mercoledì 6 ottobre 2010

Castagne sul fuoco

Rimaneva ancora molto per l'alba.
I presenti stavano immobili davanti al fuoco.
Un legno grosso piantato nel bidone lottava per non essere consumato.
Resisteva da più di un'ora.
Il suo destino era segnato.
Il fuoco lo aveva avvolto.
La stretta si faceva sempre più forte.
La base si stava annerendo.
Era cominciata lenta la trasformazione irreversibile verso il niente.
Insieme al fumo, alle particelle di cenere volatili si alzava lento l'ultimo grido.
Dopo l'iniziale scoppiettio, l'esplosione di frammenti impazziti, il processo aveva assunto ora un ritmo regolare.
I lamenti si erano tramutati in borbottii rassegnati.
Quella sera si era in allerta.
Lo spazio occupato, divenuto il luogo di riparo di tanti naufraghi senza più meta, era in pericolo.
Per l'ennesimo assedio strisciante di un sistema ferito perennemente in stato d'allarme.
Pronto a colpire alla cieca.
Di preferenza i più deboli.
Si trattava di superare anche questa situazione.
Tragica e imprevista.
Questioni di sopravvivenza.
Ma anche di salvaguardare con tutte le forze quel microcosmo sociale fuori da tutti gli schemi vigenti.
Lì non valeva la legge del più forte, del più seducente.
A contare era il consenso di tutti.
Quando non c'era, giù a discutere.
Piuttosto girando a vuoto.
Nell'attesa di una soluzione giusta.
In grado di superare le divergenze.
Roba da fantascienza sociale.
Certo non mancavano le incongruenze.
Non tutte le ciambelle riuscivano con il buco.
Si provava a apprendere dagli errori.
Per migliorare la volta successiva.
In tale diversità era venuto fuori il meglio.
Molti avevano conosciuto l'abisso.
Ma erano sopravvissuti.
La vita li aveva temperati a saper resistere alle condizioni peggiori.
Oltre agli autoctoni puri, il luogo era frequentato da occasionali visitatori.
Anche loro vi avevano trovato posto.
Molti venivano da scienze politiche.
C'era pure un professore di sociologia.
Altri erano mossi da intenti creativi.
C'era la scuola migranti.
La palestra con i corsi di yoga, box, tessuto.
Il gruppo del mercoledì.
Quelli del mercatino biologico.
I dj tecno.
E anche la ciclofficina.
In tale situazione d'emergenza era stata rischiesta pure la loro presenza.
Avevano accettato di buon grado.
Non si trattava di solidarietà.
Quanto di proteggere i propri spazi contro una normalizzazione tutto avvolgente, stritolante.
Si era diventati un'unica famiglia.
La più variegata, eterogenea possibile.
Si stava bene insieme.
Certo quel luogo non pretendeva di essere un paradiso.
Nessuno lo considerava tale.
Era casomai il migliore degli inferni possibili.
Tutti avrebbero venduto cara la pelle per quello spazio.
I raga della ciclo si erano dati appuntamento per mezzanotte di fronte all'alto cancello sbarrato.
La porta normale d'ingresso.
Volevano partecipare anche loro.
Non erano in tanti.
Non importava.
Valeva solo esserci.
Dentro il castello assediato bisognava tenere a bada i punti critici.
L'entrata principale, il cancello posteriore.
Quello aperto verso la distesa deserta abbandonata.
Luogo di confine non ancora addomesticato.
Un micromondo selvaggio.
Terra di nessuno, di sbando.
Dove la natura conta ancora.
Detta legge tra le rovine del vecchio mercato.
Nonostante la presenza di una gru alta venti metri, rivolta verso il cielo come un'antenna traballante in balia del vento.
Il nuovo avamposto della futura colonizzazione.
Avevano scelto di piazzarsi lì.
In quello spazio invaso da decine e decine di bici rottamate.
Alcune degne di tale nome.
La maggior parte oramai solo scheletri arrugginiti.
Se si fosse deciso di girare Terminator in Italia, quello era il posto giusto.
Il connubio fuoco più biciclette aveva convinto tutti.
Senza nemmeno il bisogno di uno sguardo si erano tuffati sulle sedie intorno al fuoco.
Dal cielo scendeva ogni tanto qualche gocciolina di pioggia mescolata con le numerose particelle di cenere sollevate dal calore.
Sembrava nevicare.
Non faceva freddo.
Il bidone infuocato riscaldava a sufficienza.
Qualcuno aveva portato le castagne.
Ottobre aveva fatto capolino da alcuni minuti.
Poggiate sopra una ruota di bicicletta storta usata a mo' di grata, le castagne prendevano il colorito giusto.
Nonostante il tentativo di sgambetto del fuoco per mandare tutto all'aria.
Una volta dorate furono portate sotto l'ombrellone blu.
L'ultimo avamposto prima della distesa deserta sommersa nel buio della notte.
Furono mangiate in un baleno.
Tra il silenzio rotto da battute sussurrate.
Per non compromettere l'atmosfera.
Poco lontano si stava girando un film.
A testimoniarlo c'era la gru di un dolly, alcuni riflettori accesi, il vociare degli attori.
Grazie all'evocatività surreale del luogo si aveva la sensazione di essere all'interno di un unico immenso set cinematografico. Ognuno con la propria parte da recitare in attesa del fatidico:
Azione!
Si gira...
Sullo sfondo il rumore sordo della città, una sinfonia dissonante di echi meccanici, un concerto di auto in movimento interrotto ogni tanto dall'assolo in battere di qualche argano al lavoro.
Anche di notte la metropoli del futuro non dorme.
È impaziente di trasformare ogni cosa senza remore.
Giusto per ricordare ai presenti il destino già scritto di quei luoghi.
Prossimi alla fine.
Eppure in tale sospensione la natura, gli esseri animali, gli uomini erano riusciti a dare forma a un ambiente indefinito, misterioso.
Luogo di possibilità arcane, magiche.
Sarebbe potuto accadere di tutto.
L'incontro di una giovane devota con uno squatter.
Offrire castagne a un puffo blu emerso da una botola nascosta lì vicino.
Giocare a briscola con uno di quei grossi cani sempre a zonzo, mentre mastica mentine.
Il tutto con la spontaneità di un bambino sorridente.
Nonostante il tentativo da parte del buio di nascondere ogni espressione, provando a sovrastare la debole luce radente del fuoco.
Durante la battaglia i volti erano scolpiti in bianco e nero.
Dalle tenebre emergevano i lineamenti duri di teschi in lotta per incarnare ancora vita.
Per aspirare a identità più definite.
Prima di soccombere come tutto lì attorno.
Nella notte pesta, qualcosa di bello, di indicibile riusciva a far vibrare i cuori.
Allora il silenzio prendeva il sopravvento.
Lo sguardo si abbassava lentamente fissando il nulla davanti.
I rumori di fondo si amalgamavano trovando pace.
Si era fatta una certa ora.
A parlare erano rimasti solo gli schiamazzi striduli di animali battaglieri.
Presi dalla stanchezza i ragazzi della ciclo decisero di andare.
Per Nilo e Mimmo si trattava di affrontare il momento più duro.
Il resto della notte.
Quello più nero.
Da soli.
Come tante altre volte.
Stringendo i denti senza fiatare.
Sapendo di poter contare solo sulle proprie forze.
Aspettando un'altra alba, un nuovo giorno forse possibile.


Mauss
Viveva all'Xm.
Era magro.
Non troppo alto.
Capelli lunghi neri.
Raccolti in una coda.
Un po' di barba.
Vestiti scuri.
Poteva ricordare un moschettiere decaduto.
Lo si vedeva dallo sguardo fiero.
Era un patito di teatro, di letteratura.
Retaggio di un percorso esistenziale passato.
Aveva la battuta facile.
Spesso era tagliente.
Il punto giusto.
Era sensibilissimo.
La vita lo aveva portato a conoscere bene le passioni umane, la sincerità degli sguardi.
Era un fine interprete delle espressioni altrui.
Da tempo era relegato lì.
Insieme agli altri.
Forse desiderava altri sentieri.
Per rompere l'isolamento.
Lo reclamava a gran voce pur stando in silenzio.
A volte lo manifestava con ironia velata di cinismo.
Aveva imparato a trattenere le proprie emozioni.
A saper tenere a bada il proprio pensiero.
Piuttosto si sospendeva, rimaneva immobile con lo sguardo fisso.
Dentro invece era un franare rovinoso di desideri, sentimenti infranti, traditi.
Un terremoto devastante.
Allora tirava il diaframma.
Chiudeva la bocca facendola piccola piccola.
Ritraendosi in se stesso risucchiava le guance come un topo in trappola ricacciato a forza nel suo abisso.
Abituato a ben altro, soffriva nel vedere il mondo fuori insensibile ai suoi appelli.
Ostile nonostante le apparenze gentili.

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