Là sotto chilometri
e chilometri di superficie cementata. Una distesa impressionante. La
gente viveva lì. A ritmo di metropoli.
Da quella posizione
sembravano tanti soldatini in movimento lungo i viali alberati. Le
macchine in mezzo la strada, i pedoni sui marciapiedi, dritti e
impettiti. Solo il rosso e il verde dei semafori a fermare la corsa.
Di colpo. Nessuno a ribellarsi al grande compositore nascosto. Per
tutti, normale agire quella parte. Ogni giorno, ogni notte.
Ma non era facile
per niente.
Tutto era stato
irrimediabilmente segnato, formato, irregimentato. Per chilometri.
Fino all'orizzonte.
Anche le piante non
sfuggivano a tale regola.
I rami spogli erano
stati potati rigorosamente.
Snelli, leggeri si
protendevano verso il cielo.
Come colonne gotiche intrecciavano nervose volte a sesto acuto.
Difficile trattenere
un sentimento di oppressione.
Tra quella rete
fitta verso il cielo filtrava a malapena la luce.
Non a sufficienza
per elevarsi.
La vera salvezza non
era di questo mondo.
Ma addavenire.
Per i burattini
laggiù rimaneva solo da amministrare l'inferno. Non senza tentare di innalzarsi con superbia verso quella luce. Alla fine però un gelo
cristallino pervadeva ogni cosa, i muri, le persone fissandone per un
istante la tanta dinamicità. Un girare a vuoto paradimatico di una
umanità sotto sotto rassegnata e sofferente.
Unica chance
ributtarsi nella calca a capo fitto.
Continuare a
perdersi in tanto movimento fino all'ebbrezza.
Al punto di
illudersi.
Ma non bastava.
In ogni superficie
era inciso indelebile quell'urlo originario.
Sebbene di esso
rimanesse solo l'eco sordo.
A testimoniarlo i
muscoli ancora tesi fino allo spasmo.
Sepolto nella
memoria più profonda segnava da sempre le membra della città.
Nonostante i ripetuti tentativi di affossarlo entro una quotidianità
all'apparenza pacificata. Ma la misura era stata superata da un
pezzo. Al limite restava ancora da definire nuove forme di vita
postumane tutte da inventare. In nome di un'eccentricità filtrata da
un rigore esasperato. Esaltato dalla pulizia delle linee, da un
vestire serio colorato di nero opaco fino al grigio antracite.
Eppure la materia
così strenuamente fissata riusciva ancora a trovare delle fessure
dove poter esplodere anarchica nonostante le strette ferree maglie
tutt'avvolgenti.
Charlotte quella
mattina si era svegliata presto.
A ritmo di rock and
roll.
Lo stesso di sempre
però aggiornato ai tempi.
Davanti un nuovo
giorno.
Una vitalità
prorompente si era impossessata del suo giovane corpo.
Non riusciva a stare
ferma.
Il sorriso sul volto
pieno di luce.
Le scarpe alte di
pelle morbida ai piedi.
Via giù per le
scale a chiocciola.
Quattro piani da
bruciare prima di toccare terra.
Tre gradini per
volta.
Rapida come un
fantasma.
Una sfida al tempo.
Per farlo implodere.
Fino a superare ogni
barriera.
Tra un salto e
l'altro parole assemblate in musica.
Oltre il portone la
città davanti.
Un sole intenso a
scolpire ogni cosa fin nei minimi dettagli in tanto freddo, giusto
per ricordare l'autunno inoltrato.
Non un attimo di
pausa.
Dimenando il corpo
come fosse percorso da una scossa vitale inesauribile, macinava passi
uno dietro l'altro.
Protesa in avanti.
Verso la meta del
momento.
Una velocità tale
da non distinguere più le gambe.
Neanche fosse una
modella futurista.
Lo stesso incedere
devastante di un pezzo rock inarrestabile.
Passo dopo passo.
Senza tregua.
Oltre ogni limite
appena raggiunto.
Un viaggio da paura
fino all'inevitabile arresto.
Non prima di aver
bruciato tutto in pochi istanti memorabili.
Un altro varo
andato.
Dopo solo l'incedere
inerziale della quotidianità.
Appena sufficiente
per arrivare a sera.
Prima di coricarsi
ancora e ricaricare le pile atomiche.
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