sabato 26 giugno 2010

Apocalissi ottuse

Fragile discontinuo
La debolezza è la tua potenza. L'ansia insopportabile la tua benzina vitale. Il tutto non senza insolenza e irriverenza. Le lacrime sono l'olio per far girare il motore a regime. Così munita ti addentrerai entro le gole strette verso l'ignoto per una ulteriore inaudita scommessa. Grazie a loro esploderai ancora di vita. Sebbene in forme ogni volta differenti.


Apocalissi ottuse
L'angoscia adolescenziale, l'ansia senza coscienza sono il motore della trasformazione. Tanto più efficaci e potenti quanto più disarticolate e caotiche. In quei frangenti innovazione e conservazione si sfidano fino all'ultimo sangue. Spostamento, fuga e disseminazione diventano l'attimo di contenimento regressivo ma anche opportunità rivoluzionaria. Momento e luogo transizionali, capaci di innestare cambiamenti profondi in grado di sciogliere lacci soffocanti o di ingabbiare in nuove prigioni. Il tutto senza progressione ma secondo una stadialità per salti. Una parola di troppo o uno sguardo eccessivo possono far virare inaspettatamente verso una direzione imprevista come il battito d'ali di una farfalla causare un temporale a distanza. In ogni caso si tratta di fare i conti, di tessere linee di giudizio e di confini nuovi. All'apparenza definitivi. Così ci si gioca tutto senza risparmio pensando di mettere a posto le cose per sempre. Anche per farla finita di tanta tensione snervante. Eppure un resto inevaso rimane sempre. Un tarlo corrosivo risorge ogni volta nonostante lo si provi a tacitarlo e al limite a rimuoverlo. Ma quel grillo sparlante, come una goccia stillante in un vaso già colmo, continua a mettere alla prova la superficie increspata del contenitore. È questione di tempo. Prima o poi le acque si romperanno. Un nuovo diluvio inonderà tutto. E allora chissà se ci sarà ancora un'arca a salvare qualcosa. Quei resti necessari per una nuova ricostruzione. A patto di sopravvivere ancora una volta. Solo se la fragilità esibità sarà compensata da un nuovo livello sfacciato e esuberante almeno della stessa potenza. Debolezza abissale e insolenza demiurgica a braccetto. L'una specchio incontenibile dell'altra. Facce della stessa medaglia con la quale al massimo si potrà scambiare altra vita. Ancora per un po'. Non per sempre.
Comunque nella più completa assurdità.

mercoledì 23 giugno 2010

Crolli

Non c'è preavviso.
Di punto in bianco tutto quello che pensi ti sia stato dato ti viene tolto.
Nessuno bussa alla porta o affigge locandine di avvertimento.
Magari i segni erano da sempre lì davanti al tuo naso ma si era troppo ciechi o illusi per fare due più due uguale quattro. Alla fine come all'interno di un terremoto ti svegli con la terra sotto i piedi tremante. Vedi le pareti del tuo mondo frantumarsi e polverizzarsi.
Poi, una volta terminata la scossa, rimangono solo le macerie informi, il caos disorganizzato, la polvere soffocante. Insomma il deserto. E non puoi più farci nulla se non mirare impotente il disfacimento. L'unica opzione ancora concessa è di partecipare meravigliato alla potenza spettacolare del crollo. Come si stesse davanti a un gigante con i piedi d'argilla nell'istante della caduta. Sapendo però di non essere solo spettatore ma allo stesso tempo quel gigante in frantumi in caduta libera. Quello a cui partecipi è la tua rovina e distruzione. E l'immagine di fronte sono solo le macerie residuali del tuo mondo e di te stesso.
Certo, non tutto finisce.
Qualcosa rimane ancora. Un nuovo mondo si sostituisce a un altro, sebbene tu percepisca di esserne estromesso. Un po' come avviene durante lo scontro tettonico tra le zolle della crosta terrestre. Nella continua opposizione frontale una parte si solleva fino in cielo, un'altra sprofonda sottoterra e scompare riassorbita dal mulino vitale macina tutto. In questo caso si entra silenziosamente a far parte del materiale amorfo di riciclo indifferenziato. Si ridiventa potenza pura sotto naftalina pronta per chissà quale inaudito riutilizzo. Magari fra cent'anni o più. Forse solo domani. Chi lo sa.
Intanto però si aspetta ibernati, come zombie viventi a cui è stato tolto tutto. Poggiati sul ciglio della strada come macerie ancora fumanti circondate dal nuovo che sopravanza e tutto ricopre ingurgita, trasforma imperterrito. Magari si ha la fortuna di cadere proprio sotto quei cartelli di divieto di scarico come resistenza passiva, come testimonianza contraddittoria residuale nonostante tutto. L'unica effimera rivalsa ancora possibile contro questa legge spietata del rinnovamento ciclico e della disseminazione cieca e occasionale senza preavviso, nonostante le pustole delle ferite e lo sporco incrostato della polvere. Si è diventati fantasmi, o forse lo si è sempre stati. Solo ora se ne prende coscienza.
E non c'è mediazione con il nuovo. Con il vincitore di turno. Al massimo puoi aspettarti l'onore delle armi in attesa di essere dimenticato. Magari ti viene concesso di adeguarti al nuovo eone. Ma ciò vuol dire accettare di diventare altro e andare contro sé stessi per un arresa incondizionata. C'è chi l'ha definita abbandono sereno. Sarà... In ogni caso si viene ridotti come l'orma gigante di quei dinosauri scomparsi chissà quando. Una forma di vita cristallizzata al massimo da capire e da studiare. Oppure si può essere più funzionalmente riutilizzati come concime organico per nutrire la vita che verrà. Niente più.
Sta di fatto che la vita ottusa non vuole saperne delle macerie e dei resti inermi del suo passato recente andato. Non lo sopporta e prova a rimuoverli. Perché sotto sotto sa che sarà anche il suo destino.

Il mulino di Amlethi

Oggi è una giornata storta.
La logica conseguenza dopo l'ennesimo crollo di un mondo.
Di punto in bianco tutto ciò in cui hai investito e con cui ti sei dilettato perde di valore e di senso. Diventa anonimo e indifferente. In questa situazione di lutto non puoi far altro se non ritirare i tentacolari investimenti ritraendoti in disparte. Derealizzando il mondo circostante e depersonificandoti. No, non si tratta di una ritirata, ma di un rifiatare. Un passo indietro per un nuovo balzo chissà verso dove. Intanto però resta la via della sospensione e dell'arresto momentaneo. Tanto in tale frangente non si potrebbe produrrebbe nulla di proficuo. Sto ancora riflettendo se la serpe insinuatasi strisciando sin dentro casa sia una manna dal cielo capace di pulire con il suo veleno i miei occhi accecati. Forse ora mi sono appropriato di una nuova visione della realtà a me prossima meno distorta e idealizzata. Comunque in mancanza di qualsiasi spinta motivazionale non voglio far prevalere un sentimento di stanchezza e di debolezza. Per questo provo a attivare in modo autonomo nuove energie grazie al movimento fisico. Così decido di fare un giro in bici verso i colli. Non troppo distante, per non smarrire il richiamo regressivo della casa alla fine sempre a portata di mano.
Prendo la strada per San Luca con sullo sfondo la chiesa della Madonna salvatrice dalla peste. Almeno stando alle tradizioni dei bolognesi disposti ogni anno a scarrozzarla a braccia tra la collina e la piazza cittadina andata e ritorno, toccando le quindici stazioni della via crucis lungo il cammino per un totale di circa cinque chilometri. Non sono certo bruscolini e senza allenamento adeguato voglio proprio vedere come ci si arriva a valle e poi di nuovo a monte. È la stessa strada percorsa dai fervidi pellegrini disposti a trascinarsi su per i gradini in pietra con le ginocchia nude. Per espiare qualche colpa o chissà per quale altro incomprensibile motivo. Comunque, nonostante l'era globalizzata, la società dello spettacolo mediatica, qualcuno si cimenta ancora in tale sforzo solitario senza troppi riflettori attorno.
Ho appena percorso ventun chilometri e quattrocento metri, sono a circa metà del cammino preventivato per oggi e prossimo al santuario.
Il cielo è sereno sebbene spazzato da un vento caldo capace di toglierti il respiro. Ma non demordo e tiro le moltipliche fino al limite.
Il santuario con la sua mole imponente è sempre più vicino.
Poche pedalate decise e sono già sotto. Vedo le mura rosse prossime e il porticato aperto come due braccia avvolgenti. Almeno per chi sta sotto.
Scollino.
Inizio la discesa e con essa divoro il porticato posto al mio fianco. Senza freni mi lascio andare come un corpo morto. L'aria fende la superficie sudata seminuda accarezzandola come una lama arroventata.
Lacrimo.
È ora di svoltare bruscamente e di attraversare il portico per cambiare lato di percorrenza. Da lì inizia il tratto più irto. La mitica salita, ops discesa delle orfanelle.
Si, oggi è proprio una giornata storta. Senza ombra di dubbio.
Sotto la volta stretta del portico mi fronteggia di colpo una macchina nera. È un Suv poderoso contro cui nulla posso se non spiaccicarmi come un moscerino.
Tiro i freni con forza.
Forse ce la faccio a fermarmi senza danno.
Le ruote posteriori si inchiodano, ma non sbando.
Nella frazione di un secondo le distanze si annullano.
Vedo i particolari cromati della macchina e i vetri scuri come specchi in cui infrangersi.
Screeeeeck.... Spuum!
Dopo pochi secondi la ruota esplode consumata dall'asfalto abrasivo come carta vetrata.
Non mollo e tiro ancora di più i freni.
Il metallo del cerchione sfiora l'asfalto producendo un rumore secco e penetrante come lo stridore del gesso sulla lavagna.
Mi sento rabbrividire e i peli si fanno irsuti.
Mancano pochi metri all'impatto.
Due... uno... la bici si arresta.
Anche per stavolta salvo.
Ci si guarda negli occhi.
Il guidatore al volante è raggelato ma non si ferma neanche un po'. Mi schiva e accelera come non fosse successo nulla.
Lui sopra il Suv.
Mi rimane solo l'odore dolciastro della benzina bruciata.
Ispeziono il danno.
Niente da fare.
Il copertone è andato, strappato come la carta crespa di un cioccolatino. Mi rimane solo da percorrere tutta la via crucis in discesa. Da bravo occasionale pellegrino contro voglia e contro la mia volontà. Per giunta a piedi nudi vista l'inadeguatezza delle scarpe da ciclista vecchio stile per camminare su strada.
L'asfalto è caldo e pieno di sassolini appuntiti.
Stringo i denti e i freni. Perché la discesa è irta e la bici nonostante sia in alluminio e in carbonio scivola verso valle più in fretta di me.
Seguo la fascia d'ombra rimasta di fianco al portico giusto per non abbrustolire le suole come due piadine.
Intanto la bici geme.
È il metallo del cerchione a non trovare pace, anch'esso insofferente per la superficie ruvida e rovente.
La temperatura aumenta.
Poi il portico devia in faccia al sole.
Non c'è più ombra.
Inizio a elevare le prime giaculatorie.
Dopo poco si trasformano in un autentico rosario.
Ogni passo sulla brace ardente fa partire un ave alla madonna. Così uno dopo l'altro sgrano i nodi della coroncina.
Alla fine arrivo a valle.
I piedi si sono riempiti di vesciche.
Oramai non riesco quasi più a camminare.
Posso solo poggiare la pianta sana dei piedi.
La camminata si fa sempre più irregolare e impacciata.
Ma non mollo.
I miei pensieri vanno verso tutti quei pellegrini volontari.
No non c'è bisogno di cercarsela.
La sfiga arriva comunque.
Basta avere pazienza.
Arrivo a destinazione ai piedi della collina. Casa di Emilio, il mio samaritano preferito. Ho modo di rifocillarmi e nutrirmi oltre di aggiustare il mezzo. Neanche mi trovassi in un'oasi nel deserto.
Troppa grazia per la madonna.

Il tempo che resta e Survivors

Il tempo che resta
La creatività giocata solo come modo fine a se stesso, per divertimento puro con i propri amici. Senza scopo se non quello della risata conviviale, dello stare insieme e del volersi bene. Affidati all'occasione pura, al momento propizio. Quel kairos irripetibile e irriproducibile oltre ogni simulacro o virtualizzazione possibile. Perché l'importante è essere lì per essere la cassa di risonanza di qualcosa di bello, per far emergere insieme un'armonia precaria flebile. Recepibile solo dai presenti se sintonizzati sulla stessa frequenza grazie a delle antenne sensibili.
Nel tam tam di segnali riflessi, inevitabilmente distorti, nella ridondanza di battute giranti a vuoto attorno al sottaciuto voler stare bene insieme, nell'accudirsi precario, in un breve frangente si genera quella sospensione spensierata e creativa. Ma anche quell'innalzamento capace di smuovere all'occorrenza le montagne. Però così, solo per gioco, senza voler danneggiare e offendere nessuno. Perché tutti, presenti o no, ne possano giovare senza distinzione di sorta. L'impresa come spettacolo discreto d'amore di attori inconsapevoli e senza volto. Prima di bruciare tutto senza nostalgia, diretti verso un'altra occasione o il nulla.
Il fare è solo pretesto.
La meta è solo una scusa per innalzarsi da qualche altra parte non prevista. L'inatteso è il risultato del mettere in atto queste energie potenziali nascoste. È questo il gioco di specchi capaci di trasfigurare l'immagine di sé verso orizzonti imprevisti e inauditi. Sapendo che ciò non è una prerogativa individuale ma la risultante di una interazione reciproca, di un gioco di squadra. Solo quando si solidarizza insieme si entra in tale nuova dimensione. Allora si veste i panni sottili di altre identità. Invisibili per i più, ma non per i presenti coinvolti. Eppure, nonostante tutto, qualcosa riverbera nell'aria e si diffonde contagioso. Alla fine si è tutti quanti catturati. Una piacevole sensazione emerge delicatamente ridisegnando gli equilibri locali. Per un po' nulla sarà più come prima. Altri sentieri invisibili si aprono e nuove dimensioni sembrano possibili.
Tutto questo può nascere solo partendo dalla constatazione di essere solo di passaggio, in viaggio ramingo all'interno di terre sconosciute. Inutile volerne fare la propria casa o volerne ridisegnare la superficie. Che so provando a definire obiettivi o luoghi da conquistare o da appropriarsene. Tanto vale invece lasciarsi contagiare e invadere. Ma non senza filtrare nulla. In ogni caso non si è nella totale mercè del fato, né spettatori solo passivi. Anche nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa, lasciando aperto lo spiraglio per un confronto con l'alieno, l'altro su cui siamo poggiati fin da quando abbiamo cominciato a muovere i primi passi. Certo è poco. Eppure anche in questo poco può nascere qualcosa di bello quanto di effimero e inconsistente. Un quasi nulla di cui però non si riesce a fare a meno. Se non cercare di riprovare ogni volta di riattivarne la magia grazie a quel flebile esperimento esistenziale al quale ci si lascia infantilmente andare. Ma non prima di aver dismesso i propri piani, i propri progetti. Denudatisi di tutto è allora possibile superare ancora tale soglia per rivestirsi di questa tenue veste, nuova e vecchia allo stesso tempo. Sapendo però che non sarà per sempre.


Survivors
Essere sopravvissuti vuol dire essere ancora vivi dopo innumerevoli prove. Dopo aver lanciato la sfida contro il mondo e ancor prima sé stessi. Non tutti alla fine riescono a raccontarla. Di solito si rimane in pochi, di solito non i migliori. La maggior parte in un modo o nell'altro si estingue, scompare e viene risucchiata irrimediabilmente.
Eppure era necessario tutto questo?
Al termine si scopre solo di aver giocato con la propria vita senza senso.
Se ne poteva fare a meno?
E chi lo sa...
Ai nuovi “volontari” pronti a imbracciare lo zaino in spalla attraverso i sentieri contorti della vita per gettarsi contro il nemico più terribile, sé stessi, cosa dire?
Ei novello don Chisciotte sei proprio sicuro di volerti scaraventare contro quei mulini a vento per provare a infrangerli come idola?
È veramente questo che cerchi?
O c'è dell'altro ancora?
Comunque vada, magari proprio a partire dalle macerie di quei crolli, puoi forse trovare ulteriormente qualcosa di più risibile e inconsistente eppure altrettanto vitale e imprescindibile. Il confronto empatico con l'altro sopravvissuto. Con il prossimo tuo sconosciuto da sempre al tuo fianco.
A volte per vederlo bene in volto occorre legarsi.
Innanzitutto per smettere di rincorre le sirene a cavalcioni del proprio mulo o della propria zattera. Oltre che per avere la possibilità di osservare di riflesso gli altri in preda a tale passione sfrenata e seducente.
Chissà...
No oggi non sarò io a dire cosa fare.
Perché non l'ho ancora capito, nonostante abbia vissuto assai e appreso molto.
Prossimo mio, spero ancora di averti al mio fianco per raccontarsela ancora e ancor più per battere nuove piste immaginarie ancora da vivere e da scrivere.
Tutto con il minimo sforzo.

giovedì 10 giugno 2010

Dinamismo puro

Le acque si rompono, la vita senza più resistenze comincia a sgorgare con forza. Allora si sente premere dentro sul petto una tensione decisa. Le immagini si fanno fitte a cascata ritmate dalle trombe dell'apocalisse. Dal suolo si sollevano marciando in fila tutte le ombre spente e seppellite del tuo passato.
È il momento della trasformazione redentiva.
Tutto collassa lì in quel punto isterico. Buco nero dove passato e futuro precipitano. Il fiato si sospende e la respirazione diviene più profonda e infinita. L'entusiasmo prevale su ogni altra emozione, i muscoli tirati per le briglie da una potenza autoalimentantesi si attivano. Il corpo si tende come una molla pronto a scatenarsi in una azione devastante. Le corde vocali cominciano a vibrare. L'aria immessa viene forgiata in urlo lacerante, bestiale e divino allo stesso tempo. Il tutto condensato nella frazione di un istante interminabile. Picco di vita all'ennesima potenza. Pulsione informe allo stato perennemente nascente. Pur resistendo in una immobilità assoluta.
Dinamismo puro.
Sospensione eccezionale.
Butto fuori l'aria.
I parametri vitali riacquistano lentamente i valori più usuali.
Tutto torna alla normalità senza più sussulti particolari.
La vita riprende a scorrere entro argini più tranquilli.
La piena è già riassorbita.
Le acque sono ora calme e di nuovo sotto il livello di guardia.