lunedì 26 marzo 2012

Dura da digerire

Si era offerta di portarlo a casa in macchina.
Da Ancona alla sua città lì nei dintorni.
Di notte, allungando di non poco il tragitto abituale.
In auto avevano conversato amabilmente.
Di antropologia.
Una passione comune.
Alimentata dalla discussione attorno al tavolo con i ragazzi della ciclofficina sempre pronti a nutrirsi fino all'anima.
Il tema quello ancestrale della sacra famiglia.
Dei dispositivi impliciti del potere nel promuoverla come naturale. Della possibilità di nuove forme di vita relazionali una volta riusciti a liberarsi da tali lacci. L'unico modo per resistere al dominio del sistema biopolitico della produzione di individualità assoggettate.
Avevano molte cose in comune.
E gli piaceva nonostante la differenza di età.
Alla fine arrivarono a destinazione.
Fine della piacevole serata.
Scesero entrambi.
Prese le valigie dal cofano, se le strinse addosso come se stesse per partire al fronte.
Si salutarono.
Un bacio alla guancia austero.
Avrebbe voluto un po' più di calore.
Anche perché quelli erano i momenti in cui ricaricava le bombole per scendere di nuovo negli abissi. Come resistere altrimenti?
Senza pensarci le disse:
Un abbraccio.
Avvolgendola leggermente a sé.
Un atto performativo...
Non una semplice comunicazione verbale.
Saltando fossi, ostacoli, resistenze per assecondare una insanabile carenza d'affetto.
Il contatto fu per un istante brevissimo.
Sufficiente per sentire lo stridore del gesto, la violenza celata.
Senza voltarsi si diresse a casa.
Dopo pochi secondi senti il rumore del motore accendersi, lo sfregolamento delle ruote sull'asfalto.
Poi più nulla.
Solo il gelo dentro.
Per giorni portò con sé l'immagine di quel saluto con estrema sofferenza.
Non era andata come avrebbe voluto.
E il rimedio era stato peggiore del male.
Rimase sospeso per più giorni prima di riuscire a elaborare l'accaduto facendosene una ragione.
Indietro non si tornava.
Parlarne non so quanto sarebbe servito.
Preferì la strada del silenzio.
A cocci oramai fatti.

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