lunedì 1 marzo 2010

Prossimo tuo

Sono in viaggio e aspetto il treno regionale per Bologna alla stazione di Falconara.
É notte.
In giro c'è poca gente infreddolita dal vento dell'est.
Il mare di fronte è in movimento.
Le onde non sono elevatissime, ma la risacca sugli scogli muove la superficie lentamente rendendola un magma vischioso in procinto di assorbire tutto.
In cielo non c'è luna e nell'acqua mossa si riflettono solo le poche luci delle case e dei lampioni antistanti. Così il colore del mare increspato è nero pesto.
La distesa rumorosa, come una colata di lava che si gonfia per la pressione interna, è in procinto di esplodere per rifrangersi in mille zampilli caotici. Dopo essersi elevata a dismisura fino al punto critico di sopportazione sprofonda con fragore inabissandosi. Per riprendere tutto di nuovo in continuazione.
Sulla banchina in attesa del treno c'è anche una ragazza giovane.
In questo momento siamo soli.
Io e lei l'uno di fronte a l'altra.
Una distanza di sicurezza ci tiene lontani ma solo fino a un certo punto.
Dà le spalle alla direzione d'arrivo del treno.
Se dovessi tracciare una linea della traiettoria del suo sguardo ne sarei investito in pieno.
Si, mi sta guardando.
Ricambio lo sguardo per vanità, ma anche per capire cosa cerchi in questa direzione.
Dopo alcuni secondi intensissimi paralizzanti, la vedo abbassare lo sguardo e indietreggiare di qualche passo fin dietro la colonna della tettoia antistante.
Ora un muro ci separa.
Non volgo lo sguardo.
Così mi rifletto senza ombra sul calcestruzzo sporco.
Arriva il treno.
Si intravedono prima i due fari rotondi gialli.
Poi man mano la sagoma si definisce sempre più, sopravanzandoci infine.
Con un gemito stridulo si ferma.
Per un frangente si torna a sentire solo il rumore del mare.
Salgo con la bici.
Mi volto.
Lei è già li dietro di me.
La distanza si è ridotta a una spanna.
La condensa del suo respiro mi avvolge.
Sulle labbra ha un leggero sorriso.
La sento ben disposta verso di me.
Rispondo salutandola.
Ciao.
Cia.ao...
Eppure qualcosa non mi convince...
Percepisco la sua apertura come un eccesso sintomatico.
Vedo il suo giovane volto delicato solcato da leggerissimi capillari.
É abbastanza curata e raffinata.
Però gli occhi, come quelli di una maschera appesa, non sembrano riflettere che il vuoto.
Sotto non sembra esserci nessuno.
Saliamo insieme.
Sistemo la bici vicino l'entrata.
È ancora lì.
Con la mano tiene aperta la porta dello scompartimento.
Ci sediamo l'uno accanto l'altra.
Nella mano ha il cellulare... sta rispondendo a dei messaggi.
Però si ferma.
Cominciamo a parlare e a conoscersi un po' di più.
È senza casa e amici.
Il telefono le occorre per stabilire connessioni e per risolvere la serata. Magari per trovare un tetto dove svernare fino all'alba.
Va a Modena per lavoro, per il fine.
In qualche modo si è smarrita e sta provando lentamente a tessere il bandolo della matassa per arrivare a una soluzione, per trovarsi.
Ma non è facile.
Qualcosa la allontana centrifugamente da se stessa, da casa sua e dai suoi genitori.
Qualcosa di pesante, dal momento che il tentativo di descriversi, si stempera davanti a alcune frasi apparentemente senza senso.
Di più non riesce a dire.
Allora cambia discorso.
Mi parla dei suoi amici passati, del fatto che ama ballare, sebbene ora non abbia i soldi per andare in disco...
Comunque si sente a suo agio al punto di dirmi senza preavviso se sono disposto a ospitarla qualche volta.
Anche oggi o secondo necessità.
Ahio...
Colpo al costato come un fulmine a ciel sereno.
Ora sono io a balbettare qualcosa...
Le parti si sono invertite.
Nel frattempo mi chiede anche della casa e di quante stanze abbia.
Intanto mi assicura che si tratta solo di trascorrere una notte sotto lo stesso tetto, poi la mattina non ci sarebbero problemi.
È semplice.
Alla fine le dico di no. Noo. Nooooooooo!
Per me non è così semplice.
Rifiuto di entrare nella sua rubrica salvavita. Tra amici non più amici, conoscenti, contatti per il momento opportuno, nomi solo associati a qualche luogo e a un letto possibile.
Nel frattempo tra di noi scende il gelo.
Il suo sguardo si allontana da me.
Riprende a pistolare coattivamente con il suo cellulare in silenzio in cerca di una nuova soluzione momentanea.
Ma è un girare a vuoto.
Riesce solo a contattare un tipo che l'aveva cercata.
Le risponde amabilmente sebbene per lei sia un perfetto sconosciuto, quasi del tutto cancellato dalla sua fragile memoria confusa.
Subito dopo, rivolta verso di me, dice di avere necessità di fare quattro vasche. Mentre tra sé e sé si rimprovera di non aver pensato di prendere una birra.
Poi si alza e se ne va.
Pochi mesi or sono avevo assistito a una lezione magistrale tenuta in piazza a Modena dal titolo Prossimo tuo.
A quanto pare i greci si sentivano in dovere di accogliere lo straniero, lo xenos ovvero l'ospite/nemico, chiunque esso fosse. Quand'anche il potenziale nemico. Insomma l'equivalente latino dell'hostis. Termine intraducibile in italiano senza ridurne il significato e soprattutto l'ambivalenza.
Per farla breve, sia per i greci che per i romani, l'ospitalità era qualcosa di sacro, sopra tutto e inviolabile.
Intanto, mentre il treno scorre lungo il tragitto per Bologna, si è fatta strada la contraddizione e il conseguente malessere a giochi oramai fatti.
Come sia sarebbe stato forse scacco matto.
O magari no.
Comunque in questa serata fredda e ventilata il suo giovane fragile volto è entrato come una lama a squarciare prepotentemente la mia apparente tranquillità.
Non sarà facile suturare lo strappo.

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