lunedì 24 febbraio 2014

The dark side of the moon


Arrivarci non è facile.
Prima bisogna arrampicarsi per circa mezzo chilometro su via dell'osservanza. Una salita mediamente del dodici, venti per cento.
Poche centinaia di metri ancora e si è in aperta campagna.
I famosi colli bolognesi.
Lì una volta c'erano le ville dei nobili.
Da quel punto si poteva mirare dall'alto bologna.
È notte.
Il luogo è poco illuminato.
Difficile leggere i numeri civici sui muri, sulle colonne in pietra dei cancelli.
Tra tanto buio spiccano delle isole di luce.
In una di quelle oasi artificiali sta la meta.
Villa barruziani.
Alla fine con la bici al traino ecco trovata l'entrata.
Scritta a chiare lettere su un cartello.
Da lì bisogna ancora percorrere una strada irta piena di curve. Là in alto svetta la villa come un castello antico a sorvegliare tutto quanto intorno. Non senza incutere una certa soggezione.
Da tempo i nobili se ne sono andati.
Al loro posto case per anziani, luoghi di cura per malati psichiatrici. Quanti a un certo punto della loro vita non sono più riusciti a contenerla. Sopraffatti da crisi epilettiche, attacchi d'ansia, manie depressive. Un vero incubo. L'angoscia sale all'improvviso. Ti prende alle spalle di notte. Quando sei solo. Impossibile individuare il nemico nascosto dentro intento a compiere veri atti di guerriglia. Vedi solo gli effetti. Come dopo l'esplosione improvvisa di una bomba al mercato delle erbe, in autobus ad opera di kamikaze suicidi. Una parte di te, a tua insaputa, sabota la tua tranquilla esistenza. Difficile trovarne le cause nel proprio passato. A volte si tratta solo di problematiche organiche, magari di somatomorfosi antichissime. Arduo risolverle con la logoterapia. Se ci si rivolge a quando ancora non esisteva un piano simbolico sviluppato capace di contenere l'eccesso, le proprie paure. Qui ci si inoltra in regioni limiti, poco esplorate. Spesso l'unica soluzione è sedare le conseguenze. Fermare i pensieri, il corpo con quantità di pasticche colorate fino alla destrutturazione. Tutto per arrestare la meccanicità cieca di un corpo allo sbando.
Sto maaleee...
Ripete una signora sessantenne.
Non prima di averti preso il braccio, provato a tirarti verso di lei. Non senza continuare la sua litania a ritmo.
La stacchi.
Si ferma di colpo.
Se ne va da un'altra parte.
La rincontri poco dopo.
La stessa scena, le stesse parole, lo stesso sguardo panico alla munch.
Non tutte sono così.
E dico tutte solo perché il reparto è quello femminile.
Molte le vedi normali.
Potrebbero essere in un ospedale qualsiasi a giocare a carte, guardare la televisione.
Ma dietro ognuna di loro si è spalancato a un certo punto un abisso inenarrabile. Là ad attenderle l'orrore.
La struttura ospitante è quanto di meglio visto fin d'ora.
Qui ti trattano umanamente.
Non sei solo un pazzo.
Sebbene si tratti pur sempre di una prigione.
Non puoi uscire da solo.
Hai le tue pasticchine alla tal ora e via dicendo.
Il luogo più fuori è la sala fumatori.
Un piccolo bunker degno delle descrizioni urbano metropolitane del miglior tati, delle astronavi-alberghi di kubrick. Una stanza trapezoidale bianca. Sul soffitto gira lenta una grande ventola. Costante il rumore basso di un aspiratore d'aria. Simile al ronzio di certe centrali elettriche. Per accendere le sigarette una struttura metallica all'altezza del viso. Ha due tasti. Un bottone per accendere l'altro per infilare la sigaretta. Sui tavolini due vasi pieni di cicche.
L'aria puzza di fumo come nei locali pubblici di una volta, prima delle leggi antifumo.
Quando entriamo non c'è nessuno.
Ma come un tam tam lanciato telepaticamente tutte le pazienti fumatrici accorrono una dietro l'altra. É questo l'unico momento di svago. Quasi uno spazio di libertà fuori da tutte le regole. Dove i ritmi sono più naturali, improvvisati. Si può fare battute, scherzare amabilmente come si fosse da qualsiasi altra parte.
In poco tempo la sala si riempe
Arriva anche la signora di prima.
Sto maaleee.
Sto maleeee.
Poi prende la cicca la porta alla bocca e per un attimo si sospende anche lei dal suo lamento continuo.
Dopo un po' uno alla volta escono fuori.
La stanza si svuota.
Rimane solo il ronzio.
Sono le otto e trenta è ora di andare.
Anche perché qui si va a letto presto.
Avverto l'infermiera sempre gentilissima di aprirmi il portone.
Fa un cenno di assenso.
Arrivato davanti è ancora chiuso.
Suono il campanello.
Un clic repentino.
Pochi istanti ancora e sono fuori.




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