venerdì 14 dicembre 2012

Dall'alto di una guglia

Là sotto chilometri e chilometri di superficie cementata. Una distesa impressionante. La gente viveva lì. A ritmo di metropoli.
Da quella posizione sembravano tanti soldatini in movimento lungo i viali alberati. Le macchine in mezzo la strada, i pedoni sui marciapiedi, dritti e impettiti. Solo il rosso e il verde dei semafori a fermare la corsa. Di colpo. Nessuno a ribellarsi al grande compositore nascosto. Per tutti, normale agire quella parte. Ogni giorno, ogni notte.
Ma non era facile per niente.
Tutto era stato irrimediabilmente segnato, formato, irregimentato. Per chilometri. Fino all'orizzonte.
Anche le piante non sfuggivano a tale regola.
I rami spogli erano stati potati rigorosamente.
Snelli, leggeri si protendevano verso il cielo.
Come colonne gotiche intrecciavano nervose volte a sesto acuto.
Difficile trattenere un sentimento di oppressione.
Tra quella rete fitta verso il cielo filtrava a malapena la luce.
Non a sufficienza per elevarsi.
La vera salvezza non era di questo mondo.
Ma addavenire.
Per i burattini laggiù rimaneva solo da amministrare l'inferno. Non senza tentare di innalzarsi con superbia verso quella luce. Alla fine però un gelo cristallino pervadeva ogni cosa, i muri, le persone fissandone per un istante la tanta dinamicità. Un girare a vuoto paradimatico di una umanità sotto sotto rassegnata e sofferente.
Unica chance ributtarsi nella calca a capo fitto.
Continuare a perdersi in tanto movimento fino all'ebbrezza.
Al punto di illudersi.
Ma non bastava.
In ogni superficie era inciso indelebile quell'urlo originario.
Sebbene di esso rimanesse solo l'eco sordo.
A testimoniarlo i muscoli ancora tesi fino allo spasmo.
Sepolto nella memoria più profonda segnava da sempre le membra della città. Nonostante i ripetuti tentativi di affossarlo entro una quotidianità all'apparenza pacificata. Ma la misura era stata superata da un pezzo. Al limite restava ancora da definire nuove forme di vita postumane tutte da inventare. In nome di un'eccentricità filtrata da un rigore esasperato. Esaltato dalla pulizia delle linee, da un vestire serio colorato di nero opaco fino al grigio antracite.
Eppure la materia così strenuamente fissata riusciva ancora a trovare delle fessure dove poter esplodere anarchica nonostante le strette ferree maglie tutt'avvolgenti.
Charlotte quella mattina si era svegliata presto.
A ritmo di rock and roll.
Lo stesso di sempre però aggiornato ai tempi.
Davanti un nuovo giorno.
Una vitalità prorompente si era impossessata del suo giovane corpo.
Non riusciva a stare ferma.
Il sorriso sul volto pieno di luce.
Le scarpe alte di pelle morbida ai piedi.
Via giù per le scale a chiocciola.
Quattro piani da bruciare prima di toccare terra.
Tre gradini per volta.
Rapida come un fantasma.
Una sfida al tempo.
Per farlo implodere.
Fino a superare ogni barriera.
Tra un salto e l'altro parole assemblate in musica.
Oltre il portone la città davanti.
Un sole intenso a scolpire ogni cosa fin nei minimi dettagli in tanto freddo, giusto per ricordare l'autunno inoltrato.
Non un attimo di pausa.
Dimenando il corpo come fosse percorso da una scossa vitale inesauribile, macinava passi uno dietro l'altro.
Protesa in avanti.
Verso la meta del momento.
Una velocità tale da non distinguere più le gambe.
Neanche fosse una modella futurista.
Lo stesso incedere devastante di un pezzo rock inarrestabile.
Passo dopo passo.
Senza tregua.
Oltre ogni limite appena raggiunto.
Un viaggio da paura fino all'inevitabile arresto.
Non prima di aver bruciato tutto in pochi istanti memorabili.
Un altro varo andato.
Dopo solo l'incedere inerziale della quotidianità.
Appena sufficiente per arrivare a sera.
Prima di coricarsi ancora e ricaricare le pile atomiche.

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