La terra di nessuno
Neverland
L'isola che non c'è.
Per accedevi basta
superare le barriere.
Staccarsi da terra.
Saper volare
Oltre l'immaginato.
Il già dato.
Trovare l'isola che
non c'è
non è tanto uno
spostarsi in un luogo remoto
una terra esotica
come molti credono.
E' lì a portata di
mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la
soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna
sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un
mondo apparirà.
Di una luce, una
completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo.
Il giorno x era
arrivato.
Almeno sulla carta
quella domenica ci sarebbe dovuto essere “oltre l'orto...”
L'evento pensato insieme con quelli di tessuto da varie settimane.
Oltre l'orto... un
nome un programma.
L'intento di
trascendere quanto conosciuto.
La sfida mirabile di
aprire nuovi sentieri per testimoniare di mondi impensabili. Per non
ripiegarsi sul triste presente, per non fermarsi alle solite
comprensibili posizioni recriminative, di denuncia. Oltre quel
sacrosanto urlo esistenziale per diventare affermazione pura. Nella
speranza di tentare l'impossibile. Non senza provare prima a flirtare
con la magia, la follia.
I giorni appena
trascorsi era piovuto. Il terreno incolto fuori il recinto dell'xm
era diventato inagibile.
Senza lasciarsi
prendere dallo sconforto si era deciso di spostarsi dentro il centro
sociale. Rinunciando agli spazi vergini fuori dell'orto. La neverland
desolata, la terra di nessuno abbandonata dove prima c'era il vecchio
mercato ortofrutticolo. Il luogo dove sarebbe dovuto sorgere un
quartiere residenziale nuovo di pacca. La trilogia navile, un centro
abitativo non certo popolare. L'ennesimo piano regolatore per
nascondere la solita speculazione edilizia.
Gli edifici tre
grossi palazzi a spezzare prepotentemente la linea infinita
dell'orizzonte fino a nascondere i bellissimi tramonti di una volta.
Fallite le ditte
erano stati abbandonati al loro destino nell'attesa di tempi
“migliori”.
Al momento restava
solo lo scheletro nudo di quanto appariva in bella mostra sulla
carta, oltre la terra smossa, le montagne di detriti sommersi, le
macerie disperse qua e là a pioggia. Al punto di rendere quelle zone
ancora più desolate di prima.
Di per sé non era
un male.
Almeno per tutti
quegli animali selvatici lì trasferitisi da tempo. Lepri, lucertole
di ogni grandezza, tipo, piccioni metropolitani, gatti sempre più
randagi.
Anche per la pioggia
di quei giorni la vegetazione era più rigogliosa che mai. Cicorie,
cardi, ortiche e tante altre piante selvatiche avevano infestato ogni
anfratto colorando quelle terre amorfe di un verde intenso.
In mezzo a quella
landa desolata le vestigia di quattro piante giganti sradicate. I
ceppi oramai a nudo sulla superficie in lotta con le fitte erbacce
per non essere sopraffatti. Una battaglia impari.
Quelle possenti
rovine solitarie cariche di storia conferivano al posto un non so che
di arcano, di magico. Il luogo ideale per celebrare riti antichi nel
tentativo di connettersi con le energie cosmiche nascoste.
A accentuare tale
sensazione di straniamento la sagoma maestosa sullo sfondo del nuovo
comune del tutto scollegato con il resto. A seguire le volte snelle
del vecchio mercato, un gioiello di architettura degli anni sessanta,
oramai private di ogni utilizzo pratico. Prima mercato, poi macerie
all'aria aperta, infine garage per auto, ora solo piloni snelli
slanciati verso l'alto per il puro piacere dello sguardo. Specie
durante i tramonti quando la luce del sole gioca a rimpiattino tra le
grosse finestre di vetro sul tetto scolpendo le volte in controluce.
Subito di fianco
l'entrata del vecchio mercato, già convento negli anni venti. Una
struttura in pieno rigore metafisico dalle linee pulite, essenziali.
Forme pure, lisce come monoliti astratti.
Un coctel di mondi
andati e a venire da vertigine.
Luogo indefinito
disarmonico, fuori oltre ogni misura.
Non certo adatto per
essere abitato se non occasionalmente da coppiette furtive, tossici,
fanciulli all'avventura.
Come appena detto,
l'idea di occupare per un pomeriggio tale ambiente ameno era stata a
malincuore abbandonata per ripiegare sulle più familiari tettoie
dell'xm poste a est dell'orto.
Niente più slanci
verso l'ignoto. All'apparenza un ripiego. Nei fatti una sfida ancora
più grossa.
Trasformare quel
luogo sinistro, sporco, opprimente in un rifugio accogliente, facendo
emergere da quel substrato amorfo, oscuro un nuovo mondo inaspettato.
Questa la magia da compiere quel giorno. Per questo si era pensato di
tagliare in due il grosso lungo spazio sotto la tettoia per sfondarlo
in larghezza sfruttando l'apertura naturale verso l'orto antistante.
Escludere il bar e tutto quanto a seguire, i luoghi di solito più
frequentati, per occupare quegli ambienti invece più in ombra. Il
cuore pulsante dell'impianto la palestra con lo spazio antistante,
l'ultimo edificio prima dell'uscita. Quanto doveva essere abbattuto
secondo i piani maldestri di certi speculatori assecondati
politicamente. Svuotato di tutto era diventato la superficie ideale
da trasformare in sala da ballo privè. I grossi bancali di solito lì
davanti parcheggiati erano stati spostati al centro dello spazio
circoscritto. Messi in mezzo in modo asimmetrico per spezzare la
linearità da caserma dell'ambiente precedente. Sarebbe stato il
divano per eccellenza da dove poter mirare lo spettacolo. In
particolare di quello offerto sui due tessuti appesi sulle possenti
travi del tetto metallico.
Oltre il cancello
l'orto, la fuga naturale verso il fuori. L'intermezzo con la natura
selvaggia, lì addomesticata nelle vasche da bagno, nei secchi di
plastica, nelle ruote da bici. Lo spazio preferito dagli abitué del
giovedì quando si svolgeva il mercato di campi aperti.
Eppure tutto questo
non era ancora sufficiente per compiere il miracolo. Mancava il tocco
finale capace di operare il salto nel nuovo cosmo. A svolgere tale
compito sarebbero dovute essere le note soffuse della filodiffusione.
Tredici piccole casse per riempire con leggerezza ogni angolo di
musica chillout senza arrecare disturbo. Anche per affermare un'idea
alternativa alla solita musica sparata da casse mega pompate
desiderose di sovrastare tutto. Timbriche fatte per aggredire,
sfogare muri di frustrazione, abbattere barriere di insensibilità
programmata dal regime quotidiano del sistema. Una rabbia dentro
canalizzata per alimentare orge trash, serate tekno votate spesso più
alla (auto)distruzione, non prima di aver attinto ad ampie mani
all'energia necessaria per tirare l'alba. Fino a quando sperperata
ogni forza vitale ci si trascina come zombie per depositare da
qualche parte le carcasse vinte dalla stanchezza, dagli eccessi.
A dispetto di tale
trend si voleva utilizzare quei luoghi per un altro uso più incline
a rigenerare l'energia. Per ottenere tale obiettivo c'era alberto con
il reiki, olga con lo yoga, più la sessione finale del laboratorio
di dance trance. Alberto con i suoi amici avevano anche allestito di
fianco alla palestra il loro banchetto di erbe sacre, infusi
miracolosi, dolcetti vegani attingendo ampiamente all'esperienza
maturata da alcuni di loro nel lungo ritiro shamanico in perù. Fuori
il banchetto, dentro la stanza adibita a tessuto i materassi
necessari per equilibrare l'energia dei centri vitali intasati con
quella cosmica.
L'appuntamento per
tutti gli organizzatori era per il primo pomeriggio, anche perché
l'evento sarebbe cominciato in teoria per le quattro. Alle quattro e
quaranta, tolto il puntualissimo gruppo reiki, degli altri nessuna
traccia. Le casse, lo strumento magico per creare il miracolo di
“oltre l'orto...”, ancora parcheggiate dentro casa sound. Cosa ci
vuoi fare. Fino alla fine sul filo di lana. Secondo una lontana
tradizione del posto. Quando già inizia a arrivare la gente si
comincia con la relativa calma l'opera di trasformazione. Nell'attesa
va bene pure un vecchio stereo portatile preso dalla palestra dal
costa. Quanto basta per diffondere vecchie arie di blues elettrico.
Alla fine arrivano tutti. Per ultimo jimmi l'esperto del suono. Senza
pensare ad altro ci si mette all'opera. Si stendono i fili tutto
intorno, si collegano le tredici casse posizionate in serie una
dietro l'altra lungo il perimetro, sotto i bancali per inondare di
suoni l'atmosfera con naturalezza. Alle sei in punto tutte le casse
sono collegate non senza aver prima dovuto risolvere una serie
infinita di problemi tecnici contingenti. Per chi ha lavorato di
forbici e cacciavite è già un miracolo essere riusciti a tanto.
Un'impresa all'apparenza disperata. Eppure vuoi per l'aiuto degli
amici, vuoi per l'esperienza di jimmi, non senza fortuna il miracolo
si compie. Ora la prova della verità. Un attimo di silenzio. Vai con
il volume. Voilà la musica mixata da jaba ad avvolgere i presenti
dal basso, di lato con la stessa fragranza del cottonfioc. La stessa
sensazione di quando si accende la televisione. Un nuovo mondo
all'improvviso come se tutto quanto prima non fosse mai stato. Un
miraggio condiviso. Una visione per un giorno. Un universo sorto
dall'intento comune di far emergere qualcosa di bello prima di
sottrarsi di nuovo a fine serata nell'oscurità, nel silenzio. Per
nascondersi ancora in qualche luogo arcano in attesa di manifestarsi
ancora sotto nuove forme.
Intanto però le
vecchie sedie arrugginite, i tavoli di legno consunti, i banconi
della mensa prendono vita, si animano di luce. Una leggera vibrazione
attraversa tutti. Le ragazze di tessuto mettono a disposizione i cibi
cucinati in casa. Si prepara al volo le tisane di salvia, rosmarino,
finocchio selvatico. Si riempono i bicchieri con lo sciroppo di
sambuco, il caffè d'orzo della zia anita. Si mescolano animosamente
i dieci litri di sangria nel pentolone.
Mezzanotte.
Come d'incanto si
chiude il sipario.
La gente lascia
lentamente il palcoscenico.
Si spera più felici
di prima.
Si spengono le luci,
la musica.
A un tratto gli
oggetti tornano nell'oscurità, le panche a essere solo vecchi pezzi
di legno tarlato. Le poche persone che restano si confondono con la
tappezzeria del posto.
Da fuori solo il
rumore sordo delle ruote sull'asfalto a rompere il silenzio sottile
piombato all'improvviso.
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