Il giorno prima, il
24 aprile si era trovato con i suoi amici.
Loro venivano da
fuori.
Chi dalla Francia,
chi dal sud...
Non avevano meta.
L'unico modo per
lasciarsi andare nella città di notte.
Per essere assorbiti
dal suo ritmo.
Curiosi come
bambini.
Senza aspettarsi
nulla.
Intanto giusto per
cominciare la serata un salto fugace dal pachi.
Birre weisse per
tutti.
Da bere sotto i
portici.
Camminando in
gruppo.
Tra una battuta e
l'altra.
D'un tratto un
richiamo dalla strada.
Qualcosa di
indecifrabile.
Ancora pochi
passi...
Ecco materializzarsi
il tre ruote. Un carretto variopinto per il dj di strada postmoderno,
post-postmoderno, post precariato.
A dirigere il
trabicollo recuperato dal rusco un ragazzo altissimo conosciuto pochi
giorni prima alla festa della zuppa. Tra una pedalata e l'altra il
suo corpo ondeggia pesantemente sul triciclo. Subito dietro,
sistemati di traverso sopra una tavola, i piatti technics. A seguire
il dj camminatore. Mixa e si muove all'unisono con il carretto
trovando pure il tempo di equalizzare ogni singola traccia, di tarare
i volumi per bene.
Non sono soli.
Catturati da quella
miscela irresistibile tanti giovani fancazzisti della sera si sono
lasciati prendere da quelle note raminghe. Musica popolare assemblata
con arte dai nostri dj virtuosisti dello scrath, del campionamento.
Già dopo pochi
passi il gruppo si infittisce.
I conquistati si
impegnano a loro volta a richiamare altri passanti.
Impossibile
resistere alla musica, stare fermi.
Infatuati come topi
non si riesce a opporsi a quel richiamo.
Anche questa volta
l'incantesimo ha sortito il suo effetto.
Per i presenti non
resta se non seguire il suonatore di turno, muovere le braccia, le
gambe a ritmo.
Pian piano si crea
una vera e propria carovana ambulante.
L'obiettivo il parco
della montagnola.
È là la festa.
Sono in corso
d'opera le prove per l'indomani.
Il 25 aprile.
Il giorno della
liberazione.
Una via intera si è
mobilitata per rinsaldare ancora una volta il legame con un passato
glorioso, eroico. Lontano specchio della miseria presente.
La speranza provare
a esserne degni eredi.
Ma non è facile.
Il nemico si
sottratto. Non è più un'entità riconoscibile.
Si insidia
silenzioso dentro ognuno.
Così non si sa bene
più cosa combattere.
La pigrizia, la
mancanza di volontà, il non saper dire no a questa apatia diffusa,
al servilismo strisciante.
Basta continuare a
essere uno dei tanti piccoli ingranaggi necessari per far girare a
regime quel meccanismo onnipervasivo perverso.
Impresa disperata.
Già i Voodoo Sound,
il mitico gruppo afrobit orchestratore di tante belle serate roots,
si è dovuto piegare al volere del comitato di quartiere.
Niente più musica a
partire dalle dieci e trenta.
Dopo soli quattro
pezzi, nemmeno il tempo di accendere i motori, tutti a nanna.
Un altro giorno di
lavoro è lì alle porte per divorarti l'anima.
Anche i pensionati
nullafacenti reclamano il silenzio.
Il meritato premio
per una vita di sacrifici.
Che cribbio!
Basta schiamazzi!
Con l'adrenalina
appena entrata in circolo, il pubblico accalcato attorno al gruppo
fino a confondersi con i musicisti deve fermarsi di botto.
Niente più
ondeggiare i corpi, saltare, urlare a suon di beat.
Un coitus
interruptus della peggiore specie.
L'adrenalina da
porta per l'euforia si trasforma in rabbia.
Già c'è qualcuno a
invocare occupy.
Ma il comitato è
irraggiungibile.
È lui a avere
sempre l'ultima parola.
Kafka non avrebbe
saputo fare meglio.
Ma chi cazzo è sto
comitato?
Queste voci anonime
pronte a incarnarsi in oscuri funzionari balbettanti, a inondare di
inchiostro melenso i giornali locali di qualunque colore politico.
Via prima di assiste
a qualcosa di spiacevole.
Meglio spegnere
l'adrenalina con un boccale di birra fresca.
Oggi non è
giornata.
Alla faccia della
liberazione.
Sconsolati si va al
Macondo, un circolo arci poco più avanti. Driblando di petto una
marea di gente storta dalle traiettorie imprevedibili.
Dal locale non
filtra nulla di buono.
Il messaggio di
Martina preannunciava un concerto memorabile.
Non sembra così.
Meglio addentare una
piada prima di aggredire qualcuno. Così... per terminare la serata
con un sacrificio umano come rito liberatorio.
Alla fine si decide
di entrare lo stesso.
Una chance la si dà
a chiunque.
Come varcata la
soglia del teatrino ambulante di Parnasus, di colpo si viene
risucchiati in un'altra diensione sorprendente.
I suoni confusi di
fuori si dissolvono clamorosmente.
Lì dentro si
trasformano in note celestiali.
Merito del banjo
filtrato con un effetto flanger.
A animarlo un tipo
alto alto tutto d'un pezzo vestito di nero. In stile anni trenta,
biondo, con le orecchie a sventola così grandi da sembrare fatte a
posta. Quasi se le fosse tirate con le mani dopo averle inamidate.
Si muove a scatti,
assecondando il ritmo stando seduto.
Canta melodie soul
blues.
Non sembra umano ma
un automa felliniano o la marionetta di un Toto in stato di grazia
con la mascella serrata con delle viti.
L'aspetto teatrale è
amplificato dai tendaggi rossi a scendere tutt'attorno fino quasi a
avvolgerlo.
Sembra piazzato in
quella nicchia da secoli.
Pronto a muoversi a
comando.
Cosa lo muove?
Quali fili
invisibili lo tirano?
Nonostante la
superficie blues, l''attitudine è punk.
Musica sincopata
emessa a denti stretti sporcata da effetti low-fi comandati da una
pedaliera d'organo.
Con il piede destro
batte il ritmo.
A ogni accento
attiva un nuovo effetto con un colpo secco sui tasti lunghi di legno.
Impressionante.
A bocca aperta i
presenti.
La sensazione quella
di essere gli involontari spettatori di qualcosa di unico, magico.
Ecco saltato fuori
il coniglio dal cilindro.
Quando meno te lo
aspetti.
Già lì in procinto
di rimboccarsi le coperte.
Voilà le notti
bolognesi.
Capaci di lasciarti
di stucco.
Di spiazzarti ancora
una volta.
Senza pretenderlo
però.
Quando capita
capita.
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