martedì 18 febbraio 2014

Il tè nel deserto

L'appuntamento al buio con la vita.
Dopo essersi spogliati di tutto.
Aver visto allo specchio la propria moltitudine, l'incoerenza, l'incostanza.
Abbandonarsi a tale flusso la tentazione massima per consegnarsi al caos. Nella speranza di trovare anche lì un ordine, magari incomprensibile eppure alla lunga efficace.
Questa è l'essenza dell'essere ramingo quando va bene, randagio nelle sue manifestazioni più notturne, istintive, brutali. Comunque nomadismo e pedalare. Dopo l'accettazione della fine del soggetto, della (falsa) coscienza come fatto compiuto si continua a vivere lo stesso. Anzi per certi versi si comincia a vivere. Sempre ci sia ancora un barlume di coscienza a guardare gli eventi accadere come si fosse al cinema. Perché il gran gioco non sei tu a condurlo, arriva alle tue spalle, ti trascina come un vortice. Puoi solo cavalcarlo. Questa l'abilità suprema per non essere spazzati via. Riuscire a stare sulla cresta dell'onda, a cavalcioni della bomba in caduta libera. Pura follia, ma è pur sempre meglio di essere relegati in uno dei tanti ruoli da schiavi, privi di volontà, servi passivi degli eventi, di qualcosa, di qualcuno.
Certo l'alternativa è sempre la stessa. Forse il miraggio più grande. Evolvere fino a far emergere dio. Cioè essere i padroni di sé stessi, i portatori di una volontà di potenza efficace. Cioè poter creare mondi a piacimento secondo quanto è meglio, magari con amore. Sta parola misteriosa quanto fumosa il più delle volte. Certo andrebbe bene pure sedere al fianco del dio padre di turno e partecipare del banchetto celeste.
Difficile dirlo.
Per ora, a questo livello, improbo avere una volontà siffatta. Anche perché vuol dire essere entrati nell'eternità, nel sempre identico, oltre il mutevole, transitorio. Responsabili a vita. Con un intento preciso, custodi della verità. Niente più incertezze, il brivido del nuovo, dell'inatteso, del fallimento, dello smacco, della morte.
Il regno della perfezione assoluta.
Che palle.
La sensazione più immediata.
Forse mangiare la mela significa proprio ribellarsi a quel destino diviniforme. Forse la più grande maledizione. In fondo gli ultimi saranno i primi no? Meglio forse stare poveri dall'altra parte, lavorare piuttosto per portare a termine la creazione in barba ai suoi creatori poco sensibili o incoscienti.
Chi lo sa poi.
Forse il problema non è la diviniformità in sé, comunque da inseguire e incarnare. Nel senso di liberarsi da quanto ci agisce meccanicamente. Senza arrivare però a agire la potenza, la volontà acquisita. Ovvero realizzare una volontà di sola potenza, nel senso della dynamis e non attuarla più, sospendendola, arrestandola ab aeternum.
Intanto provo a capirci di più.
Sempre poi ci sia qualcosa da capire.
Continuando per ora a seguire quella voce figlia dell'angoscia e del malessere, a accogliere ancora quello spirito nomadico al momento aperto a un vitalismo oltre ogni misura.

Nessun commento:

Posta un commento