e all'inutile. Anche per affermare un valore puro al fare tecnico, liberato da quei vincoli lavorativi oppressivi capaci solo di inaridire quella vena creativa all'interno di oggetti feticistici.
È questo il modo di manifestare il loro livello potenziale in procinto di eslodere in mille nuove forme di vita post tutto.
Un po' sembrano mimare quelle figure stravaganti presenti in natura, come un pavone o un uccello coloratissimo intento in un difficilissimo corteggiamento. Così soltanto si spiegano i movimenti ricercatissimi dei fissati o il ciondolare sospesi in aria su biciclette altissime.
Pratiche del tutto incomprensibili se le si giudica a partire da ferrei parametri utilitaristici.
Invece è solo sforzo gratuito tramutato in sfarzo.
Quel lato misteriosamente estetico e riflessivo di una natura arcana.
Si divertono a assemblare carri bizzarri o bici a due piani lente e scomodissime. A patto però di affermare senza alcun compromesso una logica eco-sostenibile all'interno di ampi spazi transizionali.
A volte sono regressivi.
Spesso anche nostalgici.
All'apparenza sembra un ritorno ai minimi termini, all'oggetto povero spesso quasi informale.
Ma la loro ricerca di forme primitive e grezze è solo il punto di lancio per ridefinire nuove coordinate, nuove progettualità inaudite.
Allora riciclare assolve alla funzione di smontare a pezzi minimi il vecchio, per poi rimpiegarli nella costruzione di nuove entità complesse. Spesso facendo emergere nuove funzionalità.
In ogni caso tale decostruzione essenzialistica diventa il negativo dialettico per una nuova sintesi potenziale capace di centrifugare tutto senza scarti, anzi a partire da essi.
Con questi nuovi mezzi a due o più ruote provano a differenziarsi dalla massa informe.
Con essi si gettano nel mondo per nuove spiazzanti avventure.
E non è poi importante se da Milano a Parma ci si impieghi tre giorni.
Nella nuova era globalizzata post industriale, post lavorativa il tempo non si misura più secondo la prestazione più efficace o economica. A contare sono altri parametri virati ludicamente.
A sostenere tale progettualità c'è ora una nuova umanità.
L'ultima sul mercato della vita.
Giovani androgeni slanciati, dai corpi scultorei quanto sinuosi.
Vanno seminudi.
Hanno superfici spesso segnate da tatuaggi esoterici studiatissimmi, en pendant con l'abbigliamento.
Ma soprattutto esprimono una carica erotica nuova.
Sfacciata e aggraziata, adulta e infantile allo stesso tempo.
Che sia questa la generazione degli avatar incarnati?
Non sono avidi.
Piuttosto sono generosi e solidali con il prossimo.
La sincerità è per loro un valore.
Le loro parole, le loro emozioni esprimono senza filtri ciò che vivono.
Anche in questo provano a essere scoperti.
Senza troppe maschere reverenziali.
Forse sono troppo acuti o troppo ingenui, non l'ho ancora capito bene.
In ogni caso sono spesso laureati. Sebbene non disdegnino di sporcarsi le mani magari usando un trapano o un cacciavite.
Sono loro l'ultima avaguangardia di privilegiati a cui è toccato in sorte il destino dell'umanità?
Sicuramente sono più friendly e meno eccessivi rispetto i loro predecessori.
Sono attentissimi alla salvaguardia della natura al punto da farsene paladini.
Non disdegnano di essere vegetariani spesso fino al punto di convertirsi al veganesimo.
Tutto ciò pur di costruire un mondo nuovo più sostenibile.
Come potrebbero non piacere, nonostante tutto...

La svolta poietica

Di recente la ciclofficina ha operato una svolta epocale.
Una delle tante succedute in tutti questi anni.
Sebbene la più profonda e radicale.
I nuovi adepti hanno operato una sterzata decisa verso un'idea più funzionale e pratica. Si vuole in questo modo potenziare quei valori poietico-creativi necessari per raggiungere inediti obiettivi non solo artistici ma anche politico-sociali. Infatti, grazie alla sperimentazione di nuove alchimie tra progettualità e fare materiale si spera di far emergere da quel fondo originario indistinto, motore sotterraneo della vita, ulteriori forme esistenziali. Anche per ridefinire i precedenti rapporti tra potenza e atto
I primi a farne i conti sono stati i piccioni lì accasatisi.
Il nuovo ordine ha imposto un più stretto regime igienico.
E ora non c'è più spazio per loro.
A meno di nuove abitudini più consone al nuovo spirito.
Tale svolta è stata possibile anche grazie al connubio tra tre generazioni distinte.
Oltre i nuovi, c'è Francesco, l'ideatore del carretto simbolo in passato della ciclofficina e Franco, un pensionato torinese. Un uomo alto e magro, del tutto pacifico.
Franco è di poche parole.
Si esprime soprattutto attraverso il fare.
Il resto non conta.
Incarna a pieno la generazione post bellica, mossa dall'impellenza di ricostruire il mondo dopo l'ennesima distruzione.
Fornito di martello e cacciavite per lui nulla è impossibile.
Tali indiscutibili abilità non hanno messo molto tempo a contagiare tutti. In particolare nell'ottica di reinvestirle nella costruzione di complessi carri stravaganti.
Venuto meno il precedente ordine, in questa situazione di passaggio tutti hanno provato a portare acqua al proprio mulino. Prima che il nuovo corso si definisse con più chiarezza.
Così Francesco mosso dalla passione per i carri ha comprato all'insaputa di tutti un trapano verticale di precisione.
All'inizio si era rimasti un po' perplessi.
Però, man mano si è cominciato a apprezzarne le qualità, anche quest'acquisto oneroso ha assunto un senso preciso all'interno del nuovo spirito progettuale.
In ogni caso, la nuova ventata razionalizzatrice ha avuto l'effetto di ridisegnare in modo più funzionale la disposizione delle bici e del materiale precedentemente ammassato qua e là.
Ora tutto è più facile.
Ogni cosa sta nel posto giusto.
Franco e Michele si sono addirittura messi all'opera per appendere le bici al soffitto e fare spazio.
Una cosa inaudita e impensabile solo fino a qualche mese prima.
Eppure in tale naturale trasformazione uno strumento su tutti è stato motivo di discussione e di infiniti ripensamenti.
Il fatidico centraraggi. Un supporto su cui fissare la ruota per tirare i raggi con assoluta precisione.
Come tutti sanno coloro che mettono mano sulle bici, se ne può tranquillamente fare a meno.
Leonardo, la voce più autorevole della ciclofficina, non capiva il senso dell'operazione.
Ma non serve.
Ripeteva quando interpellato
Basta prendere un normale tiraraggi, un filo di ferro robusto fissato leggermente di fianco il cerchione e il gioco è fatto.
Eppure l'idea ha colpito la fantasia di tutti quanti per giorni.
Allora che si fa?
Si compra o no?
Sono cento euro e non è poco.
Per Gaz era un elemento essenziale.
Ma non solo per lui.
Alla fine, dopo alcuni giorni di ripensamenti, è venuto a galla il valore simbolico portato da quello strumento.
Messo lì in bella vista doveva dare il senso del nuovo corso a tutti i frequentatori nuovi e vecchi della ciclofficina. Una sorta di totem capace di esprimere a chiare lettere lo scarto con il recente passato.
Da oggi la ciclofficina non è più quella di prima.
Basta con il caos e la sporcizia.
Se si era imposto come strumento immaginario era perché con esso si voleva indicare l'eventualità di un ulteriore ordine possibile. Una nuova perfezione raggiungibile. La quadratura del cerchio lì a portata di mano.
Quella deviazione standard da tutto incarnata in precedenza, sintomo di una insufficienza esistenziale radicale, era stata definitivamente riassorbita in una nuova sintesi, potente e allo stesso tempo inquietante. Anche perché non ancora del tutto manifesta nelle sue conseguenze.
Un nuovo mondo era pronto per il varo, nonostante le tante incertezze da sfatare. Tutto ciò, in nome di nuovi valori estetico-funzionali e di ulteriori equilibri relazionali.
Per la prima volta la ciclofficina dell'Ex-m, da sempre una meteora indecifrabile all'interno dell'universo delle ciclofficine italiane, assumeva una connotazione più definita.
Di certo più efficace e pragmatica.
Al prezzo però di una normalizzazione tutto sommato ben accetta ai più. In quanto ora era più identificabile e riconoscibile.
Però, al di là degli indiscutibili vantaggi, qualcosa di indecifrabile e di sottile era andato perduto da quando di punto in bianco tutto era cambiato in modo irreversibile.
In pochi avevano notato le differenze.
Come se non ci fosse mai stato nulla di diverso prima.
Nessuno si era lamentato o aveva nutrito nostalgie particolari per il passato.
In fondo a contare più di tutto era forse solo la possibilità di poter portare ancora a riparare la propria bici.
E questo tanto bastava.

Una questione di freni

Elisabetta aveva ora la sua prima fissa.
A Bologna non c'erano tante ragazze a poterla esibire.
Di certo se non fosse stata con Gaz, l'idea di montare una fissa forse non l'avrebbe neanche sfiorata.
Infatti, non è certo il mezzo adatto almeno per chi vuole andare in giro con le classiche gonne lunghe colorate. Sicuramente bellissime ma poco funzionali se si vuole essere un'amazzone su di una bicicletta.
Comunque, grazie al duro e preciso lavoro di assemblaggio di Gaz, alla fine si era trovata anche lei a sedere sopra la sella sofisticata di una vecchia bici con la canna color ruggine trasformata in fissa. Ovvero senza freni e con il pignone fisso, cioè continuamente in tiro come nelle biciclette da pista.
Di solito per evitare danni collaterali, i meno fissati montano preventivamente al centro del manubrio un freno per riuscire a fermarsi in tempo in caso d'emergenza. Però, secondo Gaz, la linea pulitissima ne risulta indubbiamente compromessa.
Ma non è tutto.
Per imparare a utilizzarla senza remore, l'uso del freno può limitare l'affinamento di quella sensibilità necessaria per riuscire a guidarla nel modo più appropriato.
Ma sotto sotto il disappunto di Gaz celava qualcosa di più di più profondo.
A infastidirlo era la possibilità di compromettere l'essenza fondamentale della fissa. Ovvero quello spirito minimalista spinto fino all'osso, quella vocazione spartana allo stesso tempo aristocratica, capace di fare la differenza rispetto a un utilizzo solo banale della bici.
No, quel freno era intollerabile.
Un segno di decadenza verso quel modo di esistere ottuso e superficiale, tanto criticato.
A essere messa in discussione era tutto l'apparato utopico sottaciuto. Il senso implicito di un'ulteriore esistenza alternativa possibile messo in gioco in tutti questi anni di confronto serrato e curioso.
In fondo lo stare in supplesse al semaforo o schitare per fermarsi era per lui solo un modo per prendere le distanze da questo mondo consumistico irrispettoso nei confronti di tutte quelle esistenze desiderose di innalzarsi invece verso un apice inaudito, seppur sostenibile. Perché no, a partire da quello estetico. Anzi innanzitutto estetico, ben prima di qualsiosi altro piano del discorso. L'essere aggraziato come sinonimo di predestinazione. In quanto simbolo puro capace di esprimere un nuovo stile di vita in bilico tra una rigorosa disiplina ascetica e un disinvolto approccio materialistico senza dubbio edonista, aperto a cogliere i piaceri sofisticati della vita.
Pur nel rispetto della semplicità.
E senza eccedere in una ricerca perversa e onnipervasiva.
Provando invece a rispettare sé stessi, gli altri e la natura.
Non senza manifestare allo stesso tempo un evidente distacco aristocratico e un certo disagio verso tutti quegli esseri normali, troppo normali, così appagati nelle loro banali idiosincrasie di tutti i giorni.

P.s.
Alla fine, dopo mesi di discussioni e di rinvii, Gaz ha dovuto recedere.
Il freno fa ora bella mostra sulla bicicletta fissa della sua ragazza.
Così va la vita.

venerdì 13 agosto 2010

“La conversazione” nell'era digitale

Chloé venne un giorno d'inverno in ciclofficina.
Doveva aggiustare la sua bici olandese bianca recuperata nei paraggi di qualche cassonetto.
Il particolare accento esibito lasciava facilmente intuire l'origine.
Dopo un po' che si pistolava insieme attorno ai freni ci disse che era una giovane erasmus venuta dalla Francia per studiare musica al D.A.M.S.
A un certo punto, prima di partire si ferma.
I suoi occhi marroni si illuminano come se avesse scoperto chissà cosa.
Ci guardiamo intorno perplessi senza essere colpiti da nulla di particolare.
Boh...
Poi ci chiede gentilmente...
Posso fare delle registrazioni?
Ci guardiamo ancor più stupiti.
?! Certo...
Fai pure...
Allora estrae dal suo zainetto un coso rettangolare con delle cuffie professionali. Poi volgendosi circolarmente lo punta in tutte le direzioni, fermandosi verso quelle sorgenti di suono più interessanti. Tale operazione compiuta nel più rigoroso silenzio durò per un po' di tempo.
Incantati dal coso ci bloccammo tutti in contemplazione.
Per non disturbare, la respirazione si fece più lenta e silenziosa.
Scoprimmo alla fine che si trattatava di un sofisticato registratore panoramico di fabbricazione tedesca in grado di cogliere fedelmente i rumori contestuali. Per svolgere al meglio tale funzione aveva due microfoni convergenti a v, necessari per ottenere un effetto stereo, oltre a mille altre funzioni di difficile comprensione.
La digitalizzazione del mondo aveva trovato una nuova interprete. Mossa dalla stessa innocente curiosità di un fanciullo voleva dare voce a tutta quella realtà anonima ancora sconosciuta. Nella speranza di stanare in quelle fascie di herz liminari per la nostra soglia d'udito qualcosa d'imprevisto. Per donare un volto al rumore di fondo. Per individuare nuove soglie possibili d'esistenza ai confini con il paranormale.

mercoledì 4 agosto 2010

Nero vivo

Non essere centrato.
Stazionare fuori luogo.
Sentirsi inopportuno.
Senza riflesso.
Senza eco.
Si parla la stessa lingua.
Si frequentano i medesimi luoghi.
Ma sono solo segni vuoti.
Contenitori senza pareti.
Superfici liscie
di fogli increspati prima di essere gettati.
Fette di realtà inconsistenti
infrante da lamette affilate.
Sotto è solo nero pesto
adimensionale, indecifrabile,
senza superficie o profondità,
assenza amorfa.
Eppure, il vuoto si ricolma ogni volta.
Un nuovo fiat viene concepito.
Prima di essere abortito nel volgere di un istante.
Così ciclicamente.
Senza trovare pace.
Ricacciato a forza
in quel nero scabroso tutto avvolgente e divorante.
Fucina di possibilità impossibili.

mercoledì 28 luglio 2010

Mezzi vivi

Sentire l'urlo vitale dentro.
Un ringhio stridulo e dirompente emergente dal buio del caos magmatico e dalla lava nera incandescente.
Grida altra vita.
Pretende ulteriori possibilità.
Vuole assumere nuove forme.
In ogni caso percepisce insopportabile l'essere costretto nella materia amorfa putrida e vischiosa.
L'unica strada percorribile è quella della ribellione al proprio destino. Così gonfia i propri muscoli fino a dilatare le vene all'inverosimile. Poi inspira profondamente prima di esplodere tutto fuori. Vuole liberarsi da quelle resistenze che lo trascinano nel fondo della palude melmosa. Prima di essere inghiottito definitivamente nel pantano.
Non ci sta a essere fagocitato nel risucchio lento delle sabbie mobili.
Urla sbottando ulteriore tempo e chance.
Le pretende incondizionatamente.
Almeno fino a quando avrà ancora aria per respirare e un filo di voce per vomitare il suo dissenso non trattabile.
Prima di tornare a essere di nuovo solo materia silente e pacificata.

sabato 26 giugno 2010

Apocalissi ottuse

Fragile discontinuo
La debolezza è la tua potenza. L'ansia insopportabile la tua benzina vitale. Il tutto non senza insolenza e irriverenza. Le lacrime sono l'olio per far girare il motore a regime. Così munita ti addentrerai entro le gole strette verso l'ignoto per una ulteriore inaudita scommessa. Grazie a loro esploderai ancora di vita. Sebbene in forme ogni volta differenti.


Apocalissi ottuse
L'angoscia adolescenziale, l'ansia senza coscienza sono il motore della trasformazione. Tanto più efficaci e potenti quanto più disarticolate e caotiche. In quei frangenti innovazione e conservazione si sfidano fino all'ultimo sangue. Spostamento, fuga e disseminazione diventano l'attimo di contenimento regressivo ma anche opportunità rivoluzionaria. Momento e luogo transizionali, capaci di innestare cambiamenti profondi in grado di sciogliere lacci soffocanti o di ingabbiare in nuove prigioni. Il tutto senza progressione ma secondo una stadialità per salti. Una parola di troppo o uno sguardo eccessivo possono far virare inaspettatamente verso una direzione imprevista come il battito d'ali di una farfalla causare un temporale a distanza. In ogni caso si tratta di fare i conti, di tessere linee di giudizio e di confini nuovi. All'apparenza definitivi. Così ci si gioca tutto senza risparmio pensando di mettere a posto le cose per sempre. Anche per farla finita di tanta tensione snervante. Eppure un resto inevaso rimane sempre. Un tarlo corrosivo risorge ogni volta nonostante lo si provi a tacitarlo e al limite a rimuoverlo. Ma quel grillo sparlante, come una goccia stillante in un vaso già colmo, continua a mettere alla prova la superficie increspata del contenitore. È questione di tempo. Prima o poi le acque si romperanno. Un nuovo diluvio inonderà tutto. E allora chissà se ci sarà ancora un'arca a salvare qualcosa. Quei resti necessari per una nuova ricostruzione. A patto di sopravvivere ancora una volta. Solo se la fragilità esibità sarà compensata da un nuovo livello sfacciato e esuberante almeno della stessa potenza. Debolezza abissale e insolenza demiurgica a braccetto. L'una specchio incontenibile dell'altra. Facce della stessa medaglia con la quale al massimo si potrà scambiare altra vita. Ancora per un po'. Non per sempre.
Comunque nella più completa assurdità.

mercoledì 23 giugno 2010

Crolli

Non c'è preavviso.
Di punto in bianco tutto quello che pensi ti sia stato dato ti viene tolto.
Nessuno bussa alla porta o affigge locandine di avvertimento.
Magari i segni erano da sempre lì davanti al tuo naso ma si era troppo ciechi o illusi per fare due più due uguale quattro. Alla fine come all'interno di un terremoto ti svegli con la terra sotto i piedi tremante. Vedi le pareti del tuo mondo frantumarsi e polverizzarsi.
Poi, una volta terminata la scossa, rimangono solo le macerie informi, il caos disorganizzato, la polvere soffocante. Insomma il deserto. E non puoi più farci nulla se non mirare impotente il disfacimento. L'unica opzione ancora concessa è di partecipare meravigliato alla potenza spettacolare del crollo. Come si stesse davanti a un gigante con i piedi d'argilla nell'istante della caduta. Sapendo però di non essere solo spettatore ma allo stesso tempo quel gigante in frantumi in caduta libera. Quello a cui partecipi è la tua rovina e distruzione. E l'immagine di fronte sono solo le macerie residuali del tuo mondo e di te stesso.
Certo, non tutto finisce.
Qualcosa rimane ancora. Un nuovo mondo si sostituisce a un altro, sebbene tu percepisca di esserne estromesso. Un po' come avviene durante lo scontro tettonico tra le zolle della crosta terrestre. Nella continua opposizione frontale una parte si solleva fino in cielo, un'altra sprofonda sottoterra e scompare riassorbita dal mulino vitale macina tutto. In questo caso si entra silenziosamente a far parte del materiale amorfo di riciclo indifferenziato. Si ridiventa potenza pura sotto naftalina pronta per chissà quale inaudito riutilizzo. Magari fra cent'anni o più. Forse solo domani. Chi lo sa.
Intanto però si aspetta ibernati, come zombie viventi a cui è stato tolto tutto. Poggiati sul ciglio della strada come macerie ancora fumanti circondate dal nuovo che sopravanza e tutto ricopre ingurgita, trasforma imperterrito. Magari si ha la fortuna di cadere proprio sotto quei cartelli di divieto di scarico come resistenza passiva, come testimonianza contraddittoria residuale nonostante tutto. L'unica effimera rivalsa ancora possibile contro questa legge spietata del rinnovamento ciclico e della disseminazione cieca e occasionale senza preavviso, nonostante le pustole delle ferite e lo sporco incrostato della polvere. Si è diventati fantasmi, o forse lo si è sempre stati. Solo ora se ne prende coscienza.
E non c'è mediazione con il nuovo. Con il vincitore di turno. Al massimo puoi aspettarti l'onore delle armi in attesa di essere dimenticato. Magari ti viene concesso di adeguarti al nuovo eone. Ma ciò vuol dire accettare di diventare altro e andare contro sé stessi per un arresa incondizionata. C'è chi l'ha definita abbandono sereno. Sarà... In ogni caso si viene ridotti come l'orma gigante di quei dinosauri scomparsi chissà quando. Una forma di vita cristallizzata al massimo da capire e da studiare. Oppure si può essere più funzionalmente riutilizzati come concime organico per nutrire la vita che verrà. Niente più.
Sta di fatto che la vita ottusa non vuole saperne delle macerie e dei resti inermi del suo passato recente andato. Non lo sopporta e prova a rimuoverli. Perché sotto sotto sa che sarà anche il suo destino.

Il mulino di Amlethi

Oggi è una giornata storta.
La logica conseguenza dopo l'ennesimo crollo di un mondo.
Di punto in bianco tutto ciò in cui hai investito e con cui ti sei dilettato perde di valore e di senso. Diventa anonimo e indifferente. In questa situazione di lutto non puoi far altro se non ritirare i tentacolari investimenti ritraendoti in disparte. Derealizzando il mondo circostante e depersonificandoti. No, non si tratta di una ritirata, ma di un rifiatare. Un passo indietro per un nuovo balzo chissà verso dove. Intanto però resta la via della sospensione e dell'arresto momentaneo. Tanto in tale frangente non si potrebbe produrrebbe nulla di proficuo. Sto ancora riflettendo se la serpe insinuatasi strisciando sin dentro casa sia una manna dal cielo capace di pulire con il suo veleno i miei occhi accecati. Forse ora mi sono appropriato di una nuova visione della realtà a me prossima meno distorta e idealizzata. Comunque in mancanza di qualsiasi spinta motivazionale non voglio far prevalere un sentimento di stanchezza e di debolezza. Per questo provo a attivare in modo autonomo nuove energie grazie al movimento fisico. Così decido di fare un giro in bici verso i colli. Non troppo distante, per non smarrire il richiamo regressivo della casa alla fine sempre a portata di mano.
Prendo la strada per San Luca con sullo sfondo la chiesa della Madonna salvatrice dalla peste. Almeno stando alle tradizioni dei bolognesi disposti ogni anno a scarrozzarla a braccia tra la collina e la piazza cittadina andata e ritorno, toccando le quindici stazioni della via crucis lungo il cammino per un totale di circa cinque chilometri. Non sono certo bruscolini e senza allenamento adeguato voglio proprio vedere come ci si arriva a valle e poi di nuovo a monte. È la stessa strada percorsa dai fervidi pellegrini disposti a trascinarsi su per i gradini in pietra con le ginocchia nude. Per espiare qualche colpa o chissà per quale altro incomprensibile motivo. Comunque, nonostante l'era globalizzata, la società dello spettacolo mediatica, qualcuno si cimenta ancora in tale sforzo solitario senza troppi riflettori attorno.
Ho appena percorso ventun chilometri e quattrocento metri, sono a circa metà del cammino preventivato per oggi e prossimo al santuario.
Il cielo è sereno sebbene spazzato da un vento caldo capace di toglierti il respiro. Ma non demordo e tiro le moltipliche fino al limite.
Il santuario con la sua mole imponente è sempre più vicino.
Poche pedalate decise e sono già sotto. Vedo le mura rosse prossime e il porticato aperto come due braccia avvolgenti. Almeno per chi sta sotto.
Scollino.
Inizio la discesa e con essa divoro il porticato posto al mio fianco. Senza freni mi lascio andare come un corpo morto. L'aria fende la superficie sudata seminuda accarezzandola come una lama arroventata.
Lacrimo.
È ora di svoltare bruscamente e di attraversare il portico per cambiare lato di percorrenza. Da lì inizia il tratto più irto. La mitica salita, ops discesa delle orfanelle.
Si, oggi è proprio una giornata storta. Senza ombra di dubbio.
Sotto la volta stretta del portico mi fronteggia di colpo una macchina nera. È un Suv poderoso contro cui nulla posso se non spiaccicarmi come un moscerino.
Tiro i freni con forza.
Forse ce la faccio a fermarmi senza danno.
Le ruote posteriori si inchiodano, ma non sbando.
Nella frazione di un secondo le distanze si annullano.
Vedo i particolari cromati della macchina e i vetri scuri come specchi in cui infrangersi.
Screeeeeck.... Spuum!
Dopo pochi secondi la ruota esplode consumata dall'asfalto abrasivo come carta vetrata.
Non mollo e tiro ancora di più i freni.
Il metallo del cerchione sfiora l'asfalto producendo un rumore secco e penetrante come lo stridore del gesso sulla lavagna.
Mi sento rabbrividire e i peli si fanno irsuti.
Mancano pochi metri all'impatto.
Due... uno... la bici si arresta.
Anche per stavolta salvo.
Ci si guarda negli occhi.
Il guidatore al volante è raggelato ma non si ferma neanche un po'. Mi schiva e accelera come non fosse successo nulla.
Lui sopra il Suv.
Mi rimane solo l'odore dolciastro della benzina bruciata.
Ispeziono il danno.
Niente da fare.
Il copertone è andato, strappato come la carta crespa di un cioccolatino. Mi rimane solo da percorrere tutta la via crucis in discesa. Da bravo occasionale pellegrino contro voglia e contro la mia volontà. Per giunta a piedi nudi vista l'inadeguatezza delle scarpe da ciclista vecchio stile per camminare su strada.
L'asfalto è caldo e pieno di sassolini appuntiti.
Stringo i denti e i freni. Perché la discesa è irta e la bici nonostante sia in alluminio e in carbonio scivola verso valle più in fretta di me.
Seguo la fascia d'ombra rimasta di fianco al portico giusto per non abbrustolire le suole come due piadine.
Intanto la bici geme.
È il metallo del cerchione a non trovare pace, anch'esso insofferente per la superficie ruvida e rovente.
La temperatura aumenta.
Poi il portico devia in faccia al sole.
Non c'è più ombra.
Inizio a elevare le prime giaculatorie.
Dopo poco si trasformano in un autentico rosario.
Ogni passo sulla brace ardente fa partire un ave alla madonna. Così uno dopo l'altro sgrano i nodi della coroncina.
Alla fine arrivo a valle.
I piedi si sono riempiti di vesciche.
Oramai non riesco quasi più a camminare.
Posso solo poggiare la pianta sana dei piedi.
La camminata si fa sempre più irregolare e impacciata.
Ma non mollo.
I miei pensieri vanno verso tutti quei pellegrini volontari.
No non c'è bisogno di cercarsela.
La sfiga arriva comunque.
Basta avere pazienza.
Arrivo a destinazione ai piedi della collina. Casa di Emilio, il mio samaritano preferito. Ho modo di rifocillarmi e nutrirmi oltre di aggiustare il mezzo. Neanche mi trovassi in un'oasi nel deserto.
Troppa grazia per la madonna.

Il tempo che resta e Survivors

Il tempo che resta
La creatività giocata solo come modo fine a se stesso, per divertimento puro con i propri amici. Senza scopo se non quello della risata conviviale, dello stare insieme e del volersi bene. Affidati all'occasione pura, al momento propizio. Quel kairos irripetibile e irriproducibile oltre ogni simulacro o virtualizzazione possibile. Perché l'importante è essere lì per essere la cassa di risonanza di qualcosa di bello, per far emergere insieme un'armonia precaria flebile. Recepibile solo dai presenti se sintonizzati sulla stessa frequenza grazie a delle antenne sensibili.
Nel tam tam di segnali riflessi, inevitabilmente distorti, nella ridondanza di battute giranti a vuoto attorno al sottaciuto voler stare bene insieme, nell'accudirsi precario, in un breve frangente si genera quella sospensione spensierata e creativa. Ma anche quell'innalzamento capace di smuovere all'occorrenza le montagne. Però così, solo per gioco, senza voler danneggiare e offendere nessuno. Perché tutti, presenti o no, ne possano giovare senza distinzione di sorta. L'impresa come spettacolo discreto d'amore di attori inconsapevoli e senza volto. Prima di bruciare tutto senza nostalgia, diretti verso un'altra occasione o il nulla.
Il fare è solo pretesto.
La meta è solo una scusa per innalzarsi da qualche altra parte non prevista. L'inatteso è il risultato del mettere in atto queste energie potenziali nascoste. È questo il gioco di specchi capaci di trasfigurare l'immagine di sé verso orizzonti imprevisti e inauditi. Sapendo che ciò non è una prerogativa individuale ma la risultante di una interazione reciproca, di un gioco di squadra. Solo quando si solidarizza insieme si entra in tale nuova dimensione. Allora si veste i panni sottili di altre identità. Invisibili per i più, ma non per i presenti coinvolti. Eppure, nonostante tutto, qualcosa riverbera nell'aria e si diffonde contagioso. Alla fine si è tutti quanti catturati. Una piacevole sensazione emerge delicatamente ridisegnando gli equilibri locali. Per un po' nulla sarà più come prima. Altri sentieri invisibili si aprono e nuove dimensioni sembrano possibili.
Tutto questo può nascere solo partendo dalla constatazione di essere solo di passaggio, in viaggio ramingo all'interno di terre sconosciute. Inutile volerne fare la propria casa o volerne ridisegnare la superficie. Che so provando a definire obiettivi o luoghi da conquistare o da appropriarsene. Tanto vale invece lasciarsi contagiare e invadere. Ma non senza filtrare nulla. In ogni caso non si è nella totale mercè del fato, né spettatori solo passivi. Anche nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa, lasciando aperto lo spiraglio per un confronto con l'alieno, l'altro su cui siamo poggiati fin da quando abbiamo cominciato a muovere i primi passi. Certo è poco. Eppure anche in questo poco può nascere qualcosa di bello quanto di effimero e inconsistente. Un quasi nulla di cui però non si riesce a fare a meno. Se non cercare di riprovare ogni volta di riattivarne la magia grazie a quel flebile esperimento esistenziale al quale ci si lascia infantilmente andare. Ma non prima di aver dismesso i propri piani, i propri progetti. Denudatisi di tutto è allora possibile superare ancora tale soglia per rivestirsi di questa tenue veste, nuova e vecchia allo stesso tempo. Sapendo però che non sarà per sempre.


Survivors
Essere sopravvissuti vuol dire essere ancora vivi dopo innumerevoli prove. Dopo aver lanciato la sfida contro il mondo e ancor prima sé stessi. Non tutti alla fine riescono a raccontarla. Di solito si rimane in pochi, di solito non i migliori. La maggior parte in un modo o nell'altro si estingue, scompare e viene risucchiata irrimediabilmente.
Eppure era necessario tutto questo?
Al termine si scopre solo di aver giocato con la propria vita senza senso.
Se ne poteva fare a meno?
E chi lo sa...
Ai nuovi “volontari” pronti a imbracciare lo zaino in spalla attraverso i sentieri contorti della vita per gettarsi contro il nemico più terribile, sé stessi, cosa dire?
Ei novello don Chisciotte sei proprio sicuro di volerti scaraventare contro quei mulini a vento per provare a infrangerli come idola?
È veramente questo che cerchi?
O c'è dell'altro ancora?
Comunque vada, magari proprio a partire dalle macerie di quei crolli, puoi forse trovare ulteriormente qualcosa di più risibile e inconsistente eppure altrettanto vitale e imprescindibile. Il confronto empatico con l'altro sopravvissuto. Con il prossimo tuo sconosciuto da sempre al tuo fianco.
A volte per vederlo bene in volto occorre legarsi.
Innanzitutto per smettere di rincorre le sirene a cavalcioni del proprio mulo o della propria zattera. Oltre che per avere la possibilità di osservare di riflesso gli altri in preda a tale passione sfrenata e seducente.
Chissà...
No oggi non sarò io a dire cosa fare.
Perché non l'ho ancora capito, nonostante abbia vissuto assai e appreso molto.
Prossimo mio, spero ancora di averti al mio fianco per raccontarsela ancora e ancor più per battere nuove piste immaginarie ancora da vivere e da scrivere.
Tutto con il minimo sforzo.

giovedì 10 giugno 2010

Dinamismo puro

Le acque si rompono, la vita senza più resistenze comincia a sgorgare con forza. Allora si sente premere dentro sul petto una tensione decisa. Le immagini si fanno fitte a cascata ritmate dalle trombe dell'apocalisse. Dal suolo si sollevano marciando in fila tutte le ombre spente e seppellite del tuo passato.
È il momento della trasformazione redentiva.
Tutto collassa lì in quel punto isterico. Buco nero dove passato e futuro precipitano. Il fiato si sospende e la respirazione diviene più profonda e infinita. L'entusiasmo prevale su ogni altra emozione, i muscoli tirati per le briglie da una potenza autoalimentantesi si attivano. Il corpo si tende come una molla pronto a scatenarsi in una azione devastante. Le corde vocali cominciano a vibrare. L'aria immessa viene forgiata in urlo lacerante, bestiale e divino allo stesso tempo. Il tutto condensato nella frazione di un istante interminabile. Picco di vita all'ennesima potenza. Pulsione informe allo stato perennemente nascente. Pur resistendo in una immobilità assoluta.
Dinamismo puro.
Sospensione eccezionale.
Butto fuori l'aria.
I parametri vitali riacquistano lentamente i valori più usuali.
Tutto torna alla normalità senza più sussulti particolari.
La vita riprende a scorrere entro argini più tranquilli.
La piena è già riassorbita.
Le acque sono ora calme e di nuovo sotto il livello di guardia.

lunedì 24 maggio 2010

Ciclofficina (che fu?)

Anche oggi arrivano i pazienti.
Si è appena tirata su la serranda in ferro e già alcune persone occupano a caso i rispettivi lettini operatori. Dopo aver adagiato il malato incidentato consumato dall'usura, dalla vecchiaia come capita, si prova a riportare in vita il moribondo.
Per qualcuno è sufficiente qualche rattoppo frettoloso secondo la logica del “basta che cammini”, del “tirare a campare” ancora per un po'. Per altri, i più coinvolti e curiosi, si tratta di ridonare nuova dignità funzionale, estetica al proprio mezzo.
Non solo.
La ciclofficina, nonostante il nome dichiari apertamente la vocazione di officina per biciclette è qualcosa di più indefinito, di primordiale. Se ci si lascia catturare dal vortice caotico lì presente, diviene il luogo per sperimentare nuove emozioni, per concepire incontri imprevisti. Una fucina arcana di possibilità dove la bicicletta rimane sullo sfondo, un pretesto per vivere altro, per assaporare nuove sensazioni, per essere parte di qualcosa di difficilmente spiegabile.
È come partecipare a un rito tribale.
Fondamentale diviene abbandonare i propri abiti usuali per denudarsi fino in fondo. Allora si potrà entrare purificati nella vasca battesimale, nel fuoco iniziatico per partecipare della nuova dimensione esistenziale e spirituale.
Se vale la metafora dell'acqua, sarebbe più appropriato associare la ciclofficina a una palude melmosa affatto rassicurante.
Per chi viene per la prima volta lo choc dovuto allo scarto con il mondo fuori è abissale. Abituati a parametri igienico sanitari moderni sembra piuttosto di entrare in un vecchio lazzaretto fetido. Vedi rottami di biciclette dappertutto nonostante ogni volta si provi a ordinarli secondo un criterio minimo di funzionalità. Il caos vince sempre. Ogni tentativo di razionalizzazione viene inesorabilmente sopraffatto. È questa la legge non scritta della ciclofficina.
Oltre al disordine imputabile all'incuria umana, è anche uno spazio liminare tra il rigore cittadino e la natura selvaggia. Un luogo di mezzo indefinito dove cultura e natura si mettono in gioco per sperimentare nuove forme primordiali di vita. Spesso invece sono le vecchie a doversi adattare al nuovo ambiente degradato non senza incrementarne a loro volta il valore entropico.
Piccioni randagi hanno nel frattempo messo casa. Poggiati su decrepiti piloni di cemento armato del vecchio mercato ortofrutticolo corrosi dall'umidità, dalla muffa non disdegnano di segnalare con messaggi espliciti la loro presenza. Più spesso si divertono a dipingere la superficie del tavolo di lavoro verde formica con spruzzi bianchi come novelli Pollock. Perché poi proprio lì? Sul nostro posto preferito per rivitalizzare i cadaveri a due ruote. Come se a nostra insaputa dessero luogo a una ciclofficina segreta una volta usciti tutti gli umani.
In fondo i loro residui non sono poi tanto differenti dagli scarti dei frequentatori a due ruote. Lattine di birra schiacciate, pezzi di bicicletta di ogni tipo e dimensione sparsi come l'acqua santa. Dappertutto. Dove volgi lo sguardo puoi scoprire qualcosa. Una sfera del movimento centrale, una guaina dei freni, un pedale storto, un raggio inutilizzabile, un nipple. Se ti va bene, puoi anche trovare tra tanto materiale disseminato qua e là una sella vecchio stile o una ruota da corsa di ottima fattura.
Avendo di fronte un muro di oggetti informe e rumoroso, solo i più bravi interpreti riescono a decifrare i segni apparentemente insignificanti, a cogliere differenze, valori utili. Per districarsi agevolmente in tale foresta caotica apparentemente amorfa, spesso occorrono anni di pratica, una sensibilità non comune, ancor prima una curiosità smisurata.
Superato l'impatto si paventa un nuovo ordine di problemi. Già dopo pochi minuti di apertura quasi si fosse alle poste o in un grande ipermercato metropolitano, una marea di persone con il malato appresso si riversa nell'angusta sala operatoria. Ognuno è intento a ricercare il luogo migliore per prodigarsi nelle cure. Tutti gli spazi a disposizione vengono occupati compresi i normali corridoi di circolazione. Il contatto con il vicino è all'ordine del giorno. Ci si tocca, ci si ostacola a vicenda nella più completa indifferenza e bonarietà. Come fosse del tutto naturale. Allora ci si ferma un attimo. Dopo aver ripreso l'equilibrio perduto si continua tenacemente a andare avanti con il lavoro.
Bisturi!
Bisturi!
C'è un caso urgente...
Ma il bisturi non arriva.
I mezzi a disposizione della ciclofficina sono del tutto insufficienti a soddisfare la domanda.
I più intraprendenti si mettono alla caccia dello strumento.
È una questione di vita o di morte.
Una volta intravisto ci si piomba come un falco.
Nel modo più gentile possibile se ne appropria.
Quando ciò non è fattibile ci si affida ai mezzi di fortuna lì a disposizione. Non senza dare spazio alla propria creatività. Spesso con risultati sconcertanti del tutto imprevedibili. Può capitare di vedere una bici poggiata sul trespolo a testa in giù come non avresti mai immaginato. Eppure il tutto è funzionale, nessuno dice nulla.
Normalmente le persone presenti non hanno mai messo mano sul mezzo così sono costrette a improvvisarsi come meccanici occasionali. In tali frangenti sembra di assistere a scene di soldati volontari mandati allo sbaraglio contro un nemico invisibile.
Fortunatamente non tutti ci lasciano le penne.
La maggior parte riesce a portare a termine la propria missione.
Solo bisogna armarsi di santa pazienza e umiltà.
Stando tutti nella stessa barca viene naturale la solidarietà reciproca.
Ei... come si avvitano i coni delle ruote?
Ho una ruota storta...
È possibile raddrizzarla?
All'inizio chi veniva in ciclo pensava di essere assistito direttamente da valenti chirurghi. Bastava affidare loro il paziente, attendere con fiducia in sala d'aspetto per vedersi riconsegnare tra le mani il mezzo di nuovo attrezzato per affrontare le insidie quotidiane.
Ma qui non funziona così. Per rianimare la propria bici occorre cimentarsi direttamente con i problemi contingenti, sporcarsi le mani. Solo così è possibile carpire in profondità la logica dei meccanismi necessari per far camminare silenziosamente la bici ancora una volta.
Non si delega a nessuno.
Ognuno è responsabile del proprio mezzo.
In ogni caso occorre lasciarsi immergere totalmente in tale dimensione, addentrarsi fiduciosi senza pregiudizi.
Alla fine qualcosa succede.
Dopo l'iniziale buio, l'immancabile confusione se non ci si lascia vincere dal panico, dall'angoscia, dal vuoto, da sentimenti di impotenza destrutturanti, in fondo al tunnel una lumicina alla fine si accende. Il sole anche di notte. L'ultima luce residuale ancora possibile.
Allora scatta qualcosa. Le tessere del puzzle oramai sul punto di essere scaraventate via disperatamente cominciano miracolosamente a incastrarsi. Piano piano emerge il codice necessario per dare senso al tutto in modo funzionale. Il consiglio del vicino, gli interrogativi sorti nei precedenti tentativi falliti, l'aiuto diretto di qualche samaritano pronto a sorreggerti anche durante la terza fatale caduta danno i frutti insperati. Dopo ore di tentativi a vuoto si imbocca la strada giusta. Alla fine i conti tornano.
In questi frangenti la soddisfazione diventa impagabile quasi si stesse toccando il cielo con un dito. Di colpo tutti i ricordi spiacevoli dovuti agli insuccessi spariscono. Ricompare il sorriso, gli occhi cominciano a brillare di nuovo. Allora, non prima di un profondo respiro a pieni polmoni, ci si rituffa nel giochetto con lo stesso entusiasmo di un bambino.
D'un tratto ti viene la battuta facile, si scherza.
Qualcuno tira fuori una bottiglia di vino.
Appare del pane fatto in casa.
Inizia la festa, la condivisione spontanea.
Si comincia a dialogare, a conoscere il proprio vicino.
Il tutto diventa contagioso.
Anche quando si sono concluse le operazioni si rimane lì per narrare le proprie gesta, le difficoltà sostenute. Confrontandole con quelle del vicino anch'esso alle prime armi.
Pian piano la gente sfolla.
Il buio è oramai sceso non prima di aver restituito nel cielo terso di primavera una luce crepuscolare intensa, variegata di sfumature. Segno della potenza sublime, misteriosa della natura.
È ora di chiudere.
Dopo aver riposto gli attrezzi immancabilmente abbandonati un po' da tutte le parti, tolti gli ostacoli più ingombranti si spegne l'interruttore, si tira giù la serranda.
Il micromondo emerso da tale caos si sospende fino alla prossima apertura non senza attesa e trepidazione.

sabato 3 aprile 2010

Simbolico
“Sumballo in grego significa non mettere insieme, ma far coincidere. Piuttosto, a definire la nozione di simbolo è la specifica organizzazione tra il tutto e le parti. Nel symbolon, la parte sta per il tutto: un pezzo della tessera sostituisce non solo l'altro pezzo della tessera, ma questo il punto, rimpiazza la tessera nella sua interezza. Proprio perché simbolico è relazione tra le parti e le parti sono nulla senza questa relazione, una parte non solo rappresenta ma è l'altra: quel che conta è il loro reciproco scambio” (pars pro toto, due in uno).
Simbolo sta come qualcosa per qualcos'altro che non c'è più. A causa di ciò l'unità simbolica ricreata porta con sé l'odore della morte alla quale si oppone, ma allo stesso tempo la conserva immunitariamente in quanto antidoto artificiale. Infatti l'atto simbolico è possibile solo a partire da una negazione originaria che lo fonda e lo presuppone. E il nuovo però rimane legato a qualcosa che si è perso, rifondandolo, cioè mettendo insieme i residui, i frammenti di quello che rimane. Si tratta insomma di una operazione per certi versi metonimica, nel senso che i frammenti sono la parte (residua) che dovrebbero sostituire il tutto perduto, per un nuovo tutto restaurato, salvato, trasfigurato. In questo senso presuppone una sublimazione cioè un superamento dialettico, alla fine uno spostamento però al massimo all'interno di una somiglianza di famiglia. Sapendo però che quello che è andato perso lo è per sempre. Sebbene lo si provi a esorcizzare tramite il rito, il linguaggio, il sogno. Il Reale è quella dimensione pre-immaginaria (indicale?) e pre-simbolica perduta per sempre. Con Reale si può intendere qualsiasi cosa originaria, come la dimensione naturale da cui deriviamo, l'animale che lascia spazio alla dimensione umana, la madre come oggetto del desiderio irrangiungibile. In questo senso il simbolico è la strategia magica operata dal desiderio per superare un lutto, una mancanza apparentemente irrecuperabile. Sia nel senso di una sostituzione per somiglianza e contiguità, ma anche nel senso di riportare in vita, alla luce, far nascere di nuovo. Hegelianamente parlando si potrebbe considerare come l'istituzione paradossale dell'identico del non identico. Cioè del superamento di qualcosa perduto forse irreversibilmente attraverso una copia o un simulacro. Comunque si è già all'interno di una dimensione cronica che divora i suoi istanti. In questo senso il “male” è il dilagare della morte e del ritorno al caos come indeterminato che va continuamente reidentificato e reindiviualizzato sistematicamente all'interno di un flusso di coscienza in questo caso discontinuo.


Dialettica e indeterminazione
Il livello di non contraddittorietà di una teoria viene testato dalla successiva che la sostituirà, se risulterà ancora più forte di quella precedente. Più forte è da intendere nel senso di più esaustiva e controllabile.
Eppure all'interno di ogni livello raggiungibile rimane un punto di indeterminazione ineliminabile, cioè un momento di indecidibilità sugli assiomi stessi che lo fondono e sul suo valore di non contraddittorietà che ogni volta lo rimettono in discussione. Tale residuo obbliga il sistema a una ulteriore verifica e comunque a una messa in discussione. In ogni caso ciò lo porta al crollo momentaneo, smascherandone, cioè mettendone a nudo i limiti e le irrisolvibili contraddizioni, obbligandolo a ricercarne un eventuale superamento. Si genera così un elemento di dinamismo che costringe il sistema stesso a un continuo trascendimento. In quanto ricerca di un punto di vista superiore, cioè onninglobante e sistemico capace di appianare le idiosincrasie rivelatisi. Questa in breve è la dinamica della dialettica del divenire dall'uno al due e viceversa. Questo punto cieco della conoscenza, spesso generatore di “dissonanza cognitiva”, non sembra lo si possa evitare. Infatti, una volta focalizzato, attiva tale processo in modo automatico e implicito, nonostante i tentativi di arginarlo o di ignorarlo. Questa sembrerebbe essere la potenza del negativo hegeliana. Negativo non da intendere in senso bivalente come contrarietà, ma come contraddizione. Nel senso di né l'uno né l'altro. Cioè apertura al diverso, (eteron). E tale rapporto, lo ripeto non sempre è tra due entità determinate, ma di solito avviene tra qualcosa di determinato e qualcos'altro di indeterminato, al limite infinito.


Negazione linguistica
Una parte fondamentale del pensiero novecentesco si è interessata alla negazione simbolica, considerandola come la responsabile principale del male sociale e di tutti gli atti di misconoscimento e di svalutazione dell'alterità. Anche le recenti acquisizioni neurologiche sull'empatia naturale dovuta al sistema implicito di simulazione generato dall'attivazione di neuroni somatomori denominati neuroni mirror hanno alimentato l'idea di una scissione tra il livello embodiment di socializzazione istintuale e quello invece simbolico di socializzazione culturale. Alla fine si tende a considerare il primo come naturalmente ottimale e il secondo, a causa del suo potere di negare simbolicamente l'alterità, il responsabile del fraintendimento e infine nei casi più radicali del male relazionale, cioè sociale. A tanto sembrerebbero ricondurre i discorsi di Gallese e di Virno, il primo uno tra i neurofisiologi scopritori dei neuroni mirror, il secondo uno studioso di antropologia filosofica e di filosofia del linguaggio. Insomma esisterebbe una catalogazione pre-simbolica dell'esperienza più pura e efficace rispetto a quella simbolica. Quest'ultima avrebbe soprattutto la funzione di individuare i percetti distinguendoli dallo sfondo indifferenziato attraverso l'attribuzione essenziale di valore. Insomma una volta appurata l'esistenza di qualcosa, cioè il suo esserci qui e ora, si opererebbe una ulteriore riduzione circostanziale specificante. Cioè si definirebbero le qualità essenziali, però in modo spesso arbitrario e soprattutto interessato. Non senza essere spesso mossi inconsapevolmente da dinamiche profonde a volte perverse, causa di un mascheramento non di rado svilente dell'alterità. Secondo questa posizione, la negazione linguistica sembrerebbe essere originaria. Inoltre, in riferimento all'origine del male, una volta attivata andrebbe a compromettere la spontanea natura empatica ritenuta positiva, accogliente dell'uomo pre-simbolico. Ma le cose starebbero davvero così? È sostenibile che la natura umana sarebbe, almeno fino a un certo punto, un positivo puro poi corrottosi a partire da tale livello in poi? Quest'ipotesi così formulata sarebbe in accordo con l'incipit biblico del mito di Adamo e Eva. In quanto sarebbe l'assaggiare metaforico dell'albero della conoscenza, cioè della introduzione nella dimensione simbolica, a causare la cacciata dal paradiso terrestre.
Più in generale, riprendendo ad esempio le teorie psicologiche lacaniane desunte a partire dalla prima topica freudiana, ma anche certa ermeneutica, la scissione, la spaltung operata dal linguaggio produrrebbe una cesura netta, cioè una barra separatoria definitiva. Sia a livello “simbolico”, ma ancor prima “immaginario”, cioè della rappresentazione in presenza dell'oggetto in questione, si operebbe solo una ri-velazine, cioè un mascheramento travisante. In quanto il significante o l'immagine pertinente a indicare il significato del referente Reale, fallirebbero nel loro intento. Affermare qualcosa linguisticamente come un positivo significherebbe rinnegare la specificità dialettica, cioè oppositiva della dimensione simbolica del linguaggio. Che è quella di affermare qualcosa per qualcos'altro, in sua vece. Secondo la logica dell'identico del non-identico. Anche se tale relazione avvenisse comunque necessariamente e non fosse invece arbitraria come può accadere per il segno linguistico. In ogni modo i due piani non coinciderebbero più. Piuttosto l'esistenza del piano simbolico, distitosi a causa di tale processo, può accadere solo grazie a tale negazione originaria del Reale. In questo caso ciò che viene rimosso è perduto per sempre, nonostante i tentativi di recuperarlo. Da ciò originerebbero il manque, ma anche l'oblio dell'essere, in quanto sottrazione a sé stessi alla fine inevitabile.
Stando così le cose, sempre secondo questo punto di vista, il linguaggio avrebbe comunque al suo interno la possibile soluzione, l'antidoto al male da esso stesso causato. In particolare applicando il potere di negare a se stesso, ovvero al precedente atto di negazione simbolica. Rimane il fatto che bisogna dimostrare fino a che punto tale atto simbolico riparativo in quanto ri-mozione di una ri-mozione precedente sia da considerare solo come negazione di una negazione originaria compiuta, senza più resti dialettici da integrare ulteriormente. In caso affermativo il recupero dell'origine può andare solo nostalgicamento verso la restaurazione dell'inizio, possibile solo dopo la sospensione (katargein) di tale negazione originaria una volta portata alla coscienza. Solo quando si azzererebbe tale dimensione, ci si potrebbe così lasciare guidare da tale disposizione naturale non più inquinata e fraintesa dalla dimensione linguistica. Ma ciò vuol dire non affermare più nulla, nel senso di sospendere qualsiasi giudizio che non sia ricondotto alla predisposizione empatica implicita. In questo caso significherebbe tornare alla notte, o forse alla soglia limite del momento primitivo del fiat lux, dell'illuminazione, sospendendosi a tanto, senza ricercare ulteriori specificazioni o riparazioni simboliche. Cioè smettendo di impegnarsi (sens emploi), cioè di darsi da fare nel tentativo di sanare tale spaltung originaria agendo su tale livello. In questo senso significherebbe affidarsi nietzchianamente alla sapienza del proprio corpo, superando la tentazione di una restaurazione dialettica dell'unità, di una sintesi simbolica definitiva, però al prezzo di una ulteriore negazione in questo caso assoluta. Ma la vedo dura. Come è possibile pensare tale negazione? In che modo recuperare casomai tale origine perduta cercata invano a partire da quell'inesauribile spostamento simbolico e metonimico all'interno del quale si può solo girare a vuoto attorno a tale rimozione originaria. Come si fosse novelli Mosé posti di fronte all'irrangiungibile terra promessa, costretti a un esodo inesauribile.
È possibile uscire, dispensarsi da tale dialettica? E casomai come licenziare tale negare dialettico. Cioè il negare affermando, o meglio l'affermare/negando allo stesso tempo parzialmente qualcos'altro. Sia esso un nuovo mondo, una nuova forma di vita senza conservare più allo stesso tempo qualcosa della precedente, magari sottoforma di ricordo delle vestigia (memoria) e di un ulteriore riconoscimento o identificazione però solo in quanto successiva (auto/etero)narrazione, qualcuno lo definirebbe anche confabulazione, di una continuità che nei fatti sarebbe piuttosto una discontinuità. Aprendosi così all'altro totalmente, in senso apocalittico. Cioè oltre qualsiasi idea di una copia della copia, seppur restaurata e perfezionata, in quanto si accetterebbe che, nella copia, l'originale è andato irrimediabilmente perduto per sempre.
Invece, nel caso in cui non sia possibile sospendere il pensiero simbolico, rimarrebbe residualmente la strada tentata da certa antropologia francese consistente nel tentavivo compromissorio di recuperare una negazione meno drastica, almeno se confrontata rispetto all'intransigenza del pensiero identitario e del terzo escluso. Per favorire invece un pensiero capace di sopportare anche la contraddizione e l'inclusione del terzo incomodo, cioè l'ospite (hostes/xenos) inquietante alla porta. In tal caso, nel pensiero simbolico si andrebbe a negare quella diacronicità dialettica processuale, cronica ritenuta necessaria. Piuttosto si ritornerebbe a affermare la possibilità di una logica primitiva simmetrica e partecipativa fondata sulla reversibilità e sulla sostituzione, oltre che sulla partecipazione a qualcosa che non c'è più, rigenerandola esorcisticamente. Come accade nei riti, la partecipazione è infatti una rievocazione, cioè un riportare in vita ancora simbolico e allo stesso tempo al di là di esso. In questa prospettiva a essere revocata è la temporalità diacronica a favore della compresenza e della simultaneità. All'interno di una differente visione veritativa e fideistica del mondo. Non so poi quanto pacificamente accettabile.