lunedì 1 marzo 2010

La fortezza vuota volante

Oltre a barricarsi all'interno di fortezze vuote invalicabili, i soggetti autistici sono grandi inventori di macchine fantastiche spesso inquietanti.
Di solito vanno a rappresentare le complesse funzioni del corpo ridotto però a una stralunata macchina ripetitiva.
Anche questo è un modo come tanti per manifestare la propria ribellione simbolica e no a una realtà complessa caotica e rumorosa, provando allo stesso tempo a rimpiazzarla attraverso la costruzione di un mondo nuovo retto da un meccanismo più gestibile e prevedibile.
Il tutto non senza evidenti contraddizioni.
Francesco frequentava la ciclofficina da un po' di tempo.
Da un punto di vista anagrafico era il più avanti, seppur di poco, dal resto della truppa.
Era un appassionato di circuiti e di tecnica.
Aveva al riguardo una conoscenza immensa.
In qualche modo unica e originale.
La sua opera più mirabolante a noi pervenuta era il carretto della ciclofficina.
Di solito veniva usato nelle manifestazioni pubbliche.
Messo in testa guidava il cammino degli altri partecipanti.
Era una sorta di risciò azzurro costituito da due grazielle assemblate in parallelo.
Ricordava per forma i carretti a tre ruote del pane o del gelato di una volta.
Solo che qui si sta sopra in due l'uno di fianco all'altro.
Fin qui nulla di strano.
Ma se si va a guardare bene tra le due selle e anche sotto il carro, si scopre al centro un cerchione di una graziella messo in orizzontale, sorretto da un pignone diritto.
È il timone o meglio lo sterzo.
Da lì partono due lunghissime catene a vu collegate a delle rispettive puleggie o corone capaci di modificare la direzione delle ruote anteriori.
Non sono riuscito a capire ancora come vi riesca. Comunque il giocattolo va. Solo bisogna stare attenti a alcuni particolari non indifferenti.
Innanzitutto la manovra giusta è possibile solo se si è in accordo con il compagno di avventura.
Inoltre, visto che sterzo e ruote sono disarticolati, se si gira in senso antiorario le ruote si rivolgono controintuitivamente a destra. Viceversa se si compie l'operazione opposta.
All'inizio, il guidatore ignaro prova una strana sensazione di spiazzamento poiché avverte il carretto dissociato rispetto al proprio corpo e alla propria volontà. Infatti, quando si butta tutto a sinistra scopre con sorpresa di dirigersi dalla parte opposta.
Il carretto va in una direzione e il nocchiero dall'altra.
Il tutto mette a disagio, anche se dopo un po' ci si abitua.
In fondo lo si può considerare un'efficace metafora per denunciare l'ambivalenza e la conseguente imprevedibilità della vita. Come se le mete prefissate le si possa raggiungere solo dopo aver affrontato contraddizioni inesplicabili. Spesso dovendo remare contro il senso comune.
Per questo bisogna essere preparati a puntino e il carretto azzurro della ciclofficina sembra fatto apposta.
Una sorta di scuola guida esistenziale efficacissima e a disposizione di tutti.
Per altri versi lo si può invece pensare come una sorta di fantasticazione meccanica progettata per il puro gioco. Ovvero una produzione senza scopo se non quello di incentivare l'intrattenimento fine a se stesso. Sebbene lo si possa comunque ritenere utile per saggiare il punto estremo dove può spingerci la fragilità del nostro essere precario.
Al limite fino a una spanna dal sole, grazie all'ausilio di gracili ali sempre lì lì sul punto di sciogliersi.
In questo caso si spalanca di nuovo la via dell'abisso. Quel vuoto sempre presente, nonostante i vani tentativi di schivarlo e aggirarlo, capace di attirare verso di sé quei viaggiatori dell'ignoto come un buco nero. Il che succede ogni volta quando si tende troppo la corda fino a spezzarla. Allora ci si spiaccica velocemente al suolo e si torna con i piedi per terra.
Nonostante ciò non ci si ferma.
Rattoppate le ferite si prova a costruire altre ali, sospinti se possibile da una disperazione ancora superiore.
In fondo altro non si può fare se non giocare ancora.
Rischiare di nuovo tutto.
È una pulsione più forte di ogni altra.
Senza questa energia si tornerebbe a essere solo macchine banali, ovvero automi schiavizzati oramai senza più scarti residuali e dissonanze da sanare. Quel rumore di fondo capace di fare ancora la differenza tra sé e il mondo. Insomma il termometro necessario per misurare il livello di dissociazione dal proprio destino. Oltre che della distanza da colmare nel caso si pensi impudentemente di sanarla. Anche al costo di accettare di dover correre sul filo della follia.
Non troppo tempo fa ci si era messi in viaggio per Imola per celebrare il funerale dell'automobile in occasione della parata carnevalesca dei fantaveicoli ecologici, pazzi e stravaganti realizzati con materiale di riciclo.
Davanti viaggiava il carro con sopra una bara nera circondata ai lati da tanti ceri accesi. Dietro tutti i membri stralunati della ciclofficina in processione su delle bici colorate a scandire giaculatorie del tipo:
Santa Graziella piena di grasso, il pignone sia con te. Sia fatta la tua volontà etc. etc.
Giunti a metà strada, come era prevedibile il carro decide di cambiare improvvisamente direzione, nonostante il tentativo di governarlo da parte dei conducenti.
I due ignari malcapitati presi dalla concitazione reagiscono secondo le più consolidate abitudini. Cioè sterzando istintivamente senza ottenere però grandi risultati.
Pian piano il carro si dirige fuori della carreggiata mentre sul prato verde cominciano a segnarsi due lunghe strisce devianti verso il fosso. Poi di botto si piega di lato e sprofonda inghiottito nel canale scomparendo dalla vista.
Per quelli dietro, rimasti congelati a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, sembrava la fine.
Un attimo di silenzio lancinante durato fino a quando qualcuno dal carro non ha dato segni di vita.
Marco, rimasto eroicamente seduto sulla barca che affondava, alla fine riemerge tra la vegetazione e il fango come se nulla fosse successo.
Al suo fianco c'è anche Michele trascinato a sua volta con la fissa dentro il canale.
Dopo averlo raddrizzato e riportato sulla carreggiata si riscontra una ruota divelta e le forcelle storte.
Ma niente paura.
Senza perdersi affatto d'animo, sospinti da nuove energie, si ripara alla bella e meglio il danno.
Il carro alla fine va ancora.
Ha resistito anche a questa disavventura.
Grande!
Ne siamo sorpresi e ammirati.
Innanzitutto per la robustezza esibita nonostante l'apparente fragilità.
Non sembra vero.
Qualcuno pensa al miracolo.
Recuperata anche la bara con il suo contenuto, si riparte.
Dopo averla scampata per l'ennesima volta, a fine giornata si rivive insieme ogni singola mirabolante avventura. Mentre ognuno si ripete in cuor suo:
Anche questa è fatta.
Insomma tutto è bene quel che finisce bene.
Come nei migliori film drammatici, tipo quelli alla Frank Capra, in cui alla fine si riesce a rovesciare a proprio vantaggio le debolezze costitutive, non senza un pizzico di fortuna.
È vero, a volte va male e non la si racconta.
Ma tanto cambierebbe qualcosa?
Il gran gioco della Vita non ne sarebbe influenzato più di tanto.
Invece per chi ha vissuto in prima persona quelle esperienze apparentemente insignificanti le cose sembrano cambiare. Almeno si potrà dire di aver provato a prendersi gioco del destino.
Senza esagerazione però.
Al massimo cercando di portare le sue regole fino al limite presupposto.
Niente più.
Sapendo in ogni caso che la volta successiva tutto verrà di nuovo messo in discussione.
Comunque sia questa domenica è passata meno noiosa del solito.

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