domenica 30 ottobre 2011

Il teatro della crudeltà

Antonin Artaud è morto di cancro al retto come la zia.
Forse proprio così ha compiuto la sua opera senza opera.
Al di là di ogni contaminazione metaforica.
Per non sparpagliare fuori altri scarti.
Tappandosi letteralmente il buco del culo.
Per smettere di seminare intorno.
Per non generare più.
Opera implosa per eccellenza.
Disimpegno totale verso le proprie funzioni vitali.
Kundalini turgida di feci dure impossibilitate a uscire se non ripercorrendo il tragitto contrario verso l'alto. Al punto di innalzarti fino alla morte.
Un sacrificio perfetto!

Restless

È il titolo dell'ultimo film di Gus van Sant. Parla di giovani violentati dalla vita, di elaborazioni del lutto di esserci ancora, della scoperta di non avere un proprio ma di essere ostaggi dell'altro. Un sé anarchico dato in prestito per un po' a una coscienza ignara. Giusto il tempo di scoprire come stanno le cose e avere modo di prepararsi alla vita imparando a restituirla senza scarti. Lo si può fare con tragica grazia oppure ribellandosi demiurgicamente. Provando a fare finta di condurre il gioco, a farsi violenza da soli per nascondere la violenza originaria. Alla fine si tratta solo di una identificazione con l'altro carnefice prendendone all'occorrenza le veci. Al massimo si può diversificare la storia. Però si è sempre all'interno dello stesso gioco al massacro sia auto o etero indotto.
I giovani di Gus van Sant hanno scelto per quanto possibile la prima via. Inutile il risentimento, il rimbalzo della colpa, la rivendicazione, la rivalsa. Andare oltre non è semplice. Dopo tante battaglie, rimane solo l'accudimento reciproco in vista del proprio o altrui funerale. Con una grazia infinita, una dolcezza d'animo in grado di farti morire in piedi nonostante i colpi della vita. Tutto con leggerezza, distacco partecipe. Consapevoli di aver già perduto ogni cosa ancora prima di nascere. Espropriati da sé stessi da sempre. Il massimo dell'alienazione però con coscienza. Il sé come altro. Il rapporto costante con un nemico con il quale bisogna fare comunque i conti.
A chi interessano oggi tali tematiche?
Tra qualche giorno sarà Halloween.
Si parteciperà alla festa nonostante tutto, come nel film. Però nulla a che spartire con lo spirito orgiastico di chi pensa di prendere parte a un banchetto. Nella vita non si tratta di prendere, quanto piuttosto di rendere. Al massimo si può partecipare allo spettacolo del proprio corpo fatto a pezzi lentamente, trasformato al punto di essere irriconoscibile. L'alieno sublime inguardabile allo specchio. Doppio perturbante per quanto familiare e sconosciuto allo stesso tempo.
Insomma un film per tutti, alla fine per nessuno.
Una garanzia di qualità.
Totalmente estraneo alle logiche dello spettacolo.
Film antieconomico per eccellenza, per questo scartato a prescindere.
Una sola settimana di programmazione all'Odeon.
Poi il sacrificio sull'altare del botteghino per risorgere due settimane dopo all'Antoniano. Un cinema parrocchiale incluso nell'antistante convento dei frati. Un luogo un programma. Cinema della spoliazione per l'appunto, accolto da chi ha fatto della povertà il simbolo assoluto della vita. L'unica concessione a tale rigore è la festa post mortem. Il banchetto conclusivo per chi rimane a portare in silenzio la memoria intima dei bei momenti vissuti insieme.
In sala siamo in sei.
Appena seduto trovo al mio fianco una coppia di amici. A una spanna, senza volerlo. Ancora una volta l'imprevisto piacevole come la ciliegina sulla torta.
A metà film si accende una luce a rompere l'atmosfera.
Non si sa perché.
Rimarrà a farci compagnia fino alla fine.
Ma va bene così.
Questo è un cinema del disincanto e della giusta distanza.
Anche il troppo buio può accecare!
Meglio stare a contatto con la realtà circostante per potersi dire “è solo un film”.
Senza esaltazioni particolari.
Chissà... forse era previsto dal copione...
Usciti ci troviamo fuori a parlare tutti e sei.
Come amici di vecchia data.
Fuori dal tempo, dallo spazio.
Si sta insieme per un po'.
Poi ci si saluta fraternamente. Non prima di essersi dati appuntamento al Galliera, un altro cinema parrocchiale. Per vedere l'ennesimo film scartato dalla “vita”.

venerdì 21 ottobre 2011

Palazzo Paleotti

Il venticinque di via Zamboni.
Luogo storico di tante battaglie.
Lì si è consumata alla fine degli anni ottanta l'occupazione del bar dello studente con la conseguente autogestione antieconomica. Poi il sistema costituito si è rimpossessato degli spazi rinchiudendoli per un lungo periodo.
Da qualche anno, dopo la cura normalizzante, la nuova apertura al pubblico come sala da studio da una parte e di navigazione dall'altra. Tanti computer l'uno di fianco all'altro in serie. Però la luce non è affidata a una semplice lampada qualunque ma a un modello Artemide costosissimo.
Cosa non si farebbe per illuminare la triste catena di montaggio dello studente perfetto in grado di macinare esami su esami come nulla fosse. Piegato sui libri tra una lezione e l'altra senza spezzarsi mai.
Eppure anche questa trasformazione non ha resistito al tempo, alla stretta normativa. Troppa la storia incisa sui muri verniciati a nuovo per poter essere imprigionata entro le moderne regole di sicurezza.
Alla fine la sala navigazione è stata chiusa.
Non tutte le disposizioni di agibilità erano garantite.
Tutto in nome della salvaguardia degli utenti ora in strada senza più computer. Al massimo solo undici postazioni disponibili per i non studenti contro le trecento di prima.
Non è facile vivere in questo mondo.
Soprattutto rispettare quegli ideali di sicurezza tarati secondo livelli disumani di salute pubblica. Stando a quei parametri sarebbe certificata l'impossibilità della vita sulla terra. Luogo ameno, poco ospitale, non in grado di garantire una sicurezza assoluta. Dove a prevalere è casomai l'imprevisto.

Ciclofficina esistenziale

La ciclofficina esistenziale non ha bisogno di luogo. Non lavora in superficie, tanto meno vuole ordinare la materia per farle assumere una forma.
Puoi trasformare gli ambienti, spostarla da qualsiasi parte.
Non è un problema!
Lei si adatta.
O meglio... rimane indifferente.
A contare è solo la presenza, la relazione tra le persone in carne e ossa disposte al confronto, a mettersi in gioco per cambiare dentro. Oltre ogni logica vittimistica, contro l'idea di voler manipolare l'altro per farne un oggetto manipolabile sebbene in vista del “bene”.
Si lavora solo su sé stessi, sulle proprie emozioni, sulla propria immaginazione, sulle capacità di analisi. Scoprendo livelli sempre nuovi sebbene ogni volta familiari. Disposti a mettere tutto in discussione in ogni istante. Senza freni.
Quanto da abbattere va abbattuto senza remore o nostalgie.
La verità di oggi non vale domani.
Tutto in nome di una precarietà dinamica capace di portarti a fondo se non adeguatamente gestita.
L'importante è saper perdere.
All'occorrenza tutto.
Restituendo prima possibile ogni orpello trattenente il flusso vitale. L'altro silenzioso, l'ospite inquietante capace di possederti per un istante solo se gliene si lascia la possibilità, lo spazio, meglio il vuoto.
Senza troppo resistere, senza essere del tutto passivi possiamo solo opporre un leggero filtro creativo. La maschera essenziale del momento con la quale la materia si incarna in qualcosa, in qualcuno. Seppure per il tempo di un istante.

E il naufragar m'è dolce in questo mare...

Machestaiadì!
È il rischio del fraintendimento assoluto, il punto abissale dove affondano i pensieri, il proprio mondo, le proprie basi esistenziali.
Le parole erette come castelli in aria precipitano scosse dal terremoto della vita. Invano hanno provato a circoscriverla entro recinti di senso. A ondate ritmiche come uno tsunami la vita si riconquista le posizioni perse. Inutili le barriere, le recinzioni per contenerla. Tutto viene travolto e riportato al caos. In quel frangente dove vacilla ogni certezza si viene condotti sulla soglia della follia. Dopo il crollo si resta nudi, in silenzio, senza protezioni, con le spalle al muro. Tutto è sospeso, indefinibile. Lì si toccano gli opposti neutralizzandosi. Ogni posizione diventa plausibile. Yin e yang, il luogo della paratassi dove si perdono i pensieri. Il punto in cui si incrociano tutte le storie, le narrazioni plausibili. Senza più la possibilità del discernimento.
Insopportabile l'abisso senza fondo raggiunto per non rivestirsi frettolosamente di un ulteriore catena di parole organizzate in un discorso sensato. Per recidere tanta varietà, tanta complessità stritolante. Troppo lo spavento, il freddo patito per non coprirsi ancora cercando di nascondere per un po' quel naufragio senza ritorno sempre dietro l'angolo. Già parlarne è segno di esserne sopravvissuti ancora, di aver messo i piedi su chissà quale isoletta sperduta nell'oceano in procinto di sprofondare senza preavviso.

venerdì 14 ottobre 2011

A morte lo zen e l'arte della manutenzione della bicicletta

Era inevitabile?
Nessuno può dirlo.
In tempi di crisi tutto si sospende. Spesso emergono comportanti inaspettati dettati più dalla sofferenza del cambiamento in atto. Difficile sopportare la prospettiva di morire per nascere in altro.
Nel volgere di un anno o poco più si era passati dalla ciclofficina esistenziale sospesa, destrutturata, minimale, a quella funzionale del fare.
Ma l'estate aveva portato scompiglio.
Alle più o meno complesse forme di stare insieme intorno alla bici si era affermato il caos anarchico. Ogni pratica comunitaria si era andata a farsi benedire. Così, vuoi per la mancanza di una parte dei ciclofficinari, vuoi per il naturale rilassamento estivo, c'era chi ne aveva approfittato. A man bassa avevano depredato la ciclofficina dei suoi strumenti, degli oggetti preziosi. Incuranti del futuro. Pronti a ferirla mortalmente. A tale situazione si era aggiunto la normale attitudine spensierata di chi veniva per la prima volta in ciclo senza avere le idee chiare.
Sarebbe bastato aspettare un po', dare modo a tutti di farsi le ossa, di innestare nuove dinamiche relazionali improntate sull'amicizia e la cura reciproca. Alla fine si sarebbe trovato un nuovo equilibrio. Se solo si fosse rimasti ancora un poco in apnea. Resistendo, sopportando questi naturali momenti di riassetto.
Invece no!
C'è chi non ce l'ha fatta a sospendere e frenare il proprio impulso a agire.
Già da un po' di tempo in ciclofficina era affiorata una insana tentazione di ordine e di disciplina.
La forma è il contenuto... qualcuno urlava!
Tutto andava catalogato, reso disponibile in modo chiaro, secondo un senso palese capace di innestare i giusti comportamenti consequenziali nell'applicazione delle normali regole di manutenzione.
Basta con le bici fuori posto!
Anche la disposizione degli utenti andava regolamentata secondo un disegno preciso, economico, utilitaristico. Presi per mano i nuovi arrivati venivano condotti nei loro box già preordinati.
Da ora si aggiusta le bici solo dentro gli spazi della ciclo.
Chi sta fuori è escluso.
La manutenzione della bicicletta si era meccanicizzata.
Niente più inconvenienti o imprevisti.
Tutto era diventato logico, rigoroso, secondo una catena causale di azioni e di conseguenze previste.
O bianco o nero!
A volte si rasentava l'eccesso e per chi era abituato ai vecchi standard la cosa dava un po' fastidio. Anche perché al caos creativo di prima si era sostituito un apparato gestionale di certo efficiente però disumano. La tecnica aveva prevalso sull'uomo. La ciclofficina utilitaristica portata all'eccesso era divenuta post-human. In linea con le tendenze generali già viste all'interno di una società tecnocratica, biopolitica.
Se prima si riusciva a perdonare le fisiologiche idiosincrasie grazie a delle dinamiche affettive compensatorie, ora in nome del senso, della verità si preferiva la disciplina, l'allineamento. Mossi da un antico spirito utopico di educazione certamente autoritario, pronto a sacrificare sull'altare della funzionalità tutto, compresa l'amicizia e le sue dinamiche non lineari.
A conti fatti tale regime austero non sarebbe durato a lungo.
La forza arcana della ciclofficina avrebbe prevalso ancora una volta.
Troppo duro il prezzo da pagare per i sacrificatori di turno, per i normali utenti privati delle loro abituali libertà.

mercoledì 12 ottobre 2011

Minuteria

Strati su strati di bulloni, viti, nipple, piccoli oggetti di ferro più o meno accatastati nei luoghi del riciclo. Dei piccoli contenitori a cassetti appoggiati al muro con su scritto il nome della categoria generica. Che so coni, sferette, chiavelle... Ma il luogo più interessante è un contenitore a settori abbastanza grosso da coprire la superficie increspata di un vecchio tavolo di legno. Quello è l'abisso della ciclofficina. Il punto zero dove affonda la struttura complessa di una bicicletta. Sorta di buco nero capace di assorbire la materia ordinata per neutralizzarla. Lì c'è il livello minimo, atomico dal quale potrà rigenerarsi qualsiasi cosa. Basta un po' di pazienza e una non comune predisposizione archeologica. La sedimentazione delle ciclofficine passate ha compiuto il suo corso. Ne rimangono solo le tracce confuse, mescolate.
Chi ha messo lì i pezzi?
Chi li ha smembrati e conservati?
Di loro rimane le vestigia del lavoro di sminuzzamento, l'attitudine a differenziare il materiale in categorie distinte. Mossi dalla pulsione di fare ordine, di dare luogo a un nuovo corso tutto da inventare.
Con il ditino indice proteso in avanti, la testa bassa, lo sguardo focalizzato su di un piccolo settore si rovista piano piano spostando il materiale a destra e sinistra. Di poco. A caso. Come farebbe un bravo archeologo sulla sabbia a caccia di reperti. Qualcosa emergerà da tale caos. Mescolandolo ancora. Basta avere un'idea vaga di cosa cercare in tanto marasma. Si lavora in prospettiva. Raccogliendo pezzo dopo pezzo come con un mosaico. Senza sapere bene dove si arriverà. Piuttosto ci si lascia guidare dall'intuito. Alla fine i pezzi combaceranno in qualche modo. Prima o poi emergerà una forma conchiusa, un oggetto di nuovo funzionale.
Il piacere della ricerca è immenso.
Ci si può passare ore e ore a rovistare nel nulla per portare quei frammenti a essere ancora qualcosa.
La varietà incontrata è sorprendente.
Una quantità smisurata di minuteria tutta differente inventata per scopi oramai dimenticati.
Massimo il potere creativo.
Lo stesso di quando si giocava con i lego.
Ci puoi costruire un grattacielo se vuoi.
A partire da un nulla.
La formula segreta della creatività.
Oltre il regno della tecnica, della funzionalità seriale.
Basta immergersi.
Stare in apnea il più possibile per scovare i frammenti giusti.
La seduzione dell'oggetto è totale.
Si viene posseduti dalla forma di una vite, di un bullone.
Tanta l'ammirazione e lo sconcerto per il pezzo trovato.
Si potrebbe arrivare sulla luna da lì.
Con un po' di volontà, un pizzico di spirito critico. Il tutto condito da un'attitudine creativa non facilmente incline a lasciarsi influenzare dalla mancanza, dalla paura abissale.
Prima però bisogna sospendere tutto.
Fissarsi lì in quei pochi centimetri davanti al naso senza fiatare.
Qualcosa succederà.

lunedì 3 ottobre 2011

La ciclofficina spettacolare

A fianco di tutte le ciclofficine finora affrontate, quella esistenziale, del fare, utilitaristica, antieconomica, esiste un ulteriore livello tenuto finora in ombra.
Di tutti è il più astratto, il meno tangibile.
Però c'è. E sebbene faccia fatica a affrontarlo mi trovo costretto a parlarne. Per onore del vero.
Si tratta della ciclofficina virtuale, evenemenziale, spettacolare, mediatica. Come già accennato di tutte è la più inconsistente. Forse non sussiste nemmeno. Anche perché non ha bisogno di un luogo per esistere. Basta solo se ne parli. Attraverso i blog, per radio, sul giornale. Sono loro a decretarne l'esistenza. Alla fine a contare più di tutto è l'evento in sé isolato da una volontà ostinata a far emergere qualcosa dal silenzio, dall'oscurità. Per farlo entrare strumentalmente nel circuito della comunicazione, del dialogo al fine di parlare d'altro. Di politica, di moda, di sociologia, di costume. Per scovare che so... lo spirito del tempo, per denunciare gli abusi sociali in nome della giustizia.
Tale ciclofficina ha i suoi sacerdoti e i suoi adepti. Per farne parte è sufficiente partecipare a una riunione reale o virtuale al fine di far emergere una volontà generale condivisa. Il prezzo la separazione tra la parola e l'azione, il legislativo dall'esecutivo, l'atto locutorio dal performativo. Non più dico mentre faccio ma qualcuno farà qualcosa secondo quanto disposto. Così c'è chi pensa l'evento per farne oggetto di condivisione attraverso i media e chi si adopererà per allestirlo ad hoc. Bell'è pronto per apparire sulla scena davanti ai riflettori avidi di inquadrature, di notizie apprezzabili. Entrambi complici della società dello spettacolo, della violenza dell'opinione fondatrice di verità, del consenso, nonché strumento. Una volta consumato l'evento chi s'è visti s'è visti. Le biciclette scassate ritornano a vegetare tra cumuli irriducibili di spazzatura e di sporcizia, tra detriti informi in attesa di essere catturate e valorizzate da uno sguardo oggettivizzante poco incline a sporcarsi le mani.

domenica 2 ottobre 2011

La ciclofficina a nudo

Punto a capo.
La ciclofficina è di nuovo senza timoniere.
Va alla deriva allo sbaraglio come una nave fantasma.
Ma non affonda.
Resiste nonostante le falle, nonostante sia stata depredata degli strumenti necessari. Le chiavi inglesi, lo smaglia catene, i tiraraggi.
Senza più capo il caos ha prevalso di nuovo.
Ogni cosa è abbandonata dagli utenti distratti dove capita.
C'è ancora qualcuno intento a reclamare una dieci.
Ma nessuno risponde.
Pazienza, occorre trovare un'altra soluzione.
Oggi ad aprire c'è solo Igor.
Senza di lui i battenti sarebbero rimasti giù.
Non c'è la calca del mercoledì, quando la ciclo si riempe di studenti impazienti di aggiustare la bici nel modo più veloce possibile. Non senza un pizzico di arroganza.
Dopo la ciclofficina esistenziale, del fare cosa accadrà ancora?
A resistere come nulla fosse è solo la ciclofficina migrante. E Said è il suo profeta.
Lo scopo è minimale. Aggiustare la bici quel tanto necessario per farla funzionare sulla strada l'indomani. Non conta il tipo di guarnitura, la marca dell'asse della ruota. Basta solo farle camminare ancora un po' con quanto a disposizione. Lo stretto necessario. Riciclando il più possibile. Questa è la ciclofficina più primitiva, originaria. Lo zoccolo duro da cui potrà emergere ancora chissà quale nuova forma di vita complessa.
Eppure in tanta disorganizzazione c'è qualcuno mosso da uno spirito originale.
Alessandro ha trovato nel cortile di casa una bici abbandonata con il telaio storto. Si è sentito in dovere di ridonarle un'altra chance. Come fosse stato infatuato da quell'oggetto reclamante ancora vita. Con tutto se stesso ha accettato la sfida all'apparenza impossibile. Dopo averla smontata pezzo dopo pezzo sta portando il telaio ferito a nudo. Seduto in un angolo gratta delicatamente la vernice azzurra con la carta vetrata. Piano piano emerge in superficie un argento luminoso. Non durerà per molto. In poco tempo prevarrà la ruggine. Ma anche così l'effetto è mozzafiato.
Intanto il vero problema rimane il telaio storto.
Non sarà facile riportarlo a un nuovo equilibrio.
Però non si perde d'animo.
Fiducioso continua la sua missione.
Non importa finire oggi.
Prima o poi si arriverà.
Alessandro ha portato pure una bottiglia di vino.
Vuole condividere questi momenti con qualcuno.
Sotto sotto da vita alla sua idea di ciclofficina.
In silenzio.
Senza apparire.
Dopo l'ennesimo sterminio la ciclofficina regredita a un nuovo grado zero di significazione è pronta per risorgere dalle sue ceneri.
Il vecchio è già digerito. Disperso tra le macerie di tentativi di ordine andati a vuoto. Tra tanto caos c'è ancora lo spazio per generare nuove possibili opportunità.
La ciclofficina sotto sotto è in fermento.
Lei non si preoccupa affatto del suo futuro.
Sempre pronta a rigenerarsi come un'araba fenice.
Quante volte è stata data per morta.
Eppure è ancora lì. A dispetto di quanti ne hanno preventivato la fine. Piuttosto sono stati loro a scomparire risucchiati dalla vita.
Impossibile non rimanere affascinati da tanta potenzialità pronta a esplodere all'improvviso.
Nuova vita alla nuova ciclofficina!


Ampioraggio
Forse è finito un ciclo.
Tutto quanto c'era da apprendere è stato preso.
Ora rimane il tempo di restituirlo a qualcun altro.
Per svuotarsi ulteriormente, per ricambiare il dono.
Ai nuovi, a chi è desideroso di intraprendere tale cammino.
Per non fermare l'esperienza all'interno del ciclo dell'identico.
In modo da far dischiudere nuove opportunità!
Questa ciclo ha fatto il suo tempo.
È ora di battere nuovi sentieri inesplorati tutti da scoprire.
Mettendosi a nudo ancora!
Aprendosi a nuovi orizzonti.