lunedì 24 febbraio 2014

The dark side of the moon


Arrivarci non è facile.
Prima bisogna arrampicarsi per circa mezzo chilometro su via dell'osservanza. Una salita mediamente del dodici, venti per cento.
Poche centinaia di metri ancora e si è in aperta campagna.
I famosi colli bolognesi.
Lì una volta c'erano le ville dei nobili.
Da quel punto si poteva mirare dall'alto bologna.
È notte.
Il luogo è poco illuminato.
Difficile leggere i numeri civici sui muri, sulle colonne in pietra dei cancelli.
Tra tanto buio spiccano delle isole di luce.
In una di quelle oasi artificiali sta la meta.
Villa barruziani.
Alla fine con la bici al traino ecco trovata l'entrata.
Scritta a chiare lettere su un cartello.
Da lì bisogna ancora percorrere una strada irta piena di curve. Là in alto svetta la villa come un castello antico a sorvegliare tutto quanto intorno. Non senza incutere una certa soggezione.
Da tempo i nobili se ne sono andati.
Al loro posto case per anziani, luoghi di cura per malati psichiatrici. Quanti a un certo punto della loro vita non sono più riusciti a contenerla. Sopraffatti da crisi epilettiche, attacchi d'ansia, manie depressive. Un vero incubo. L'angoscia sale all'improvviso. Ti prende alle spalle di notte. Quando sei solo. Impossibile individuare il nemico nascosto dentro intento a compiere veri atti di guerriglia. Vedi solo gli effetti. Come dopo l'esplosione improvvisa di una bomba al mercato delle erbe, in autobus ad opera di kamikaze suicidi. Una parte di te, a tua insaputa, sabota la tua tranquilla esistenza. Difficile trovarne le cause nel proprio passato. A volte si tratta solo di problematiche organiche, magari di somatomorfosi antichissime. Arduo risolverle con la logoterapia. Se ci si rivolge a quando ancora non esisteva un piano simbolico sviluppato capace di contenere l'eccesso, le proprie paure. Qui ci si inoltra in regioni limiti, poco esplorate. Spesso l'unica soluzione è sedare le conseguenze. Fermare i pensieri, il corpo con quantità di pasticche colorate fino alla destrutturazione. Tutto per arrestare la meccanicità cieca di un corpo allo sbando.
Sto maaleee...
Ripete una signora sessantenne.
Non prima di averti preso il braccio, provato a tirarti verso di lei. Non senza continuare la sua litania a ritmo.
La stacchi.
Si ferma di colpo.
Se ne va da un'altra parte.
La rincontri poco dopo.
La stessa scena, le stesse parole, lo stesso sguardo panico alla munch.
Non tutte sono così.
E dico tutte solo perché il reparto è quello femminile.
Molte le vedi normali.
Potrebbero essere in un ospedale qualsiasi a giocare a carte, guardare la televisione.
Ma dietro ognuna di loro si è spalancato a un certo punto un abisso inenarrabile. Là ad attenderle l'orrore.
La struttura ospitante è quanto di meglio visto fin d'ora.
Qui ti trattano umanamente.
Non sei solo un pazzo.
Sebbene si tratti pur sempre di una prigione.
Non puoi uscire da solo.
Hai le tue pasticchine alla tal ora e via dicendo.
Il luogo più fuori è la sala fumatori.
Un piccolo bunker degno delle descrizioni urbano metropolitane del miglior tati, delle astronavi-alberghi di kubrick. Una stanza trapezoidale bianca. Sul soffitto gira lenta una grande ventola. Costante il rumore basso di un aspiratore d'aria. Simile al ronzio di certe centrali elettriche. Per accendere le sigarette una struttura metallica all'altezza del viso. Ha due tasti. Un bottone per accendere l'altro per infilare la sigaretta. Sui tavolini due vasi pieni di cicche.
L'aria puzza di fumo come nei locali pubblici di una volta, prima delle leggi antifumo.
Quando entriamo non c'è nessuno.
Ma come un tam tam lanciato telepaticamente tutte le pazienti fumatrici accorrono una dietro l'altra. É questo l'unico momento di svago. Quasi uno spazio di libertà fuori da tutte le regole. Dove i ritmi sono più naturali, improvvisati. Si può fare battute, scherzare amabilmente come si fosse da qualsiasi altra parte.
In poco tempo la sala si riempe
Arriva anche la signora di prima.
Sto maaleee.
Sto maleeee.
Poi prende la cicca la porta alla bocca e per un attimo si sospende anche lei dal suo lamento continuo.
Dopo un po' uno alla volta escono fuori.
La stanza si svuota.
Rimane solo il ronzio.
Sono le otto e trenta è ora di andare.
Anche perché qui si va a letto presto.
Avverto l'infermiera sempre gentilissima di aprirmi il portone.
Fa un cenno di assenso.
Arrivato davanti è ancora chiuso.
Suono il campanello.
Un clic repentino.
Pochi istanti ancora e sono fuori.




venerdì 21 febbraio 2014

Leggeri come palloncini

Casello di rimini sud.
L'eterna croce.
Tanto traffico.
Ma farla andare dritta non è mai facile.
Al telefono c'è pierpa.
Fa così caldo da avere il giaccone poggiato sullo zaino.
La telefonata si protrae amabilmente.
Una macchina della polizia si affianca rallentando.
Il finestrino di destra scende lentamente.
Piano piano scompare il mondo riflesso per lasciare posto a un uomo in uniforme.
Sei uno del cantiere? Non senza una dose velata di ironia.
No. Senza interrompere la conversazione con il pierpa.
Documento per favore.
Dal portafoglio viene magicamente estratta la patente con la mano sinistra. La destra invece stringe forte il cellulare poggiato al padiglione auricolare.
Con il dito fanno segno di seguirli fin lì.
Pochi metri più avanti.
Dove si stanno spostando nel frattempo per non ostruire il traffico.
A ralenty li seguo così impegnato a parlare al microfono.
Ej ti saluto è arrivata la pula, hanno i miei documenti.
Come sei arrivato fin lì?
Mi hanno portato degli amici.
Il solito mantra.
Lo sai...
Non puoi stare qui.
Si, si lo so.
E ora cosa fai?
Aspetto altri amici.
Fra quanto passano.
Al massimo cinque minuti.
Mentre succede tutto questo un palloncino blu si avvicina leggero rimbalzando sull'asfalto. Gli vado incontro per raccoglierlo. Poi lo porto delicatamente davanti il volto del poliziotto stringendolo con le dita fino a deformarlo un po'.
C'è stata una festa ieri sera?
Mentre sorrido spensierato.
Anche perché dentro c'è tanta energia positiva, voglia di giocare, scherzare.
Non fa una piega.
Però qualcosa gli sarà passato per la testa.
Lo si vede dallo sguardo sfuocato.
Tipo... mio dio questo è tutto scemo.
Mi ridanno il documento.
Poi se ne vanno tirando su il finestrino.
Lentamente ricompare centimetro dopo centimetro quel mondo riflesso davanti per un momento inabissatosi.
Poi come nulla fosse.
Verso nord?

Dentro la pancia di una balena... o era una nave?

Incontro del giovedì.
Un'ora da ammazzare.
C'è da scrivere la relazione dell'ottava.
La quarta.
Voglia mezza.
Da un po' jesi è diventata un luogo morto.
Quale ambiente migliore il cimitero.
Fuori piove.
Non fa freddo.
A una spanna da laura, di cosa ne rimane oltre la foto, la lapide.
Insieme ci sono pure le ceneri della zia.
Non c'è molto tempo.
Alle sei il cimitero chiude.
A ricordarlo la voce in filodiffusione.
Il posto prescelto la chiesa all'aperto in pietra.
Meglio in cemento armato.
Dentro non piove.
Si sente solo il rumore continuo della pioggia, qualche spiffero.
Non c'è nessuno.
Dietro l'altare risalta una grossa lapide in marmo bianco.
E' da sola.
Di traverso.
Si legge bene il cognome.
Uno abbastanza comune da queste parti.
Mi seggo ai piedi di una grossa pietra in cemento. La stessa dove si poggia il morto durante la cerimonia religiosa.
Ancora nessuna voglia di scrivere.
Sarà la pioggia, il ricordo recente di quanto è stato.
L'umore non è dei migliori.
Alla fine comincio a scrivere seppur a malavoglia.
Le parole escono a fatica.
Con difficoltà divengono linee verdi sulla carta bianca.
Poi d'incanto la scena si anima.
Da sinistra arriva un signore.
Ha il berretto, un cappotto grigio.
Buonasera sussurra.
Ciao.
Ancora pochi passi leggeri e si ferma lì, davanti quella lapide prima addocchiata.
Sta lì immobile. Fino a scomparire tra tanto grigiore.
Poco dopo sempre dalla stessa direzione arriva un ragazzo più giovane.
Anche lui è vestito in grigio.
Il suo incedere è più greve.
Ha lo sguardo basso.
Si percepisce tutto il peso di un cordoglio non superato.
Il volto teso, le lacrime trattenute, lo stomaco contratto.
Si ferma anche lui nei paraggi.
Un'altra lastra significativa.
Almeno per lui.
Ci si saluta con un cenno.
Una breve sosta poi se ne va.
In silenzio.
Come era venuto.
Senza deviare la sua traiettoria.
Anche il primo signore si avvia lentamente verso l'uscita.
Non prima di aver battuto leggermente le nocche sulla lapide di marmo.
Toc, toc, toc.
Una sorta di codice.
Nessuno risponde.
Prima di andarsene del tutto si volge verso di me.
Naturalmente si comincia a parlare amichevolmente.
Vedi quella colonna lì...
La prima davanti a te.
La nuova.
Era venuto giù tutto.
Fino al ferro nudo.
Tre giorni per rimetterla a posto.
Bello eh sto posto.
Ma quando comincerà a cascà tutto se farà prima a rifarlo nuovo.
Guarda là.
Indica le scale sghembe.
Quando le vecchiette fanno le scale dopo gli gira la testa.
Poi si volge a guardare la struttura piramidale.
La gente dice che assomiglia a na nave.
Non ti sembra anche a te?
Ciò la moglie là.
I genitori lì di fianco.
Da cinque anni è morta.
Vengo anche due volte al giorno.
Beh in verità qualche parente ce li ho pure in un cimitero qua vicino.
Buonaserata giovanotto.
Ciao.




martedì 18 febbraio 2014

Il tè nel deserto

L'appuntamento al buio con la vita.
Dopo essersi spogliati di tutto.
Aver visto allo specchio la propria moltitudine, l'incoerenza, l'incostanza.
Abbandonarsi a tale flusso la tentazione massima per consegnarsi al caos. Nella speranza di trovare anche lì un ordine, magari incomprensibile eppure alla lunga efficace.
Questa è l'essenza dell'essere ramingo quando va bene, randagio nelle sue manifestazioni più notturne, istintive, brutali. Comunque nomadismo e pedalare. Dopo l'accettazione della fine del soggetto, della (falsa) coscienza come fatto compiuto si continua a vivere lo stesso. Anzi per certi versi si comincia a vivere. Sempre ci sia ancora un barlume di coscienza a guardare gli eventi accadere come si fosse al cinema. Perché il gran gioco non sei tu a condurlo, arriva alle tue spalle, ti trascina come un vortice. Puoi solo cavalcarlo. Questa l'abilità suprema per non essere spazzati via. Riuscire a stare sulla cresta dell'onda, a cavalcioni della bomba in caduta libera. Pura follia, ma è pur sempre meglio di essere relegati in uno dei tanti ruoli da schiavi, privi di volontà, servi passivi degli eventi, di qualcosa, di qualcuno.
Certo l'alternativa è sempre la stessa. Forse il miraggio più grande. Evolvere fino a far emergere dio. Cioè essere i padroni di sé stessi, i portatori di una volontà di potenza efficace. Cioè poter creare mondi a piacimento secondo quanto è meglio, magari con amore. Sta parola misteriosa quanto fumosa il più delle volte. Certo andrebbe bene pure sedere al fianco del dio padre di turno e partecipare del banchetto celeste.
Difficile dirlo.
Per ora, a questo livello, improbo avere una volontà siffatta. Anche perché vuol dire essere entrati nell'eternità, nel sempre identico, oltre il mutevole, transitorio. Responsabili a vita. Con un intento preciso, custodi della verità. Niente più incertezze, il brivido del nuovo, dell'inatteso, del fallimento, dello smacco, della morte.
Il regno della perfezione assoluta.
Che palle.
La sensazione più immediata.
Forse mangiare la mela significa proprio ribellarsi a quel destino diviniforme. Forse la più grande maledizione. In fondo gli ultimi saranno i primi no? Meglio forse stare poveri dall'altra parte, lavorare piuttosto per portare a termine la creazione in barba ai suoi creatori poco sensibili o incoscienti.
Chi lo sa poi.
Forse il problema non è la diviniformità in sé, comunque da inseguire e incarnare. Nel senso di liberarsi da quanto ci agisce meccanicamente. Senza arrivare però a agire la potenza, la volontà acquisita. Ovvero realizzare una volontà di sola potenza, nel senso della dynamis e non attuarla più, sospendendola, arrestandola ab aeternum.
Intanto provo a capirci di più.
Sempre poi ci sia qualcosa da capire.
Continuando per ora a seguire quella voce figlia dell'angoscia e del malessere, a accogliere ancora quello spirito nomadico al momento aperto a un vitalismo oltre ogni misura.

lunedì 17 febbraio 2014

L'ultimo dio

Da un po' aveva ripreso a dormire.
Lontano ricordo le notti insonni col pensiero a mille.
Incapace di arrestarsi in cerca di una soluzione.
Bastava rimuovere la causa.
Quel tanto da non esserne più influenzato.
Alla giusta distanza per non esserne contaminato.
Oltre il raggio di influenza.
Del suo lato lunare oscuro, se si vuole anche anche banale.
In fondo le solite dinamiche.
Attrazione repulsione di mondi inconciliabili.
Luce ombra, sole luna, maschile femminile.
Sotto sotto la follia di sempre.
La vita nella sua cruda nudità.
Espressione di meccanismi predisponenti all'incontro, all'amore. Con l'altro alieno, per certi versi il nemico perfetto. L'egoista massimo. Con l'unico intento di sopravvivere per dare corpo a desideri imponderabili, incomprensibili.
Macchina ceca incapace di vedere oltre quel lucido impulso vitale teso come una corda tra utero e stomaco.
Bastava rompere quell'influsso magnetico.
Non era stato facile.
Soprattutto quando investiti di un abbaglio totale accecante.
Schizofrenia pura tra desiderio ramingo e analisi obiettiva dei fatti.
Al punto di somatizzarlo quando non contenuto nelle maglie del pensiero.
Impossibile restare attaccati a tale forza prosciugante se non accecandosi da soli fino a silenziarlo. Per diventare al massimo oggetto d'amore. Oggetto, solo oggetto. In quella tela fredda, appiccicosa. Nell'attesa di quei segnali vitali sufficienti per tenerlo in vita. Un sorriso, un abbraccio, un contatto intimo. Al suo fianco intrappolati altri allampanati incapaci di una saggia decisione. Restituire tutto al mittente. Tutto il peso, quella incapacità di amare. Alla fine insieme incastrati in una tragica natura. Identica seppur differente, per certi versi complementare, speculare. Col pungiglione alzato pronto a colpire non importa chi, l'altro, se stesso indifferentemente. Non basta la coscienza normale. Non a questo livello. Bisognerebbe prima innalzarsi. Trovare asceticamente nuove energie. Ma è possibile? Se si come?
Intanto si godeva la ritrovata libertà.
Un riacquisito equilibrio.
Quel grado zero da dove ripartire.
Per instaurare nuove dinamiche relazionali, nuovi giochi di potere. Al limite andando oltre. Sapendo di giocare in bilico sul baratro. Predisposti al suicidio programmatico, al sacrificio fino alla croce.
Alla fine anche stavolta scampata.
Sopravvissuto al pari di una pulce.
Felice di poter saltare ancora.
Prima di venire schiacciata come un pitocchio insignificante.
Ma che ce frega.
È sufficiente l'ebrezza spensierata di quei salti futili quanto la vita.
Un eccesso per qualcuno così importante da sperare nell'immortalità. Non senza un velo di tracotanza, di superbia. Quando forse sarebbe meglio, di certo più facile sparire senza lasciare traccia. In fondo l'eterna battaglia tra una coscienza spirituale desiderosa di elevarsi fino all'eternità e un suicidio silenzioso, osceno, inutile ma almeno a termine. Passando per l'ignoranza programmatica fino al diventare animale e basta. L'ultimo dio.

domenica 9 febbraio 2014

Un autostoppista di troppo

L'incontro del giovedì è finito.
C'è da passare la notte.
Cambio di programma.
Si sale a bologna.
In fretta.
Alle otto e quarantacinque l'ultimo treno parte.
Bisogna arrivare alla costa.
Diciannove chilometri da coprire in macchina.
È già notte.
Mi avvicino al casello autostradale.
Non resisto alla tentazione.
Guardo l'orologio.
C'è il tempo per un timido tentativo.
Parcheggio la macchina nelle vicinanze.
Prendo lo zaino e di corsa mi avvio al casello.
Per recuperare anche quei pochi secondi.
Magari quelli necessari per non perdere l'appuntamento.
In poco tempo sono operativo.
Due, tre tentativi a vuoto.
Poi il colpo grosso.
Una macchina grande con due persone vestite da colletti bianchi.
Vanno a trieste.
È fatta.
Sono le sette e quarantacinque.
Salgo.
Il tempo di prendere lo zaino, aprire la portiera.
In un batter d'occhio sono dentro.
Non più di due minuti.
Sono due ingegneri della finmeccanica.
Andrea e matteo.
Andrea è mio coetaneo.
Ha due figli.
Matteo è silenzioso.
Di lui non è dato sapere molto.
A condurre la baracca sembra il guidatore, andrea.
È lui a parlare, a discutere dei massimi sistemi, a essere aperto per un confronto. Va veloce.
Centrotrenta.
Centocinquanta.
Ha pure il segnalatore degli autovelox.
Un'applicazione da poco scaricata sul suo tablet lì in bella evidenza al suo fianco.
In un baleno arriviamo vicino s. lazzaro.
Sono appena le nove e venti.
Da lì a poco l'uscita per bologna.
Due chilometri e mezzo ancora.
Poi l'imprevisto.
Alcune macchine ferme con accese le luci di posizione lampeggianti.
In un attimo si forma la fila.
Ci fermiamo.
Come noi tutti gli altri.
Di botto siamo circondati da camion, auto.
Si spengono i motori.
Solo le luci rimangono accese per non far prevale il buio.
Di fianco a noi un camionista sta fumando una paja sul suo abitacolo.
Ha il finestrino abbassato.
Chiediamo cosa è successo.
Incidente.
Due auto, un camion.
Una di queste avrebbe preso fuoco.
Aspettiamo.
Nel frattempo sfidiamo su internet altri utenti non impegnati a delle prove di abilità di cultura generale.
Gli argomenti i più disparati.
Dal cinema, al tempo libero, alla filosofia, alla natura.
Un'ora tonda se ne va.
Poi il serpente d'auto si risveglia.
Lentamente comincia a muoversi.
Qua e là si riaccendono i motori.
Si parte.
Novecento metri percorsi piano piano.
Vediamo tre macchine distrutte, un camion parcheggiato di lato poco più avanti.
Alla velocità di centotrenta avremmo percorso quel tratto in poco meno di due minuti.
Lo stesso tempo impiegato per salire al casello.
Un tempo fatale.
Due minuti in meno e si poteva essere lì per un appuntamento con la morte.
O forse per qualche secondo si sarebbe evitata la fila e si sarebbe più vicini alla meta finale.
Difficile saperlo.
Questione di pochi secondi, di pochi metri.
Tutto sarebbe potuto essere differente.
Ci scherziamo su.
Mi dovete una cena.
Ancora pochi minuti e sono arrivato.
Prendo lo zaino, scendo salutando i due viaggiatori con una stretta di mano.



Certi giorni

Certi giorni lo senti.
Qualcosa ti trattiene.
Non puoi farci niente.
Bologna.
Fiera.
Al casello solo persone frettolose.
Pur di guadagnare tempo meglio raccontare una balla all'autostoppista di turno.
Va verso sud?
No a nord.
Poi ti volti.
Lo vedi imboccare l'entrata per il sud.
Va bé.
Dopo circa trenta minuti qualcosa si muove.
Un passaggio per s. lazzaro. La porta per un possibile viaggio diretto. Il cul di sac di tutte le auto dirette giù. Da lì dovrebbe essere tutto facile. Ma niente da fare.
Oggi è una giornata storta.
Altri trenta minuti a muoversi da una corsia all'altra, a chiedere dove è diretto, a dichiarare la propria destinazione.
Certo accontentandosi di una manciata di chilometri il passaggio lo si sarebbe trovato da un pezzo. L'obiettivo è arrivare al massimo con due passaggi. Però oggi gli automatismi soliti non funzionano.
A un certo punto un'auto bianca del servizio delle autostrade avanza verso di me in contromano. L'autista dentro sbraita, suona il clacson, sbraccia come un posseduto.
Neanche lo calcolo.
Poi dietro intravedo l'auto della polizia.
Azz.
C'è pur sempre una prima volta.
Un poliziotto scende, si avvicina al casello.
Che ci fai qua?
Aspetto un amico.
Come sei arrivato qua?
Con un altro amico.
Sorride.
Dammi un documento.
E vedi di trovare qualcuno in fretta.
Se no poi mi chiamano ancora e devo intervenire.
Lascio la patente.
Il tempo di ritornare in auto per gli accertamenti.
Già trovato il passaggio.
Un finanziere.
Lo sgamo subito.
Sei delle forze dell'ordine vero?
Si ferma accanto alla volante.
Scambiano qualche battuta.
Si aspetta il responso della volante.
È pulito.
Puoi andare.
Da lì in poi tutto in discesa.
Altri tre passaggi in meno di due ore fino alla destinazione finale.
Qualcosa si è sbloccato magicamente.
In tanta foga però ho perso il berretto di lana cucito a mano dalla zia di lucia.
Vabbè.
Prima o poi doveva succedere.
A casa a partire dalla professione e dalla città di provenienza rintraccio l'autista dell'ultimo passaggio.
Niente da fare.
In macchina non c'è.
Meglio farsene una ragione.
Più in fretta possibile.
Alla fine tre ore e dieci per coprire la solita tratta.
Neanche troppo male.


martedì 4 febbraio 2014

Anno nuovo

Pensare un ulteriore modo di essere dopo l'apocalisse.
Innanzitutto recuperando la spensieratezza di sempre.
Voleva ampliare i suoi orizzonti.
Lasciata bologna per la campagna.
Fallita l'esperienza nel casolare.
Ritornato sui suoi passi.
Ora era se possibile più sradicato di prima.
Un ulteriore giro di vite.
Un'altra esistenza andata.
Altro non rimaneva se non spostarsi ancora un po' più in là per essere fedele alla sua essenza nomadica.
Per questo aveva aumentato la sua capacità di movimento. Facilitato dall'autostop, dal poter viaggiare a basso costo in un territorio abbastanza grande. Così aveva disegnato nuovi confini. A partire da bologna fino a roma per passare nella provincia marchigiana spingendosi poi verso la laguna veneta tra calli, campi, isolette in mezzo al mare fermo. Un triangolo abbastanza grosso però percorribile nell'arco di una giornata.
Aveva trovato anche gli appoggi giusti.
Arianna e blanche a roma.
Michela e i suoi amici piemontesi a venezia.
Così per non andare del tutto alla cieca.
Pochi giorni.
Toccata e fuga.
Anche per non disturbare troppo.
Per mantenere alto il tasso adrenalinico.
Poi una volta bruciate tutte le energie via di nuovo a casina per rifiatare, per ricostituirsi un minimo. Così da rigenerarsi quel tanto necessario per affrontare la settimana a venire.
La sua recente storia in campagna era ancora nei suoi pensieri. Ma non sarebbe tornato indietro. Non così. In lontananza vedeva meglio cosa non aveva funzionato. Stando ospite nelle case altrui  si confrontava con tutto quanto non era riuscito a mettere in piedi in quei mesi. Un po' perché ancora troppo nichilista... o forse ancora troppo poco per vivere una vita spensierata. Per accordare un fiat incondizionato a questa esistenza. Alla fine aveva preferito arrestarsi sulla soglia in attesa, stando a guardare la vita.
Quel giorno si era svegliato a mestre.
Fuori c'era un sole primaverile benché fosse gennaio pieno.
Avrebbe dovuto fare freddo ma si stava bene. Al punto di riuscire a leggere poggiati sulle mura delle zattere col sole in faccia a riscaldare quanto basta. Con una visuale mozzafiato sul canale della giudecca.
La sera prima avevano fatto tardi.
Usciti in bicicletta erano andati allo spazio aereo.
Tre bici sgangherate in cinque.
La meta un locale trandy in piena zona industriale a marghera.
Per arrivarci bisognava tagliare tutta la città abitata fino a varcare le soglie di territori poco adatti alla vita. Chilometri quadrati di cemento solcato da linee ferrate, stradoni sopraelevati illuminati da lampioni al neon irreali, rotonde infinite a perdersi.
Impossibile trovare il bandolo della matassa. Anche perché c'era sempre un ostacolo immenso a bloccare il cammino davanti. Che so aree circondate da alte palizzate metalliche dove non ci si ferma mai. A testimoniarlo forti rumori metallici di frese, colpi a battere nella notte. Suoni non tanto dissimili da quelli tecnoindustrial di regis, il dj anglofono atteso per la serata. Una sinfonia polifonica riverberante nell'aria tutto avvolgente. Per una sensazione di totale smarrimento tra alte gru slanciate verso un cielo cupo illuminato dalle luci artificiali, davanti a parete lisce di capannoni immensi a fronteggiarci prepotenti. Luoghi storici dove si era pensato di cambiare il mondo a suon di tecnica. Alla fine si era creato solo un ambiente disumano del tutto indifferente allo svolgimento della normale vita quotidiana.
Ma era proprio questo a affascinarli.
In cinque a sfidare quei luoghi con niente. A cavallo di tre biciclette più simili a dei rottami. Una con la canna senza freni guidata da giulia. Due olandesi a urlare ogni giro di pedale tutta la loro ruggine. Una rossa affidata a michela, l'altra bianca a lui con dietro seduta sul portapacchi giada, dal manubio tremolante neanche avesse il parkinson. Poi a seguire davide di torino con la giovane elisa in canna sulla bici a contropedale. Un equilibrio precarissimo. Un miracolo arrivare alla meta sani e salvi. Come attraversare il deserto a piedi nudi nella notte senza provviste. Affidati solo ai santi in paradiso. Procedendo alla cieca difficile reperire informazioni utili in quel mare di cemento marcato da segni poco riconoscibili, alla fine tutti uguali.
Facile sbagliare strada a ripetizione.
Dovevano arrivare per mezzanotte.
Poi il biglietto sarebbe stato fuori portata.
All'una circa riuscirono infine a imboccare la strada buona giusto per riuscire a cogliere in lontananza le ultime note del primo gruppo.
Erano gli unici in bici, con la luce rossa accesa in petto, lo zainetto in spalla, i guanti e la sciarpa per non patire il freddo.
Stridevano assai con tutto il resto.
La loro corsa fu bloccata da due buttafuori serissimi alti più di loro.
Avete il marchio?
No?
Allora fatevi da parte.
Avrebbero voluto entrare scavalcando da qualche parte.
Così almeno avevano pensato a cena.
Ma i muri lisci alti più di dieci metri richiedevano qualità straordinarie da super eroi.
Alla fine si piazzarono là davanti a ascoltare quanto usciva dalla porta.
A contare di più tutto quel viaggio funambolico.
Un vero miracolo di equilibrismo e di un pizzico di follia.
Ora l'unico pensiero davanti la strada del ritorno.
Per assaporare prima possibile un tè caldo con i biscotti.
Poi tutti a nanna.

La caduta degli dei

Chi agli inizi degli anni novanta non ricorda la fine di un regime dittatoriale accompagnata dalla caduta rovinosa della statua del suo tiranno nella piazza principale della capitale. Memorabile quella di Saddam Hussein ripetuta all'infinito dai media. Meno ricordata ma non per questo meno significativa per chi l'ha vissuta sulla propria pelle è stato l'abbattimento della statua del regime del dittatore comunista albanese di turno. Ancora istanti, persone filmate, fotogrammi rallentati, ingranditi, stoppati. Ecco un albanese con un vistoso giaccone blu cimentarsi con forza contro la statua. Chissà che fine avrà fatto? Sarà ancora vivo?. Magari è stata solo una farsa. Un evento mediatico costruito a uso e consumo dei media, della società dello spettacolo.
Ancona nord.
Da allora un'eternità.
Il cielo è coperto.
Ma non così cupo.
L'intensa luce diffusa basta a mettere di buon umore.
Dopo circa venti minuti di tentativi a vuoto il passaggio buono. 
Va bene. 
Tutto d'un fiato fino a destinazione.
Duecento chilometri e più in un sol colpo.
A fermarsi un albanese.
Sbarcato ad ancona da durazzo, diretto a vicenza.
Fa l'orafo.
Una persona alla mano, molto disponibile.
Ci si racconta le personali storie.
A metà strada ci si ferma all'autogrill per un coffi.
Già che ci siamo si divide pure quanto rimane delle provviste preparate in albania.
Un panino con un salame locale e pomodoro. Niente di speciale. Impossibile rifiutare nonostante il panino sia già cominciato.
Mangio di gusto.
Per silenziare la fame.
Dal novant'uno vive in italia.
Ha imparato da solo a lavorare l'oro con pochi strumenti. Gli indispensabili.
Era fuggito dall'albania.
Un secondo in più e sarebbe stato arrestato come suo padre tanti anni prima. A tradirlo il giubbotto blu troppo vistoso per non essere identificato. L'accusa omicidio per abbattimento di un tiranno o meglio della sua immagine simbolica. Quella statua divelta con foga in piazza tanti anni fa, persa nella memoria di quei pochi ancora disposti a riportarla in vita tra un morso e l'altro di un panino in un autogrill padano dalle parti della valle del rubicone con il tempo virato all'improvviso verso la pioggia.

lunedì 3 febbraio 2014

Un intento forte

L'obiettivo del giorno arrivare all'appuntamento settimanale per le sei con il gruppo di studio.
Aveva tutto il tempo.
Partito da roma in treno sarebbe dovuto giungere a destinazione un'ora prima.
Ma si è in italia.
Su di un treno regionale.
L'imprevisto sempre in agguato anche quando pensi di essere oramai a destinazione.
A fabriano lo speaker annuncia due ore di ritardo a causa della rottura della linea aerea dell'elettricità.
Senza aspettare la fine del messaggio, indossato in fretta lo zaino, era già fuori del vagone per cercare l'uscita. Lo scopo provare a arrivare in stop prima possibile entro l'orario utile.
Percepiva chiaramente la difficoltà dell'impresa.
La gente del posto non era abituata a rispondere a quella insolita domanda d'aiuto. In pochi a abbassare il finestrino per conoscere le ragioni di chi in strada con lo zaino in spalla chiede di essere ascoltato. Senza demoralizzarsi uno sguardo intorno veloce. Pochi metri più in là un autobus di linea pronto a partire. La direzione quella giusta ma non abbastanza. Uno scarto di dieci chilometri da coprire in qualche modo. Beh meglio di niente. Poi si vedrà. Preso il biglietto via di corsa sull'autobus. Il tempo di mettere giù lo zaino per essere immersi all'interno di valli montane una volta incontaminate non più vergini. Profanate dall'opera incivile di un arrogante uomo tecnologico dedito al profitto indiscriminato mascherato dall'idea di sviluppo.
Pochi minuti dopo le cinque viene raggiunta la meta.
Un ultimo sforzo. Di fianco al semaforo rosso sul bordo della strada a chiedere a quanti si fermano un passaggio fino alla destinazione finale.
Questa volta va bene.
Poche macchine soltanto.
Ecco la persona giusta.
Un avvocato di ritorno dalla palestra.
Pochi minuti ancora e l'obiettivo è raggiunto.
In tempo per l'appuntamento.
Una telefonata a moustache e anche gli ultimi chilometri vengono coperti in un baleno.
Quel giorno all'incontro con ancora tutta l'adrenalina addosso sentiva sarebbe toccato a lui accendere l'incenso. Il cuore trasparente girava sul tavolo provando a additare qualcuno. Dentro quella certezza non diminuiva. Giro dopo giro il cuore rallentava la sua corsa. Ancora una mezza circonferenza lenta disegnata sul tavolo prima di fermarsi silenzioso indicando la sua direzione.
Troppo chiaro l'intento per non essere soddisfatto.
Tutto come fosse la cosa più naturale di questo mondo.