martedì 24 gennaio 2012

Shame, lo sguardo del desiderio

Il film si inserisce entro la linea tracciata da Menhunter, Il silenzio degli innocenti, American Psyco...
Parla delle dinamiche ambivalenti del desiderio di un uomo occidentale iperraffinato immerso nella più avanzata società dei consumi oggi esistente.
Il desiderio non è un affare a due, né si risolve autoreferenzialmente come prassi solitaria...
Ancor prima origina da un contesto che lo preforma.
Disponendo il protagonista a fare o non fare certe cose secondo una determinata economia sociale collettiva condivisa.
Senza riuscire a ingabbiare mai definitivamente un eccesso di pulsioni primitive vicine a una dimensione autenticamente animale.
In mezzo c'è la coscienza, lo spazio in cui le due sfere quella naturale e quella culturale si incontrano/scontrano...
La disconnessione tra le due genera vergogna (shame).
In particolare quando in tale scissione l'animale viene giudicato secondo consuetudini sociali, valori condivisi che provano a negarlo, isolarlo in una zona di penombra, di rimozione.
In questa relazione abbiamo il protagonista intento a relazionarsi malvolentieri con la sua coscienza (Sissy). A lungo tenuta a distanza alla fine si insinua nel suo quotidiano per sconvolgere, modificare i suoi piani. È lei a tentare di contenere la sua compulsività, il desiderio di fusione orgiastica animale. Una pulsione meccanica coattiva in grado di possederlo in ogni momento, in ogni pratica. Al lavoro, con gli amici, da solo... Tale istinto è amplificato dalla cultura pornografica dominante in cui a fare da padrone è lo sguardo voyeur, il mettere in scena l'orgia come trofeo, per simboleggiare il proprio valore. Urlando selvaggiamente davanti a una vetrina, che poi è la sua finestra di casa aperta sul mondo allo sguardo di tutti. La superficie aperta in cui spettatore e attore collassano e si neutralizzano fondendosi. L'atto sessuale non è un fatto privato ma è sempre spettacolarizzazione. Un gioco a tre. Per questo necessita di una vetrina come separazione tra sé e il mondo, un pubblico... La stessa città con le sue pareti trasparenti è una ostentazione di oggetti fino al parossismo e all'osceno. Tentazione all'ennesima potenza per sedurre, portare a consumare senza ritegno qualsiasi cosa. Fino alla bulimia, al cannibalismo. La stessa logica è trasposta anche nello schermo del computer, una vetrina double-face sul mondo all'ennesima potenza in grado di catturare/-ti in ogni istante, dovunque. La società dello spettacolo all'ennesima potenza nell'era della interconnesione globale.
Unico ostacolo, in tale dispositivo carnale orgiastico spettacolare totalizzante, la coscienza. Per godere a pieno è necessario silenziarla, nel caso portarla fino al suicidio... sennò addio il godimento pieno, sfrenato, brutale. Quando si tocca per un istante il proprio abisso, il proprio senza fondo arrivando a confondersi con Dio. La diviniformità non è un'ascesi ma solo uno sprofondare perfetto, senza scarti, al di qua del bene e del male. Solo sospendendosi moralmente ci può consegnare alla vita nuda, quando spogliati delle maschere quotidiane si agisce secondo gli istinti più bassi, quelli dell'animale cacciatore, nomade difficilmente addomesticabili secondo le più bonarie esigenze di sicurezza, di pace dell'uomo sedentario sia esso agricoltore o tecno-economo. In questo paradigma non c'è spazio per l'amore domestico né spirituale. Un qualcosa di irreale, distante anni luce dalla quotidianità vissuta dal protagonista. In fondo una sua parte residuale lo cerca ancora. Meglio, come fosse uno scienziato disperato, lo mette alla prova. Seducendo l'innamorata altrui di turno per traviarla, irretirla al suo livello. Dimostrando che non esiste altra chance... Tant'è facile l'adescamento. Come si fosse predisposti solo a quello. E anche quando, in un momento di crisi di coscienza, prova a trovare la ragazza giusta, con tutti i crismi per una relazione a due, magari da sposare per una frequentazione amorosa stabile possibile, il suo corpo si ribella. L'amore è vissuto come una violenza agita sui suoi istinti animali per delle finalità sociali complesse, sovrumane, un dispositivo culturale agente con scopi autonomi al di sopra di un altro dispositivo più basilare quello naturale-animale. Una convivenza impossibile, tragica. Una scissione netta. Alla fine bisogna decidere. O si sta da una parte o dall'altra. Arrivando a immolare una delle due parti. Un sacrificio a prescindere. Per il regista fatale. Il nostro protagonista opta per la piena animalità raggiungibile al prezzo momentaneo della coscienza. Un mettersi a nudo sincero, genuino a ogni costo, contro il gioco delle maschere, dei ruoli prefissati socialmente. Spesso al prezzo di un compromesso nevrotico quanto schizofrenico per tentare di salvare capra e cavoli, a discapito però della verità/autenticità. Un gioco di ruoli cucito più per sopravvivere e arrancare che per dispiegare la propria potenza attraverso una continua esigenza autocelebrativa. La gloria esibita nell'urlo durante l'amplesso come compimento di un vertice inaudito. Quello dell'animalità portata al suo complimento pleromatico. Raggiunto tanto più ci si abbassa. Paradossalmente afferrabile solo nel punto più elevato, compiuto del tragitto storico umano. Ma anche questo vertice postumano si rivela essere solo una delle tante tappe di un cammino infinito alla fine identico a se stesso. La linea si flette su di sé per chiudersi fatalmente in un circolo stritolante sempre identico a se stesso. Alla fine in ogni gesto, in ogni espressione facciale si rimane ancora residualmente al di qua del paradiso. Invischiati in una gettatezza irrimediabile. Dio rimane un trascendente assoluto, il tutt'altro. Una meta impossibile. L'urlo conclusivo di piacere deraglia così in un urlo disperato all'ennesima potenza. Lo stesso impresso nelle tele di Bacon, nelle carni squarciate dei bovini da macello. Ma anche nell'uomo macchina di un de Maistre-de Sade. Una sorta di ecce homo certificato per l'eternità da una sentenza stroncante, definitiva.
Alla fine il difetto del film sta proprio nei suoi pregi. Nella tentazione di voler assolutizzare una dimensione relazionale, sessuale, amorosa emersa in una certa tipologia di società storica. Forse anche per piegarsi alla logica dello spettacolo... A fronte di tale compiacimento tragico si sarebbe preferita una maggiore apertura per continuare a cercare e sperimentare nonostante tutto. Magari partendo da una promessa, la soglia viva per aprire la porta a un potenziale umano tutt'affatto esauritosi nella semplicistica, riduzionistica contrapposizione/scissione tra tra eros animale e amore. agapico.

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