Oggi non ce la faccio.
Come fossi di cemento.
Ogni gesto è difficile, vischioso.
Ieri ho scoperto quanto avrei già dovuto sapere da un pezzo.
L'occhio destro vede sempre di meno.
Oggi ho contattato l'oculista della prima lontana operazione laser.
Essersi abituati bene.
Questo il problema.
Difficile l'idea di essere tornati indietro.
Ma non è solo questo.
Vedere il corpo disfarsi lentamente.
E' questo quanto provato dalla zia operazione dopo operazione?
Quando al risveglio si scopriva privata di parti di sé, di funzionalità irrecuperabili.
Difficile anche accettare l'idea di stampo spirituale del corpo come grave, peso, croce.
Ecco allora tanta industria per immobilizzarlo, privarlo dei piaceri, metterlo a regime.
Certo per seguire la via dello spirito per liberarlo.
Un lungo viaggio a ritroso dopo aver ceduto alla tentazione dell'incarnazione.
Moh che si fa?
Non è affatto pacifico abbandonare la nave che affonda centimetro dopo centimentro.
Anche perché per molti di loro l'identificazione con l'infinito, con la coscienza cosmica indeterminata è un fatto assolutamente normale.
Come se vivesserogià da un'altra parte oltre questa dimensione.
Certo rimane l'annosa questione di come ridare dignità, consistenza, essere a questo abbaglio ancestrale. La macchina fisica, quel corpo fragilissimocome un cristallo sottilissimo.
Arrivederci a tutti e buonasera.
No, questo non riesco ancora a pronunciarlo.
Qualcosa mi trattiene ancora.
Quegli stessi così veloci a abbandonare la nave quanto a rimpolpare questa esistenza progettando futuri improbabili mossi da una fede un ottimismo ogni oltre logica nel migliore dei casi.
No non mi sento così.
Se proprio devo, ripeto devo, perché altra via non vedo, lo faccio a malavoglia.
Non senza dare uno sguardo indietro, memore delle macerie lungo la strada. Non senza disappunto.
Certo una via bisogna pure trovarla, una soluzione la più folle che ci sia.
In fondo si trattasolo di abbandonarsi all'infinito.
Soprattutto saper scompariresenza lasciare tracce a venire.
Nel rispetto delle migliori regole ecologiche
giovedì 3 settembre 2015
mercoledì 22 luglio 2015
Odissea nello spazio e nel tempo di ora
Come
sia nato l'uomo rimane un mistero.
Da
circa 250000 anni si sono succedute tante variazioni spesso
inspiegabili fino a giungere ai nostri giorni.
Circa
10000 o 20000 anni fa, cosa cambierebbe, l'ultimo uomo, quello
sapiens o anche faber, tecnologico. Apparso tra le valli della
Mesopotamia, dell'India fino all'Africa nord orientale. Ma poteva
essere la Siberia, o il freddo nord Europa, o il centro America. Di
punto in bianco ecco apparire anche il grano come lo conosciamo oggi,
gli animali domestici e via dicendo.
C'è
chi attribuisce tale passaggio a qualche cultura aliena. Un esempio
per tutti Kubrick e il suo 2001 Odissea nello spazio. Per Castaneda
si tratta piuttosto di essere spirituali predatori (I Voladores)
venuti a colonizzare la terra per utilizzare la macchina uomo al suo
servizio come in Matrix. La stessa Bibbia narrerebbe secondo la
traduzione letteraria di Mauro Bilino dell'alleanza con Javè, uno
dei tanti Eloim venuti per governare l'umanità. Gli Eloim ovvero
un'altra etnia, civiltà aliena evoluta capace di indossare i panni
umani, di generare insieme discendenze semidivine (come nelle
mitologia greca).
Avanzati
al punto da riuscire a modificare geneticamente l'uomo per farne un
docile strumento di controllo grazie al potenziamento/innesco della
mente sopra le altre funzioni biologiche “naturali” cioè
avvenute per mutazione spontanea. Tale scenario è in parte lo stesso
ipotizzato da Stargate.
Ora
che fine hanno fatto gli Eloim nessuno lo sa. La maggior parte
dell'umanità se ne è dimenticata, anche per il tentativo di
nascondimento, traviamento operato da certe istituzioni secolari
statali o religiose che siano,
C'è
invece chi li vede ancora come Caterina Stefania una “aperta”
capace di andare “oltre la barriera”, alias velo di Maya, Matrix.
Con lei padre Tomislav uno dei frati protagonisti a Medjogore. Ora
entrambi in abruzzo in una comunità mistica intenti a fare rituali
cosmici ai quali parteciperebbero pure entità aliene.
Anche
Castaneda a suo modo parla della stessa cosa, di piani di realtà
differenti al di là della matrice interpretativa di questo mondo, di
un cosmo popolatissimo aventi finalità predatorie.
Ma
torniamo agli Eloim, scomparsi certamente dal piano visivo non prima
di aver innescato nell'uomo quei dispositivi culturali alla Foucault
capaci di imbrigliarlo entro maglie fitte, la grande barriera, con lo
scopo di predisporlo al lavoro, alla conservazione della specie per
farne carne da sfruttamento. Insomma l'uomo come schiavo. Lo stesso
prefigurato da Platone dentro la caverna, cieco fino alla paranoia.
L'uomo macchina imperfetto, perché frutto di una sintesi
approssimativa. L'unico animale sulla terra senza ambiente,
produttore di mondo artificiale, sfruttato da potenze superiori per
depredarlo del suo lavoro, della sua conoscenza, della sua energia.
Questo
lo scenario più ampio del potere rispetto a quello ipotizzato
politicamente dalla comunità invisibile.
Rimane
lo stesso unico fine possibile, quello della liberazione assoluta
dell'uomo da tutto quanto ci predispone, ci obbliga alle nostre
spalle sia come forze occulte, sia come poteri secolarizzati e via
dicendo. Se per Colombo andare oltre la barriera significava superare
spazialmente le colonne d'Ercole. Oggi i nuovi confini da superare in
un mondo globalizzato sono oltre l'u-topia intesa almeno entro queste
leggi fisiche Per rilanciare in un inaudito “non luogo” dove
tutto è possibile, tutto è connesso, tutto può nascere. Luogo,
mondo spirituale di connessioni inimmaginabili, l'oceano infinito da
solcare grazie al nostro doppio, il corpo energetico recuiperato,
ristrutturato, rivitalizzato, potenziato, fatto sorgere
alchemicamente da quella macchina fisica usata primariamente per
semplici scopi materiali di sfruttamento quotidiano, al massimo di
sopravvivenza. Grazie a un altro uso dello stesso, a una
economizzazione delle energie per mettere la macchina a regime fino
al punto sogliare della trasformazione-trasfigurazione-precipitazione
alchemica nell'uomo spirituale. L'unico a saper andare oltre la
barriera, di “vedere”, “conoscere” silenziosamente attingendo
a quell'infinito oceano di conoscenza di energia a cui avrebbe
accesso.
È
sempre un problema di pratiche, del fare, il “grande fare” come
lo definisce Gurdjeff. Ma prima dobbiamo conoscersi meglio, come
siamo fatti, quali sono le nostre potenzialità al di là dei limiti
imposti dal sistema. La via politica da sola non basta per rispondere
a tali questioni. Certo è di grande aiuto per svelare certi
dispositivi, per cominciare il processo di liberazione. Ma è solo
l'inizio. Certo è sempre un problema di economia, di buona
amministrazione. Ma il problema va spostato su tutti i livelli
possibili. Dal macro al micro e viceversa. Dal fisico, al mentale
allo spirituale, dall'infinitamente piccolo fino al cosmico.
Antropologia spirituale la più materialistica possibile. Poi si
vedrà.
lunedì 1 giugno 2015
Oltre l'orto...
La terra di nessuno
Neverland
L'isola che non c'è.
Per accedevi basta
superare le barriere.
Staccarsi da terra.
Saper volare
Oltre l'immaginato.
Il già dato.
Trovare l'isola che
non c'è
non è tanto uno
spostarsi in un luogo remoto
una terra esotica
come molti credono.
E' lì a portata di
mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la
soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna
sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un
mondo apparirà.
Di una luce, una
completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo.
Il giorno x era
arrivato.
Almeno sulla carta
quella domenica ci sarebbe dovuto essere “oltre l'orto...”
L'evento pensato insieme con quelli di tessuto da varie settimane.
Oltre l'orto... un
nome un programma.
L'intento di
trascendere quanto conosciuto.
La sfida mirabile di
aprire nuovi sentieri per testimoniare di mondi impensabili. Per non
ripiegarsi sul triste presente, per non fermarsi alle solite
comprensibili posizioni recriminative, di denuncia. Oltre quel
sacrosanto urlo esistenziale per diventare affermazione pura. Nella
speranza di tentare l'impossibile. Non senza provare prima a flirtare
con la magia, la follia.
I giorni appena
trascorsi era piovuto. Il terreno incolto fuori il recinto dell'xm
era diventato inagibile.
Senza lasciarsi
prendere dallo sconforto si era deciso di spostarsi dentro il centro
sociale. Rinunciando agli spazi vergini fuori dell'orto. La neverland
desolata, la terra di nessuno abbandonata dove prima c'era il vecchio
mercato ortofrutticolo. Il luogo dove sarebbe dovuto sorgere un
quartiere residenziale nuovo di pacca. La trilogia navile, un centro
abitativo non certo popolare. L'ennesimo piano regolatore per
nascondere la solita speculazione edilizia.
Gli edifici tre
grossi palazzi a spezzare prepotentemente la linea infinita
dell'orizzonte fino a nascondere i bellissimi tramonti di una volta.
Fallite le ditte
erano stati abbandonati al loro destino nell'attesa di tempi
“migliori”.
Al momento restava
solo lo scheletro nudo di quanto appariva in bella mostra sulla
carta, oltre la terra smossa, le montagne di detriti sommersi, le
macerie disperse qua e là a pioggia. Al punto di rendere quelle zone
ancora più desolate di prima.
Di per sé non era
un male.
Almeno per tutti
quegli animali selvatici lì trasferitisi da tempo. Lepri, lucertole
di ogni grandezza, tipo, piccioni metropolitani, gatti sempre più
randagi.
Anche per la pioggia
di quei giorni la vegetazione era più rigogliosa che mai. Cicorie,
cardi, ortiche e tante altre piante selvatiche avevano infestato ogni
anfratto colorando quelle terre amorfe di un verde intenso.
In mezzo a quella
landa desolata le vestigia di quattro piante giganti sradicate. I
ceppi oramai a nudo sulla superficie in lotta con le fitte erbacce
per non essere sopraffatti. Una battaglia impari.
Quelle possenti
rovine solitarie cariche di storia conferivano al posto un non so che
di arcano, di magico. Il luogo ideale per celebrare riti antichi nel
tentativo di connettersi con le energie cosmiche nascoste.
A accentuare tale
sensazione di straniamento la sagoma maestosa sullo sfondo del nuovo
comune del tutto scollegato con il resto. A seguire le volte snelle
del vecchio mercato, un gioiello di architettura degli anni sessanta,
oramai private di ogni utilizzo pratico. Prima mercato, poi macerie
all'aria aperta, infine garage per auto, ora solo piloni snelli
slanciati verso l'alto per il puro piacere dello sguardo. Specie
durante i tramonti quando la luce del sole gioca a rimpiattino tra le
grosse finestre di vetro sul tetto scolpendo le volte in controluce.
Subito di fianco
l'entrata del vecchio mercato, già convento negli anni venti. Una
struttura in pieno rigore metafisico dalle linee pulite, essenziali.
Forme pure, lisce come monoliti astratti.
Un coctel di mondi
andati e a venire da vertigine.
Luogo indefinito
disarmonico, fuori oltre ogni misura.
Non certo adatto per
essere abitato se non occasionalmente da coppiette furtive, tossici,
fanciulli all'avventura.
Come appena detto,
l'idea di occupare per un pomeriggio tale ambiente ameno era stata a
malincuore abbandonata per ripiegare sulle più familiari tettoie
dell'xm poste a est dell'orto.
Niente più slanci
verso l'ignoto. All'apparenza un ripiego. Nei fatti una sfida ancora
più grossa.
Trasformare quel
luogo sinistro, sporco, opprimente in un rifugio accogliente, facendo
emergere da quel substrato amorfo, oscuro un nuovo mondo inaspettato.
Questa la magia da compiere quel giorno. Per questo si era pensato di
tagliare in due il grosso lungo spazio sotto la tettoia per sfondarlo
in larghezza sfruttando l'apertura naturale verso l'orto antistante.
Escludere il bar e tutto quanto a seguire, i luoghi di solito più
frequentati, per occupare quegli ambienti invece più in ombra. Il
cuore pulsante dell'impianto la palestra con lo spazio antistante,
l'ultimo edificio prima dell'uscita. Quanto doveva essere abbattuto
secondo i piani maldestri di certi speculatori assecondati
politicamente. Svuotato di tutto era diventato la superficie ideale
da trasformare in sala da ballo privè. I grossi bancali di solito lì
davanti parcheggiati erano stati spostati al centro dello spazio
circoscritto. Messi in mezzo in modo asimmetrico per spezzare la
linearità da caserma dell'ambiente precedente. Sarebbe stato il
divano per eccellenza da dove poter mirare lo spettacolo. In
particolare di quello offerto sui due tessuti appesi sulle possenti
travi del tetto metallico.
Oltre il cancello
l'orto, la fuga naturale verso il fuori. L'intermezzo con la natura
selvaggia, lì addomesticata nelle vasche da bagno, nei secchi di
plastica, nelle ruote da bici. Lo spazio preferito dagli abitué del
giovedì quando si svolgeva il mercato di campi aperti.
Eppure tutto questo
non era ancora sufficiente per compiere il miracolo. Mancava il tocco
finale capace di operare il salto nel nuovo cosmo. A svolgere tale
compito sarebbero dovute essere le note soffuse della filodiffusione.
Tredici piccole casse per riempire con leggerezza ogni angolo di
musica chillout senza arrecare disturbo. Anche per affermare un'idea
alternativa alla solita musica sparata da casse mega pompate
desiderose di sovrastare tutto. Timbriche fatte per aggredire,
sfogare muri di frustrazione, abbattere barriere di insensibilità
programmata dal regime quotidiano del sistema. Una rabbia dentro
canalizzata per alimentare orge trash, serate tekno votate spesso più
alla (auto)distruzione, non prima di aver attinto ad ampie mani
all'energia necessaria per tirare l'alba. Fino a quando sperperata
ogni forza vitale ci si trascina come zombie per depositare da
qualche parte le carcasse vinte dalla stanchezza, dagli eccessi.
A dispetto di tale
trend si voleva utilizzare quei luoghi per un altro uso più incline
a rigenerare l'energia. Per ottenere tale obiettivo c'era alberto con
il reiki, olga con lo yoga, più la sessione finale del laboratorio
di dance trance. Alberto con i suoi amici avevano anche allestito di
fianco alla palestra il loro banchetto di erbe sacre, infusi
miracolosi, dolcetti vegani attingendo ampiamente all'esperienza
maturata da alcuni di loro nel lungo ritiro shamanico in perù. Fuori
il banchetto, dentro la stanza adibita a tessuto i materassi
necessari per equilibrare l'energia dei centri vitali intasati con
quella cosmica.
L'appuntamento per
tutti gli organizzatori era per il primo pomeriggio, anche perché
l'evento sarebbe cominciato in teoria per le quattro. Alle quattro e
quaranta, tolto il puntualissimo gruppo reiki, degli altri nessuna
traccia. Le casse, lo strumento magico per creare il miracolo di
“oltre l'orto...”, ancora parcheggiate dentro casa sound. Cosa ci
vuoi fare. Fino alla fine sul filo di lana. Secondo una lontana
tradizione del posto. Quando già inizia a arrivare la gente si
comincia con la relativa calma l'opera di trasformazione. Nell'attesa
va bene pure un vecchio stereo portatile preso dalla palestra dal
costa. Quanto basta per diffondere vecchie arie di blues elettrico.
Alla fine arrivano tutti. Per ultimo jimmi l'esperto del suono. Senza
pensare ad altro ci si mette all'opera. Si stendono i fili tutto
intorno, si collegano le tredici casse posizionate in serie una
dietro l'altra lungo il perimetro, sotto i bancali per inondare di
suoni l'atmosfera con naturalezza. Alle sei in punto tutte le casse
sono collegate non senza aver prima dovuto risolvere una serie
infinita di problemi tecnici contingenti. Per chi ha lavorato di
forbici e cacciavite è già un miracolo essere riusciti a tanto.
Un'impresa all'apparenza disperata. Eppure vuoi per l'aiuto degli
amici, vuoi per l'esperienza di jimmi, non senza fortuna il miracolo
si compie. Ora la prova della verità. Un attimo di silenzio. Vai con
il volume. Voilà la musica mixata da jaba ad avvolgere i presenti
dal basso, di lato con la stessa fragranza del cottonfioc. La stessa
sensazione di quando si accende la televisione. Un nuovo mondo
all'improvviso come se tutto quanto prima non fosse mai stato. Un
miraggio condiviso. Una visione per un giorno. Un universo sorto
dall'intento comune di far emergere qualcosa di bello prima di
sottrarsi di nuovo a fine serata nell'oscurità, nel silenzio. Per
nascondersi ancora in qualche luogo arcano in attesa di manifestarsi
ancora sotto nuove forme.
Intanto però le
vecchie sedie arrugginite, i tavoli di legno consunti, i banconi
della mensa prendono vita, si animano di luce. Una leggera vibrazione
attraversa tutti. Le ragazze di tessuto mettono a disposizione i cibi
cucinati in casa. Si prepara al volo le tisane di salvia, rosmarino,
finocchio selvatico. Si riempono i bicchieri con lo sciroppo di
sambuco, il caffè d'orzo della zia anita. Si mescolano animosamente
i dieci litri di sangria nel pentolone.
Mezzanotte.
Come d'incanto si
chiude il sipario.
La gente lascia
lentamente il palcoscenico.
Si spera più felici
di prima.
Si spengono le luci,
la musica.
A un tratto gli
oggetti tornano nell'oscurità, le panche a essere solo vecchi pezzi
di legno tarlato. Le poche persone che restano si confondono con la
tappezzeria del posto.
Da fuori solo il
rumore sordo delle ruote sull'asfalto a rompere il silenzio sottile
piombato all'improvviso.
martedì 19 maggio 2015
Un forno impossibile o il teatro delle celebrazioni
Lo avevano concepito
in inverno.
Un'idea semplice.
Fare il pane con gli
amici.
Autoproduzione come
oggi si sente spesso dire.
Non solo.
A muoverli un certo
fascino per il fuoco.
Uno dei quattro
elementi fluidi insieme all'acqua, l'aria e la terra. Per il suo
potere di trasformazione.
Vi va di costruire
un forno a legna?
Stavamo pensando la
stessa cosa.
Occhei. Facciamolo.
A natale scesero
tutti a campobasso.
Per quasi una
settimana studiarono il modo.
Poi un giorno ecco
il progetto prendere corpo.
Anche perché come
un'idea contagiosa tutti intorno a loro si erano fatti in quattro per
renderlo possibile a partire dalla ricerca delle materie prime.
Una mattina presto
dentro il garage del nonno vincenzo, le vecchie e le nuove
generazioni decisero di mettersi all'opera.
Esperienza da
vendere unita al vitalismo, alla spensieratezza senza tempo. Ora dopo
ora il forno cominciava a prendere forma sopra un carrello
industriale a tre ruote arrivato lì in qualche modo.
Già questo venne
percepito come un piccolo miracolo.
Ma senza immaginarlo
si era solo all'inizio.
Il problema ora era
dove portarlo.
Vari tentativi in
alcuni centri sociali, associazioni culturali.
Senza mai trovare la
quadratura del cerchio.
Poi un giorno
l'intuizione giusta.
Camere d'aria.
Lo spazio dei
laboratori partot, del festival della zuppa.
Un po' fuori dal
centro.
Quanto basta per non
essere sopraffatti dal caos cittadino, dalla frenesia contagiosa
degli studenti. La distanza giusta per vedere le cose con distacco,
lì a un passo dai binari della ferrovia, barriera insormontabile ma
anche punto di fuga verso l'infinito.
A vegliare in
silenzio sopra tutto santa rita da cascia la patrona del quartiere,
la santa dell'impossibile manco a dirlo.
Trovato il posto ora
bisognava capire come spostare il forno a ruote di cinquecento
chilometri. Un carretto mobile si fa per dire di più di mille chili.
Senza mai un dubbio.
Con una certezza
cieca di riuscire.
Tutto il prestigio
di una vita, le conoscenze giuste del nonno vincenzo per trovare un
camion diretto a nord.
Ma non bastava.
Una volta arrivato
come scaricarlo a destinazione?
Niente paura. Ecco
comparire dal nulla branco un rom bosniaco. Lui non abita nei campi
ma in una casa con la famiglia. Per vivere raccoglie ferro vecchio
con il suo furgoncino munito di gru.
È lui a prendersi
l'onere di sollevare il forno per poggiarlo nel giardino di camere
d'aria.
Più facile a dirsi.
Anche perché del
forno si era vista solo qualche immagine digitale.
Alla fine il grande
giorno era giunto!
La mattina dopo
averlo sistemato nel retro del camion con un muletto era partito in
direzione nord.
Lo si aspettava per
sera.
Verso il tramonto.
Fino a allora tutti
in trepidazione.
Un giro di voce per
mettere insieme braccia robuste e intelligenti. Non si sa mai.
L'appuntamento fuori
l'uscita della tangenziale.
Alla fine ci si
trova un poco più in là lungo la rotonda sotto la tangenziale a un
passo da via massarenti.
Un camion, meglio un
tir con rimorchio tutto bianco.
Mastodontico.
Oltre ogni
aspettativa.
Sorpresi da tanto si
va verso camere d'aria passando per viuzze strette. Via guelfa la
destinazione. Un via costruita per andarci a cavallo in carrozza non
certo per lanciare i 1000 cavalli ruggenti tenuti a freno sotto
l'acceleratore.
Branco con il
camioncino è già a camere d'aria.
Non senza difficoltà
arriviamo a destinazione.
La strada antistante
viene completamente saturata dal camion.
Il traffico
bloccato.
Impossibile
realizzare l'intento lì.
Non c'è abbastanza
spazio.
Dall'alto della sua
esperienza tiziano, il camionista dà la soluzione.
Cercare uno spazio
aperto dove caricare il forno sul camioncino di branco.
Per uscire da quel
buco una curva a novanta gradi.
Le macchine
parcheggiate a stringere la carreggiata.
Si sfiorano gli
specchietti retrovisori.
La velocità quella
di una lumaca.
Come pensare di
passare tra calli e canali con un transatlantico.
Alla fine riusciamo
a prendere il largo.
Con branco in testa
usciamo dal centro abitato.
Ora il motore può
ruggire tutta la potenza fino allora frenata.
Giunti in un grande
parcheggio i due mezzi si affiancano.
La stessa manovra di
una piccola astronave in procinto di attraccare sull'astronave madre.
Tiziano dopo aver
visto i mezzi a disposizione sembra sconfortato. Non dice nulla. Lo
si vede chiaramente. Nessuno osa dire una parola. L'aria è sospesa.
La tensione a mille.
Non c'è tempo di
fare previsioni.
Si può solo agire
incrociando le dita.
O la va o la spacca.
Tertium non datur.
Tiziano si muove sul
camion come una scimmia.
Salta da tutte le
parti, si arrampica fino al soffitto.
Tocca bottoni per
aprire il tetto.
Scioglie nodi per
liberare il forno dai lacci.
Ora tocca a branco.
Dopo aver avvolto in
fasce il forno, averlo assicurate al gancio del braccio meccanico
sale in sella alla gru.
Nessuno batte
ciglia.
Tanta la souspance.
Il motore sotto
sforzo fa la voce grossa.
Sbuffa come un toro
legato al palo.
Per il peso il
camioncino oscilla paurosamente.
Tutto è in
tensione.
Uno sforzo di troppo
potrebbe innescare reazioni imprevedibili.
Meglio stare
distanti.
Non si sa mai.
Il forno alla fine
si solleva leggermente.
Quasi incollato a
una calamita.
Un ulteriore colpo
all'acceleratore.
Preso per le corna
il toro alla fine molla la presa.
Non senza rumori
sinistri.
Un attimo di
sospensione in aria.
Poi lentamente si
accovaccia dentro la pancia vuota del camioncino schiacciandolo a
terra.
Metà lavoro è
fatta.
Per difenderlo dalle
forze centrifughe si decide di lasciare la gru con i cavi in
tensione.
Moh bisogna
spostarlo più lentamente possibile in direzione di camere d'aria.
Metro dopo metro la
meta si avvicina.
L'ostacolo più
grosso un passaggio a livello.
I fili elettrici a
una spanna dalla sommità della gru. Ce la farà? Tutti a trattenere
il respiro. Dentro una fiducia irreale. Oltre ogni ragionevolezza.
Questioni di centimetri. Il camion passa. Salvata la pelle anche
questa volta. Osare senza se, senza ma.
L'ulteriore prova i
dissuasori del traffico.
Superati alla
velocità di una formica.
Il freno tirato per
annullare il dislivello senza danno.
Arriviamo a camere
d'aria sulle ali dell'entusiasmo.
Niente sembra
riuscire a fermare l'allegra brigata.
Branco branco, leò
leò.
Con meno patemi si
sposta il forno nel suo luogo naturale di fianco al muro
dell'edificio. Non prima di aver dovuto superare la recensione alta
un paio di metri. Come un salto in alto prima di atterrare sull'erba
morbida.
Anche stavolta tanti
i problemi da risolvere ma con la consapevolezza di averlo già
fatto.
Alla fine tutti a
guardare increduli il forno a terra.
Una cosa impensabile
fino a pochi minuti prima.
La sensazione di
aver partecipato a qualcosa di straordinario.
Un miracolo degno
della santa dell'impossibile.
E non si pensi ai
rom solo come ladri.
Le parole
soddisfatte di branco.
Affaticati più per
lo sforzo mentale a fronte di tanto eccesso, con lo stomaco vuoto è
ora di terminare la serata in cucina.
A attenderci i
resti della cena della sera prima.
Finalmente un po' di
pace.
Seduti sul terrazzo
all'aperto a rivivere quei momenti impressi a fuoco sulla retina. Un
vertice esperienziale difficile da descrivere a parole, da riuscire a
comunicare ai più.
sabato 16 maggio 2015
Neverland
Per accedere all'isola che non c'è
bisogna staccarsi da terra.
Saper volare.
Andare oltre le apperenze
la sensibilità comune.
Non si tratta tanto di spostarsi in un luogo remoto,
in qualche spiaggia esotica
come qualcuno crede.
E' lì a portata di mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un mondo apparirà.
Di una luce, una completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo
bisogna staccarsi da terra.
Saper volare.
Andare oltre le apperenze
la sensibilità comune.
Non si tratta tanto di spostarsi in un luogo remoto,
in qualche spiaggia esotica
come qualcuno crede.
E' lì a portata di mano.
Basta volerlo
con tutto se stessi
per varcare la soglia
da sempre aperta
lì a un passo.
Prima però bisogna sciogliere i lacci,
rompere gli ormeggi
farsi leggeri,
piccoli piccoli.
Allora forse un mondo apparirà.
Di una luce, una completezza, un'armonia straordinarie.
Basta volerlo
venerdì 13 marzo 2015
Byrdman 2
Una vita allo
specchio.
La caduta dal
paradiso sembrerebbe quella di essere entrati nel mondo della
dualità, dell'immagine riflessa, del giudizio dell'altro, il dover
essere secondo il proprio ideale, gli altri, la società. Tutto ciò
per nutrire la propria presunzione, hybris.
Il teatro, ma più
in generale la città, il luogo labirintico, claustrofobico della
mente dove si gioca il ruolo del soggetto rappresentato. Sia nella
scena ma soprattutto dietro le quinte, nel camerino, al bar, per
strada. È lì che la “macchina antropologica” lavora
sotterraneamente nella costruzione delle parti, nell'identificazione
ripetuta dei ruoli fino a incarnarli profondamente. Luogo eminente
dello specchio. Sottolineato dalla presenza costante degli specchi.
Sia reali nel camerino dove guardarsi, identificarsi in un ruolo, sia
simbolici come il volto dell'amata o la critica, il pubblico durante
la rappresentazione per sedurli con il proprio fare.
La vera battaglia
non è tanto quella di convincere di essere autorevoli, di crearsi un
prestigio, quanto uscire da quella macchina diabolica nel senso
letterale di macchina della divisione, della scissione tra la vita e
la conoscenza e della riarticolazione delle parti. I frammenti da
riassemblare, mettere insieme all'infinito. Uno sforzo pari a quello
di Sisifo.
Aprire una finestra
verso l'ignoto l'unico modo reale di trovare la via della libertà.
Dal punto
di vista formale la continuità della vita prima e dopo l'incidente,
Un piano sequenza ininterrotto. Il rullo dei tamburi gli accenti
emotivi a colorare la continuità. In mezzo c'è il suicidio tentato
poi il sonno, il coma. Un momento di sospensione dove trovare pace,
un insieme di immagini discontinue, fino a arrivare a vedere le
stelle, la luce. Ma non è ancora tempo. La morte non è stata
perfetta. Giù allora gettati di nuovo a incarnare una nuova “vita”.
Al punto che tra il prima e il dopo lo stesso personaggio sembra
irriconoscibile, direi un altro attore, sottolineato dalla
tumefazione tra occhi e orecchio come una maschera nera a nasconderlo
ancora come una foglia di fico.
lunedì 2 marzo 2015
Byrdman
Birdman come il nome
dice è l'uomo uccello.
Suo anelito quello
di volare, vincere la gravità.
Per tomshon l'aver
interpretato il ruolo di super eroe a hollywood non basta più. Là
si gioca ancora con la finzione, si fa cinema d'intrattenimento.
A teatro invece
tutta un'altra musica.
In attesa della
prima.
Il punto di collasso
dove la vita reale coincide con il copione trasfigurandosi.
Teatro di vita dove
si mette in scena la verità, se stessi a nudo.
E non si gioca più.
All in.
Tutta la personale
reputazione, il prestigio, per non parlare del denaro, ma ancor più
la propria vita sul piatto.
Si può vincere o
perdere tutto.
La sfida è comunque
di superare il limite.
Quel confine tra la
dura verità quotidiana e i propri sogni.
Il premio il salto.
Per sanare quella
schizofrenia delirante tra desiderio e realtà.
Con essa bisogna
fare i conti.
Per ottenere tale
risultato bisogna riuscire a far andare ogni cosa a tempo debito,
controllare le proprie emozioni, gli imprevisti, le idiosincrasie
degli attori presenti. La macchina teatrale come una macchina
alchemica per funzionare a puntino deve essere perfetta. Ogni
tassello da tutto il suo contributo fondamentale. Spendendosi fino
all'ultima goccia. Una gara di resistenza a oltranza. Uno sforzo
immane. Basta un comportamento automatico agito all'improvviso per
far saltare tutto. Ecco allora uno scatto d'ira, di gelosia
sottolineati dal rullo dei tamburi. Per evidenziare la deriva
macchinica involontaria di ogni personaggio. La catena di risposte
automatiche incontrollabili. Un niente per far saltare tutto. Via
allora dentro il camerino o qualsiasi altro posto intimo solitario come la ringhiera di un terrazzo a un passo dal vuoto. Il luogo purificatore dove ci si
ricostruisce, si trova un equilibrio precario, si mette limiti per ripartire, per
superare le crisi d'identità.
In ogni caso dopo lo
spettacolo niente sarà come prima.
Perché ogni volta
si muore per rinascere ancora.
La speranza quella
di spiccare il volo per sempre, non cadere giù di nuovo.
Si vorrebbe essere
solo l'eroe invincibile con tanto di poteri.
Triste il risveglio.
Dopo aver toccato il
cielo con un dito ci si sveglia nel letto di un ospedale.
Con una
nuova maschera, un nuovo volto.
Un attimo per
riconoscersi davanti allo specchio per una ulteriore identificazione
narcisistica. Il passo necessario per ricominciare un nuovo copione,
un'ulteriore storia.
L'alchimia di
saltare nella nuova dimensione non ha funzionato.
Il ciclo delle
incarnazioni fa il suo giro.
Basta solo averne la
coscienza per spezzarlo.
Non giocare più.
Prendere il volo
dalla finestra.
L'ultimo atto
liberatorio.
Comunque niente di nuovo.
Già edipo, la tragedia greca avevano detto tutto al riguardo.
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