martedì 1 febbraio 2011

Traversata polare

Anche oggi sono tolti gli ormeggi.
Notte fonda.
La luce non filtra ancora.
L'importante è partire.
Ancora più stare in viaggio.
Togliersi dalle secche stagnanti dove ci si perde di noia.
Dove ogni meccanismo si arrugginisce fino alla paralisi.
Un brivido percorre la schiena.
Paura di perdersi ancora.
Di girare a vuoto.
Troppa vasta la distesa per pensare di arrivare.
Un passo ancora per capire di stare solcando sempre gli stessi luoghi.
Uguali eppure ogni volta differenti.
Apro il libro.
Comincio a leggere frasi una dietro l'altra.
Man mano la trama si fa lassa.
Comincio a vacillare.
In ogni parola si apre l'abisso.
Il senso sprofonda.
Relazioni infinite si intrecciano a perdersi.
Percorsi possibili si rivelano senza sosta.
Ogni inizio è solo un rinviare a altro.
Uno spostamento continuo dopo un collasso puntuale di significati.
Fino al punto sogliare di esplosione.
Il momento del trascendimento, della disseminazione centrifuga, tritatutto.
Come uscito dalla tenda rossa dopo il precipizio.
Muovo i primi passi sul pack gelido.
Tutto appare immobile, cristallizzato.
Passo dopo passo il ghiaccio comincia a scricchiolare sotto i piedi.
Iniziano a comparire i primi solchi accompagnati da rumori secchi poco rassicuranti.
La distesa senza orizzonte, né alto ne basso, destra o sinistra è in procinto di infrangersi.
Le crepe si stagliano profonde.
Passo dopo passo il ghiaccio comincia a sciogliersi, a frammentarsi in blocchi via via più piccoli.
La coltre ghiacciata si svela sospesa sull'oceano.
Circondata da tutte le parti da acqua gelida.
I frammenti di crosta diventano sempre più piccoli, sottili.
Il cammino non è più agevole.
Il suolo comincia a traballare.
In alcuni punti si inabissa.
L'equilibrio si fa precario.
Si aprono fessure preoccupanti.
Le zolle bianche sono sempre più fluide, dinamiche.
Come attirate da una forza irresistibile si perdono alla deriva.
Passo dopo passo salto da uno scoglio a l'altro.
Per non cadere dentro un mare scuro vischioso come la melassa.
Il percorso è sempre più irto e difficoltoso.
Tutto è diventato instabile, precario.
Come stare sopra le sabbie mobili.
In ogni istante si può affondare.
Man mano diventa difficoltoso anche saltare.
Aumenta il rischio di cadere in acqua e rimanere intrappolati in un gelo paralizzante come la morte.
Anche oggi si farà naufragio.
Senza scialuppa.
Per quanto si potrà resistere in apnea.
Quale nuovo limite di profondità sarà raggiunto?
Si riuscirà a emergere ancora?

lunedì 10 gennaio 2011

Una rotonda sul mare...

Ro-to-nda!!!
Ro-to-nda!!!
È lo slogan più ammaliante urlato in critical mass.
Di certo il più seguito.
Catturati da tale richiamo, un manipolo di ciclisti variopinti con un sorriso infantile scolpito si lancia a tutta birra intorno a una rotonda.
Non vorrebbero smetterla più.
Unooo...
Duuuuue...
Tre passaggi inebrianti.
Fino al capogiro.
Una volta ubriachi d'estasi...
Via verso altre mete impreviste.
A ruota...
Dietro l'occasionale condottiero come uno sciame d'api a ritmo di trance.
Morire di rotonda per una ciclofficina è un drammatico paradosso.
Una beffa bella e buona.
Settembre la data fissata.
Il tempo della vendemmia e della spremitura.
L'ultimatum è già in atto.
Rimane da contare i giorni sul calendario.
La città del futuro ha deciso.
Ha fretta di conformare il territorio a sua immagine.
Vuole veicolare la circolazione a suo piacimento secondo ritmi ordinati.
Alla bici si è preferita ancora la macchina.
Un nuovo asse di scorrimento veloce per una società sempre più frenetica.
Una grande rotonda in piena bolognina.
Il cuore pulsante di Bologna.
Alla confusione di un tessuto urbano brulicante di vita, di piccole realtà locali multietniche, frammentarie, lente, si appone tramite un enorme sigillo circolare la certificazione dell'ordine, della forma perfetta del potere.
Il cerchio.
La figura più emblematica e affascinante di tutte.
La linea piegata su se stessa.
Dove ogni punto è equidistante dal centro.
Così ogni inizio coincide con la fine.
Per un'armonia prestabilita fuori dal tempo, dalla storia.
La rotonda come “non luogo” per eccellenza.
Crea distanze incolmabili.
Ci si può solo rincorrere intorno.
Senza prendersi mai.
Come in tanti scatch comici.
Un girare continuo a perdersi.
Per trovarsi alla fine al punto di partenza.
Niente più incontri occasionali.
Scontri fortuiti dove ci si possa guardare negli occhi.
Salutarsi.
Il nuovo corpo sociale si è dotato di un ulteriore by-pass per aumentare l'efficienza della circolazione intasata.
Vuole scongiurare l'infarto preannunciato.
Non sa vedersi in altro modo.
Né trovare soluzioni alternative.
Intanto, con la stessa efficacia di una lama circolare sulla sfoglia appena stesa per i tortellini, sferra un fendente sul territorio capace di squarciare in due l'Xm, mutilandolo della palestra e delle cucine.
Cioè delle sue funzioni viscerali vitali.
Una ferita mortale difficilmente suturabile.
Come tagliare un corpo a metà.
Dopo sarà solo un'agonia veloce.
L'apocalisse alle porte.
Ben prima di quella astronomica dei Maja.
Non senza fragore una nuova armonia sta per essere affermata.
Per le realtà autoctone emerse nel frattempo rimarrà la via dell'esodo o dell'estinzione nell'indifferenza.
Poi solo il silenzio.
Perduti nei lager della memoria, dimenticati dai più, verranno rimpiazzati da nuove presenze all'apparenza pacificate, di bell'aspetto.
Resterà solo il nome vuoto.
Dopo l'Xmercato.
L'XXmercato.
Secondo la dura legge del divenire.
Del superamento infinito in altro.
E amen e così sia.
E mó che si fa?
Si continua a ballare come sul Titanic?


Tre... due... uno... zero...
E se invece di resistere si accelerassero i tempi?
Se apocalisse deve essere...
Allora prima possibile.
Anzi subito.
Per non cedere alle imposizioni di questo sistema esponendosi alla contrattazione, allo scambio.
Via, andare via!
Abbandonare tutto così com'è.
Disperdendosi.
Suicidandosi in un improbabile esodo.
Scomparendo silenziosamente.
Come fosse scoppiata di botto una bomba termonucleare.
Quegli ambienti degradati, eppure ancora carichi di senso, di orari fissati, di codici, di scadenze temporali, di routine, verrebbero riconsegnati di nuovo al caos, alla disorganizzazione assoluta. In opposizione totale a tutto quanto lì intorno reclama invece a gran voce cultura, progettualità, ordine, funzionalità, partecipazione.
Di punto in bianco quegli edifici vuoti, aperti a chiunque indiscriminatamente tornerebbero a far parlare.
Innanzitutto i frequentatori del mercatino biologico posti di fronte all'assenza delle bancarelle di frutta e verdure. Poi i ciclisti con i loro rottami in cerca di uno spazio d'accoglienza. Sino al popolo della notte trovatosi di colpo al buio, costretto a dribblare alla cieca i corpi stanchi di barboni nascosti sotto i cartoni.
Alla fine quell'assenza satura di significati, non traducibile simbolicamente, inscambiabile, risulterebbe insopportabile per tutti.
Come un cancro a ciel sereno.
Spiazzante e imprevisto.
Cosa fare ora?
Come impiegare tutto quello spazio vuoto?
In che modo ricambiare quel dono inatteso, quell'obbligazione inaggirabile capace di tenere sotto scacco il sistema, costretto a trasformare il niente in qualcosa, il non senso in un valore ulteriore.
All'inizio da convento a caserma fascista.
Poi da luogo di smistamento per i campi di prigionia a mercato ortofrutticolo.
Infine centro sociale.
E poi...
Dopo l'ennesimo sterminio di senso...
Cos'altro ancora?
Come convertire quel cumulo di rovine stratificate, ancora vive e urlanti?

mercoledì 5 gennaio 2011

A che gioco si gioca oggi...

Frapporre fra sé e i propri desideri una parte, un compito, una prestazione, un fare.
Per attivare dinamiche sotterranee sottaciute.
Per mettere in atto il copione di sempre.
Cercare lo sguardo dell'altro, venire riconosciuti.
Dietro si cela il voler essere amati in modo assoluto.
Senza condizioni.
A prescindere.
Invece tocca atteggiarsi, assumere un ruolo, una pratica.
Mettersi a disposizione.
Facendo finta che...
Come bambini immersi in spazi transizionali intenti a giocare al dottore, alla guerra, con le costruzioni.
Solo a queste condizioni accade qualcosa.
Si genera una storia.
Si immagina un mondo circoscritto condiviso.
Lavorando su tali piani paralleli si prova a smuovere le acque, a cambiare indirettamente il presente, la realtà.
Questioni di tecnica...
Tutto per colmare quel bisogno ancestrale d'affetto.
Eppure anche questo desiderio profondo potrebbe rivelarsi una fra le tante maschere possibili.
Quella indossata pensandola più autentica delle altre.
Magari, dopo averla realizzata, rimarrà solo la noia.
Poi il trascendimento verso qualcos'altro.
Agiti da quella potenza originaria capace di travolgere spasmodicamente ogni valore senza remore.
E cosi via...
Un altro giochetto ancora.
Quale questa volta?
Osservo stupito gli amici della ciclofficina sistemare pedantemente gli strumenti.
Al freddo.
Da soli.
Anche durante le vacanze natalizie.
Quando i normali utenti sono a casa a mangiare dolci, a giocare a carte.
Loro invece pensano già alla riapertura.
Sistemano gli attrezzi.
Fanno l'inventario.
Verificano quelli persi, rubati.
Per sostituirli con altri nuovi.
Si compila la lista della spesa.
- 3 tubetti di mastice
- 1 scatola formato famiglia di toppe per camere d'aria
- 50 metri di guaina per freni
- 20 cavi freno posteriore testa cilindrica
- 10 cavi freno posteriore testa sferica
- 1 smagliacatena
- 1 estrattore per pedivelle a perno quadro
Una voce dopo l'altra.
Rigorosamente in fila.
Per accogliere al meglio in quella piccola oasi propizia la massa di gente con la bici incidentata.
In attesa di un nuovo possibile miracolo.
Per me invece, in questo momento, si tratta di redarre il catalogo del nulla puro.
Parole vuote senza rimando.
Segni privi di mondo.
Indifferenza totale.
Per loro non è così.
Lo si vede dallo sguardo, dal sorriso.
Sembrano manipolare qualcosa di prezioso, di imprescindibile.
Come l'acqua nel deserto.
Quasi si trovassero di fronte allo shangri-là.
Con gli occhi lucidi accarezzano ogni singolo arnese.
Ci girano attorno.
Quando non lo trovano stanno male.
Toccano con mano il posto vuoto.
Senza scomporsi.
Se ci sono ancora, prendono i pezzi rimasti.
Con cura provano a compiere il miracolo della restaurazione.
Ci passano ore e ore.
Tentando di razionalizzare, ordinare il resto di nulla.
Tessendo scopi, finalità.
Non riescono a staccarsi da quel compito.
Stanno per andare via...
Tornano indietro.
Riprendono dove avevano lasciato.
Come si fosse dentro una rappresentazione teatrale di Beckett.
Davanti a attori incantati, mossi da scopi, desideri lontani.
Nell'attesa degli eventi distribuiscono amore a tutti quegli oggetti.
Per predisporli.
Li guardo incredulo.
Oggi non riesco proprio a immedesimarmi.
A mettermi nei loro panni, nei loro riti.
Qualcosa mi sfugge.
Le loro pupille brillano come fossero posseduti.
Allo stesso tempo li percepisco disumani, meccanici.
Simili a quei bambini autistici intenti nei loro rituali ritmati.
Tutto d'accapo all'infinito.
Senza fermarsi mai.
Cosa li muove...
Cosa vedono lì davanti...
Forse è solo questione di prospettiva.
Basterebbe spostarsi di poco per vedere dietro il muro.
Per riuscire a dare un senso.
Non accade.
Alla fine un solco abissale ci divide.
Una distanza incolmabile.
Allora non vedo l'ora di bruciare le tappe.
Di abbattere ponti.
Per andare via prima possibile.
Prima di essere risucchiato dallo sprofondare continuo della terra sotto i piedi.
Il respiro si fa difficile.
Sto in apnea.
Devo emergere da qualche altra parte.
Per non soffocare.
Mi metto i guanti.
Prendo la bici.
La stretta al petto è sempre più forte.
Non resisto.
Salgo.
Comincio a pedalare confuso.
Diretto più lontano possibile.
L'importante è uscire fuori.
Magari per dirigermi verso casa.
A pensare.
Per dare la possibilità a nuovi germogli, a nuove radici di crescere.
In attesa della manifestazione di un nuovo mondo condiviso.
Intanto si è in balia del vento.
Sbattuti in terre aride aliene.
Senza alcuna possibilità di contaminazione.
Si può solo prendere tempo.
Per un po' me ne sto in disparte.
Da solo.
Aspettando un cambiamento.
Proficuo.
Per tutti.
Continuando a resistere.
A lottare insieme.


P.s.
Dopo infinite discussioni è ricomparso nella lista della spesa anche il fatidico centraruote...
A quanto pare uno strumento imprescindibile nell'attuale imprinting genetico della ciclofficina. Pronto a fare capolino quando meno te lo aspetti.
Stando a recenti studi esegetici...
Quando Mosè scese dal monte Sinai con le leggi in mano, trovò gli israeliti in adorazione davanti a un "centraruote d'oro”.
(Grazie Sofista per la citazione dotta).
Non se ne esce...

venerdì 24 dicembre 2010

Galeotto fu...

Cena yoga prima di natale.
In tutto una decina di partecipanti.
Tra di essi Francesca.
Gli era piaciuta sin da subito.
Sebbene il loro rapporto non fosse semplice né lineare.
Francesca era stata toccata dalla vita.
Il suo equilibrio ne aveva risentito.
Da primogenita aveva dovuto sopportare da sola il peso della crisi. La frantumazione del suo mondo “naturale”, la famiglia.
L'umore era soggetto a sbalzi improvvisi.
Da allora i suoi occhi non avevano smesso di urlare in silenzio.
Increduli di fronte a quella realtà disarmante, imprevista.
Impossibile affrancarsene.
Si era dovuta presto abituare a vivere con la terra tremante sotto i piedi.
In attesa del crollo.
Quando capitava di botto, senza preavviso.
Non c'era tempo per la disperazione.
Si doveva ripartire.
Senza fiatare.
Fosse concesso avrebbe preferito affondare indolentemente.
Non senza autocommiserarsi un po'.
Tanto nessuno perde tempo a ascoltarti, a comprenderti.
In questi casi ci si può solo rialzare.
Da soli.
In silenzio.
Per ricominciare a marciare come nulla fosse successo.
Perché il mondo intorno non si ferma a aspettarti, va avanti.
Allora sei costretto a rincorrerlo con affanno.
Non c'è mai tregua.
Né pace, né vacanza.
Il tour de force della vita.
Quel giorno era cambiato qualcosa.
Lo aveva cercato lei con lo sguardo.
Fin da subito.
Da quando si erano incontrati all'appuntamento pattuito.
Mostrando un sorriso delicato, accogliente.
Il suo corpo si avvicinava con naturalezza.
Senza frapporre ostacoli.
Davanti al bicchiere di birra smezzato insieme si era aperta.
Di più...
Aveva rilanciato.
Quando mi inviti a casa?
Lui era rimasto sorpreso da tale slancio.
Ma anche contento.
Prima possibile...
Magari dopo le feste...
Porta anche i libri.
Così si studia insieme.
Poi dalla borsa tira fuori un fumetto.
Appena letto te lo passo.
Attraverso quella borsa si era spalancato un varco nella sua intimità, nei suoi interessi quotidiani.
Un modo per donarsi all'altro.
Senza barriere.
Con naturalezza.
Aveva fatto centro.
Anche lui era un appassionato di fumetti.
Restava il fatto della novità.
D'incanto le porte del suo intricato labirinto si erano spalancate.
Ora era concesso penetrare nei suoi santa santorum.
Non c'erano più impedimenti.
Quale chiave aveva aperto le serrature.
Cosa era successo?
Quella notte la luna aveva virato prepotentemente verso il rosso per scomparire del tutto dietro uno sfondo nero impenetrabile come non mai da più di quattrocento anni.
Quella notte solstizio d'inverno astronomico, calendariale, luna piena, eclissi totale erano collassati.
La notte più buia di tutte.
Senza l'illuminazione del sole, ora anche della luna.
Rimanevano solo le stelle lontane anni luce.
Quando alla fine della sera si salutarono.
Lo fissò intensamente.
Poi lo accarezzo delicatamente sul volto.
Lui non comprese subito.
Rimase spiazzato.
Sebbene avesse portato con sé quella carezza come un bene prezioso.
Custodendola nei suoi pensieri.
Fino la mattina seguente.
Quando la nebbia si diradò lentamente.
Sensibilizzata a sopravvivere davanti alla vita cieca, ottusa, Francesca aveva risposto.
A modo suo.
Con tutta se stessa.
Nonostante la voragine spalancata da tempo sotto i suoi piedi.
Un doppio salto carpiato nel vuoto.
Lo avrebbe capito?
Sarebbe stato altrettanto sensibile da accoglierla?

domenica 5 dicembre 2010

Mattina presto in stazione

Otto e trenta di mattina.
Stazione di Bologna.
Binario sette.
Tra cinque minuti parte il treno per Ancona.
Oramai sono diventato il pendolare del soccorso.
La mamma chiama...
Mi tocca scendere.
Fuori piove.
Una pioggia finta.
Secondo Vera.
Una giovane amica austriaca.
Ti bagna ma non la vedi.
Il binario è pieno di persone in attesa.
Sono tutte tristi.
Come le passioni dei nostri tempi.
Immobili nella loro routine quotidiana.
Come ogni giorno aspettano il treno per andare a lavoro, a scuola.
Non fa differenza.
I volti non esprimono nulla.
Se non rassegnazione.
Sono tutti vestiti bene.
Senza essere ricercati.
Sobri fino a scomparire nel grigiore della stazione.
Stanno in fila ordinati.
Nessuno fischietta, sorride, dialoga.
Le labbra sono serrate.
Mute.
Gli occhi spenti.
Assenti.
Qualcuno rimbalza lo sguardo sul giornale.
Per circoscrivere recinti.
In tale clima plumbeo a parlare sono i monitor della pubblicità.
Di auto.
Oggetti fashion.
Usano colori accesi.
En pendent con i toni delle superfici da poco rinnovati.
Dovrebbero stimolare.
Provocare sensazioni piacevoli.
Invogliare.
Far agire.
Anche grazie alla musica di sottofondo.
Solitamente motivi esotici, spensierati.
Il tutto stona assai con l'atmosfera presente.
Nessuno ci fa più caso.
Il monitor vicino le scale ha una cassa andata.
Il suono è sparato al massimo.
Va in distorsione battente.
Secondo un ritmo costante.
Sembra un effetto ricercato.
Da fastidio.
Tutti sono irreprensibili.
Come non ci fosse.
Non lo udissero.
Inabissati metri e metri nei loro bunker.
Nessuno si prende la briga di cercare il telecomando per spegnerlo.
Oppure la spina per staccare lo strazio.
Andrebbe bene anche scaraventare con rabbia la propria ventiquattrore di plastica dura contro lo schermo.
Fino a frantumare la superficie.
Per far uscire la materia grigia.
Transistor, fili, schede elettriche.
Come fuochi d'artificio.
Nessuno compie tale gesto caritatevole.
Sono tutti sprofondati nel buio peso.
Con lo spirito vitale lasciato a dormire sotto le lenzuola.
Non è ancora ora di svegliarsi.

mercoledì 24 novembre 2010

Come l'uomo ha imparato a non preoccuparsi e amare la bomba

La massima potenza trasformativa nasconde la massima potenza distruttiva.
L'acme è anche abisso.
La vita morte.
La fine l'inizio.
È qualcosa di inscritto all'interno della natura.
L'uomo ne incarna solo uno dei tanti aspetti.
Quello in cui il connubio apoteosi, devastazione è spinto più in là di tutti.
Non sembrano esserci soluzioni di sorta.
O sospendersi.
Contenendosi.
O darsi da fare.
Liberi da ogni resistenza.
Senza più freni.
Comunque fine programmata sarà.
Tanto vale imparare ad amare il proprio destino.
Ma se apocalisse deve essere.
Allora perché non la più spettacolare possibile.
Coinvolgente quanto quella testimoniata dalle foto delle radiazioni cosmiche di fondo emesse dopo il Big Bang.
L'inizio di tutto.
Questa volta per essere testimoni dello spettacolo della fine.
Per l'avvio di un nuovo improbabile Big Bang.
Attivandoli con un semplice bottone.
Come nel film di Kubrick Il dottor Stranamore.
Per essere protagonisti assoluti.
Allo stesso tempo spettatori rigorosamente in prima fila.
In ogni caso, sempre meglio morire a cavallo di un surf lanciati a tutta birra verso l'atmosfera terrestre.
Consumati come un moscerino attratto dalle lampade violette antinsetticide.
Come in Dark star di Carpenter.
Che morire di noia.
Certo sarà solo un rumore istantaneo.
Quel clamore inutile dell'essere.
Poi il nulla.
Il silenzio.
Niente più.
È forse questa l'essenza thaumatica dell'uomo?
Essere disposti a lasciarsi accecare luciferinamente dalla luce per partecipare entusiasti a questo gioco inutile soltanto a perdere.
Kubrick lo aveva intuito.
Non si può leggere 2001 odissea dello spazio se non articolandolo con il precedente Il dottor Stranamore: ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
A contare più della vita, della verità, dei valori etici sembrerebbe il raggiungimento residuale di tale stato euforico eccitato.
Tanto basterebbe.
Il potere di incanto delle immagini sull'uomo ha lo stesso effetto della luce sugli insetti, sugli animali.
Avendo il potere di sbloccare indirettamente il nostro disinibente vitalistico in modo irresistibile.
Come accade in quegli assurdi balli di corteggiamento per accoppiarsi.
Un rituale spesso pagato con la vita.
In passato l'uomo si è definito in tanti modi.
Uomo politico, religioso, faber, oeconomicus, sociologicus.
Forse sarebbe più corretto ludico, thaumatico.
O ancor meglio il-ludens.
Per rimarcare quella propensione all'illusione agita attraverso la strategia regressiva, euforizzante del gioco.
Anche di fronte all'evidenza del dolore, dell'atrocità più radicale possibile.
Il postmoderno, nella dissoluzione dei valori etici, veritativi tradizionali, potrebbe aver dato ulteriore spazio a un soggetto ludico svincolato da qualsiasi costrizione.
Un soggetto capace di godere di tutto.
Senza limiti di sorta.
Dalla bontà più profonda, al male più perverso.
Al di là del bene e del male.
Indifferentemente rispetto a quello che passa il convento, il Dio di turno.
Da quello mistico spirituale a quello demiurgico a quello anticristico.
L'importante è l'intrattenimento puro.
Rigorosamente inglorious.
Volendo citare un recente titolo di Quentin Tarantino.
Il predicatore pornonichilista trashcendentale oggi più famoso.
Nel suo ultimo film Eyes wide shut, Kubrick ha provato fino alla fine a denunciare tale strategia esistenziale edonistico-thaumatica perversa, porno.
Davanti alla raggiunta consapevolezza dell'orrore prodotto.
Alla dismisura delirante del proprio desiderio.
Di fronte alla coscienza del male radicale incarnato, agito involontariamente.
I protagonisti del film non trovano di meglio di andare a scoparci su.
Per affogare tutto.
Per godersela residualmente ancora.
Coprendo tutto con un sottile velo di silenzio certamente approssimativo.
Però sufficiente per tirare ancora a campare a lungo.
Così va la la Vita, con la v maiuscola.
Senza rinnegare gnosticamente l'esistenza.
Rilanciando in dimensioni, spazi, tempi paralleli o escatologici.
Senza abbracciarla incondizionatamente.
Non bisogna smettere di cercare altro.
L'unica possibile posizione sostenibile.
Almeno dal sottoscritto.

venerdì 19 novembre 2010

Amore sovversivo

In piena emergenza.
Ho proclamato il mio amore ai miei amici, amiche, vicini.
Con eccesso.
Con disperazione.
una questione di vita o di morte.
in molti sono rimasti perplessi.
Colpiti.
La maggior parte si è ritratta.
Non abituata a tanto.
Alla fine sono più solo di prima.
sebbene frequenti ogni giorno una marea di persone.
Abbandonato all'occasio.
Alla manna quotidiana.
Palliativo solo per la sopravvivenza.
Dopo avr toccato per un istante il cielo con un dito.
Aver provato a rimanerci tutti insieme.
Il più a lungo possibile.
Sono sprofondato peggio di prima.
Un mondo va ricostruito.
Con calma.
Pazienza.
Trasformando l'incolore manna in qualcos'altro.
Di più appetibile.
Di più elevato.
Intanto indosso la maschera.
Mi nutro di microbico plancton.
Giusto per non morire.
Lo chiamano destino.
I più audaci provvidenza.
Fanculo.
È naturale.
Fanculo.
Dov'eri quando ho creato il mondo...
Fanculo.