giovedì 12 aprile 2012

Vita offesa

Da tempo non andava più bene.
Relegata a forza su una sedia a rotelle.
L'accordo di un tempo tra i dispositivi naturali e quelli culturali non funziona più.
Il loro intreccio si era consumato nel peggiore dei modi.
Il corpo monco di alcune sue funzioni basilari non accettava pià di seguire programmi prefissati.
Questa volta aveva deciso di fare di testa sua.
La vita nuda offesa reclamava a gran voce il suo spazio.
Da sola provava a rimettere insieme i cocci.
A modo suo.
Per tentare di saldare insieme i pezzi rimasti.
Difficile sapere se sarebbe riuscita nel compito.
Qualcosa di essenziale era andato irrimediabilmente perduto.
Occorreva un miracolo per trovare ancora il bandolo della matassa, per rimettere in sesto la macchina acciaccata.
In tale tentativo demiurgico di rigenerazione la materia portata a essere nuovamente lassa reclamava con tutte le forze una nuova organizzazione efficace.
L'essere nuda le era insopportabile.
Meglio provare a attivare soluzioni a caso.
Spesso sbagliando.
Magari collassando insieme fasci nervosi nociocettivi con quelli somatomotori.
Questo il prezzo dell'ultima trasformazione.
Alla fine era un dolore lacerante.
Testimoniato dall'urlo disperato di un corpo in balia di una sperimentazione totale, anarchica.
Impossibile sottrarsi.
Quel che rimaneva della soggettività si trovava a fare i conti con quanto l'aveva preceduta e resa possibile.
Stufa di assecondare le pretese di una parvenza di umanità sempre più difficile da raggiungere era arrivato il momento di saldare il conto, di restituire tutto al mittente. L'unico modo per sfuggire a quel regime di trasformazione pura, indifferente.
La vita nuda senza più lacci adeguati aveva preso il sopravvento.
Forse era stato sempre così.
Però ora non c'era più lo spazio per alcuna illusione di scambiare ancora qualcosa. Una sorta di baratto mutualistico. La conservazione della vita per una esistenza felice. Grazie all'appagamento di desideri inconfessabili spesso dettati da convenzioni sociali. Come mettere al mondo un figlioccio, trovare un lavoro dignitoso, essere amati.
Si, quest'ultima sembrava la speranza più grande.
Essere amati incondizionatamente.
A prescindere da tutto.
Senza se e ma.
Così e basta.
Questo il miracolo atteso.
La magia alla quale ci si sarebbe voluti consegnare da sempre.
Fare essere l'impossibile.
Ma tale speranza ben presto si stemperava in illusione fino al punto di rimpiangere di aver accettato quel gioco. Non senza la sensazione di essere stati ingannati.
Forse sarebbe stato meglio non aver mai collaborato.
Aver rifiutato la seduzione iniziale lasciando la vita nuda in balia di se stessa.
Sempre più difficile arrivare a una soluzione accettabile.
Rimaneva solo da attendere il compimento di tutto per restituire quanto preso e amen.
Troppe cose viste, subite per illudersi ancora di approdare a una vita dignitosa.
Come tornare a casa dopo Auschwitz o il Vietnam.
Al massimo si sarebbe potuto collaborare con le forze disgreganti per accelerare i tempi oramai maturi.
L'unica economia rimasta quella della morte.
Lasciare disposizioni ai sopravvissuti di turno, tracciare segni utili per ripescare memorie, capitali disseminati.
Non serve a molto.
Però lo si fa lo stesso.
Per essere ricordati, per provvedere a chi ti sta vicino.
Più spesso invece si è in balia di comportamenti automatici attivati implicitamente da tutta una serie di parole, oggetti performativi in cui si è immersi impotentemente. Allora si va a impersonificare ruoli assurdi come si fosse marionette impazzite prive di qualsiasi senso di realtà.
Col tempo anche questo diventa normale.
L'osceno quotidiano.
E alla fine non ci si fa più caso.

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