lunedì 1 marzo 2010

Bastard deviation

Il gran gioco della vita è partecipare di un ruolo, indossare una maschera, individualizzarsi essenzialmente in qualcosa o in qualcuno. Ovviamente interagendo più o meno creativamente con gli altri attori sul palcoscenico. Il tutto però sapendo più o meno velatamente di stare a recitare a soggetto una pièce assurda.
Ma non è importante la denuncia. O almeno non lo è a partire da un certo livello del gioco. Quando si intuisce che dal grande gioco non è possibile uscire volenti o nolenti. Tutti ne siamo in qualche modo vittime e allo stesso tempo artefici sotto sotto consenzienti. Solo se si parte da questa tutto sommato banale constatazione si riesce a giustificare il fatto che il vero spettacolo non è mai quello agito al presente, ma è l'“inconsapevole” svelamento della sua finzione. Cioè il portare impietosamente alla luce il retroscena, il dietro le quinte, il sottaciuto. Ovvero i fili, le trame e i meccanismi impliciti e latenti. Così, una volta indossata la maschera e assunto più o meno volontariamente un ruolo, il “bello” sta tutto nello smascheramento dell'artificio, cioè nella decostruzione, dissoluzione, distruzione per implosione dello stesso giochetto. Sempre però senza far emergere fino in fondo la dialettica tra finzione, nascondimento e svelamento. Limitandosi a non dire tutto in una volta sola. Altrimenti poi viene a mancare il motivo del divertimento. Alla fine risulta essere fondamentale l'omissione, il saputo allo stesso tempo non saputo, per questo capaci ancora di sorprendere e di spiazzare, però solo fino a un certo punto e non oltre i limiti consentiti. Rispettando l'insegnamento dei migliori finali spettacolari. In cui tutti sanno in qualche modo la conclusione, sebbene si faccia di tutto per essere comunque sedotti dalla storia, non senza strizzare l'occhiolino. In questo senso, arrivati a questo punto la stessa suddivisione tra attori e spettatori appare superflua e superata, come d'altronde già ampiamente denunciato a partire dalle “avanguardie storiche”. Tutti si è indifferenzialmente attori sebbene ci si distribuisca sulla scena globale in ruoli differenti, inclusi quelli dello “spettatore” e dell'“attore”. In questi casi chi accetta di essere spettatore, che so magari perché voyerista, cede il ruolo di “attore” a chi è più dotato o predisposto a essere esibizionista o narcisista. In qualche modo sono gli stessi “spettatori” a donare la fama e il potere agli attori sulla scena virtuale o meno, in tutti gli spettacoli possibili della vita. Ovviamente per godere successivamente in panciolle dello smascheramento, cioè del passo falso rivelatore della finzione. A ben vedere, la denuncia dell'errore e dell'imperfezione del meccanismo scenico e attoriale sembra essere il tornaconto primario di tale ruolo. Così Pavarotti non verrà solo ricordato per le sue eccezionali doti vocali, ma ancor più per le sue stecche memorabili. Dimostrandosi in questo un uomo normale, un ecce homo qualsiasi. Allo stesso modo si delega al politico il potere solo per aspettarne il tonfo e l'emersione del suo lato torbido. Magari fotografandolo con una escort, ma ancor più con un trans o una puttana. Allora la complicità dello spettatore sta nell'alimentare di riflesso il gioco fino al suo limite estremo e all'eccesso possibile. Sperando di veder infrangere barriere su barriere fino a arrivare complicemente a flirtare con la soglia suprema della morte e della distruzione totale. Sperimentando ogni volta che al peggio non c'è limite. Anzi tanto peggio, tanto meglio. Rispettando la più seguita regola dello spettacolo. Tutto ciò, illudendosi o giocando a illudersi ingenuamente di esserne in qualche modo immune, standosene dietro il televisore o il computer in pantofole a sorseggiare tè o a sgranocchiare popcorn. Ma sotto sotto sa che non è così. Anche lui è consapevole di essere funzionale al gioco dello spettacolo dell'orrore. E gli va bene. In fondo assistere alla messa in scena della morte reale o simbolica è già un dimostrare di esserne per il momento esente. Finché si staziona sul solo piano virtuale e al livello dei simulacri c'è ancora vita e speranza. Così il partecipare anche solo come spettatori dell'altrui distruzione e corruzione è ancora un attestare la “bontà” del proprio tempo. E qualsiasi attesa non è mai troppo lunga. L'importante è essere ancora testimoni dell'orrore, continuare a raccontarsela (male), perché così si attesta la propria vitalità. In fondo poter urlare crucifigi è come scambiare simbolicamente la propria vita con l'altrui. All'interno di questa dialettica, innalzare l'“attore”, il vip, il potente di turno diventa funzionale al proprio godimento. E tanto più alto sarà il punto di lancio, tanto maggiore il tonfo. Ma tutto questo ha il suo prezzo, il biglietto da pagare per assistere a tale spettacolo. Infatti per partecipare della detronizzazione di un re bisogna aver accettato di essersi alienati al ruolo di servi, cioè a spettatori impotenti e al limite a attori di bassa lega nella vita quotidiana. Come tutti sanno, dietro a un grande film non c'è il solo regista o l'attore principale, ma una marea di minute comparse più o meno citate nei titoli di coda, fino a diventare illeggibili quanto insignificanti via via scorrendo. Al punto di essere addirittura escluse. Eppure per senso di giustizia, tutti dovrebbero essere menzionati, compresi gli spettatori, anch'essi necessari come ogni altro partecipante dello spettacolo. E in qualche modo lo sono e lo saranno sempre più. Infatti, una volta ci si doveva accontentare di visitare i cimiteri dello spettacolo della vita. Accanto alle loro foto, si sarebbe dovuto aggiungere, oltre alla data di scrittura e di rescissione del contratto, anche la frase: “ha partecipato con impegno e merito allo spettacolo dell'orrore”. Oggi tutto questo sta succedendo già in vita grazie ai media e soprattutto alla democrazia di Internet. Senza aspettare la fine è possibile attestare, documentare la propria marginale apparentemente essenziale presenza per i posteri a venire di tutto il globo, non senza partecipare a un minimo di gloria. Anche se forse si starebbe tendenzialmente un po' sotto a quei quindici ottimistici minuti profetizzati da Wharol. Nonostante ciò, tutto questo risulta comunque essere alla fin dei conti un dettaglio inutile e per questo osceno. Come l'assurda insignificante vita e, al suo interno, lo spettacolo del “teatro dell'orrore”.

Prossimo tuo

Sono in viaggio e aspetto il treno regionale per Bologna alla stazione di Falconara.
É notte.
In giro c'è poca gente infreddolita dal vento dell'est.
Il mare di fronte è in movimento.
Le onde non sono elevatissime, ma la risacca sugli scogli muove la superficie lentamente rendendola un magma vischioso in procinto di assorbire tutto.
In cielo non c'è luna e nell'acqua mossa si riflettono solo le poche luci delle case e dei lampioni antistanti. Così il colore del mare increspato è nero pesto.
La distesa rumorosa, come una colata di lava che si gonfia per la pressione interna, è in procinto di esplodere per rifrangersi in mille zampilli caotici. Dopo essersi elevata a dismisura fino al punto critico di sopportazione sprofonda con fragore inabissandosi. Per riprendere tutto di nuovo in continuazione.
Sulla banchina in attesa del treno c'è anche una ragazza giovane.
In questo momento siamo soli.
Io e lei l'uno di fronte a l'altra.
Una distanza di sicurezza ci tiene lontani ma solo fino a un certo punto.
Dà le spalle alla direzione d'arrivo del treno.
Se dovessi tracciare una linea della traiettoria del suo sguardo ne sarei investito in pieno.
Si, mi sta guardando.
Ricambio lo sguardo per vanità, ma anche per capire cosa cerchi in questa direzione.
Dopo alcuni secondi intensissimi paralizzanti, la vedo abbassare lo sguardo e indietreggiare di qualche passo fin dietro la colonna della tettoia antistante.
Ora un muro ci separa.
Non volgo lo sguardo.
Così mi rifletto senza ombra sul calcestruzzo sporco.
Arriva il treno.
Si intravedono prima i due fari rotondi gialli.
Poi man mano la sagoma si definisce sempre più, sopravanzandoci infine.
Con un gemito stridulo si ferma.
Per un frangente si torna a sentire solo il rumore del mare.
Salgo con la bici.
Mi volto.
Lei è già li dietro di me.
La distanza si è ridotta a una spanna.
La condensa del suo respiro mi avvolge.
Sulle labbra ha un leggero sorriso.
La sento ben disposta verso di me.
Rispondo salutandola.
Ciao.
Cia.ao...
Eppure qualcosa non mi convince...
Percepisco la sua apertura come un eccesso sintomatico.
Vedo il suo giovane volto delicato solcato da leggerissimi capillari.
É abbastanza curata e raffinata.
Però gli occhi, come quelli di una maschera appesa, non sembrano riflettere che il vuoto.
Sotto non sembra esserci nessuno.
Saliamo insieme.
Sistemo la bici vicino l'entrata.
È ancora lì.
Con la mano tiene aperta la porta dello scompartimento.
Ci sediamo l'uno accanto l'altra.
Nella mano ha il cellulare... sta rispondendo a dei messaggi.
Però si ferma.
Cominciamo a parlare e a conoscersi un po' di più.
È senza casa e amici.
Il telefono le occorre per stabilire connessioni e per risolvere la serata. Magari per trovare un tetto dove svernare fino all'alba.
Va a Modena per lavoro, per il fine.
In qualche modo si è smarrita e sta provando lentamente a tessere il bandolo della matassa per arrivare a una soluzione, per trovarsi.
Ma non è facile.
Qualcosa la allontana centrifugamente da se stessa, da casa sua e dai suoi genitori.
Qualcosa di pesante, dal momento che il tentativo di descriversi, si stempera davanti a alcune frasi apparentemente senza senso.
Di più non riesce a dire.
Allora cambia discorso.
Mi parla dei suoi amici passati, del fatto che ama ballare, sebbene ora non abbia i soldi per andare in disco...
Comunque si sente a suo agio al punto di dirmi senza preavviso se sono disposto a ospitarla qualche volta.
Anche oggi o secondo necessità.
Ahio...
Colpo al costato come un fulmine a ciel sereno.
Ora sono io a balbettare qualcosa...
Le parti si sono invertite.
Nel frattempo mi chiede anche della casa e di quante stanze abbia.
Intanto mi assicura che si tratta solo di trascorrere una notte sotto lo stesso tetto, poi la mattina non ci sarebbero problemi.
È semplice.
Alla fine le dico di no. Noo. Nooooooooo!
Per me non è così semplice.
Rifiuto di entrare nella sua rubrica salvavita. Tra amici non più amici, conoscenti, contatti per il momento opportuno, nomi solo associati a qualche luogo e a un letto possibile.
Nel frattempo tra di noi scende il gelo.
Il suo sguardo si allontana da me.
Riprende a pistolare coattivamente con il suo cellulare in silenzio in cerca di una nuova soluzione momentanea.
Ma è un girare a vuoto.
Riesce solo a contattare un tipo che l'aveva cercata.
Le risponde amabilmente sebbene per lei sia un perfetto sconosciuto, quasi del tutto cancellato dalla sua fragile memoria confusa.
Subito dopo, rivolta verso di me, dice di avere necessità di fare quattro vasche. Mentre tra sé e sé si rimprovera di non aver pensato di prendere una birra.
Poi si alza e se ne va.
Pochi mesi or sono avevo assistito a una lezione magistrale tenuta in piazza a Modena dal titolo Prossimo tuo.
A quanto pare i greci si sentivano in dovere di accogliere lo straniero, lo xenos ovvero l'ospite/nemico, chiunque esso fosse. Quand'anche il potenziale nemico. Insomma l'equivalente latino dell'hostis. Termine intraducibile in italiano senza ridurne il significato e soprattutto l'ambivalenza.
Per farla breve, sia per i greci che per i romani, l'ospitalità era qualcosa di sacro, sopra tutto e inviolabile.
Intanto, mentre il treno scorre lungo il tragitto per Bologna, si è fatta strada la contraddizione e il conseguente malessere a giochi oramai fatti.
Come sia sarebbe stato forse scacco matto.
O magari no.
Comunque in questa serata fredda e ventilata il suo giovane fragile volto è entrato come una lama a squarciare prepotentemente la mia apparente tranquillità.
Non sarà facile suturare lo strappo.

La fortezza vuota volante

Oltre a barricarsi all'interno di fortezze vuote invalicabili, i soggetti autistici sono grandi inventori di macchine fantastiche spesso inquietanti.
Di solito vanno a rappresentare le complesse funzioni del corpo ridotto però a una stralunata macchina ripetitiva.
Anche questo è un modo come tanti per manifestare la propria ribellione simbolica e no a una realtà complessa caotica e rumorosa, provando allo stesso tempo a rimpiazzarla attraverso la costruzione di un mondo nuovo retto da un meccanismo più gestibile e prevedibile.
Il tutto non senza evidenti contraddizioni.
Francesco frequentava la ciclofficina da un po' di tempo.
Da un punto di vista anagrafico era il più avanti, seppur di poco, dal resto della truppa.
Era un appassionato di circuiti e di tecnica.
Aveva al riguardo una conoscenza immensa.
In qualche modo unica e originale.
La sua opera più mirabolante a noi pervenuta era il carretto della ciclofficina.
Di solito veniva usato nelle manifestazioni pubbliche.
Messo in testa guidava il cammino degli altri partecipanti.
Era una sorta di risciò azzurro costituito da due grazielle assemblate in parallelo.
Ricordava per forma i carretti a tre ruote del pane o del gelato di una volta.
Solo che qui si sta sopra in due l'uno di fianco all'altro.
Fin qui nulla di strano.
Ma se si va a guardare bene tra le due selle e anche sotto il carro, si scopre al centro un cerchione di una graziella messo in orizzontale, sorretto da un pignone diritto.
È il timone o meglio lo sterzo.
Da lì partono due lunghissime catene a vu collegate a delle rispettive puleggie o corone capaci di modificare la direzione delle ruote anteriori.
Non sono riuscito a capire ancora come vi riesca. Comunque il giocattolo va. Solo bisogna stare attenti a alcuni particolari non indifferenti.
Innanzitutto la manovra giusta è possibile solo se si è in accordo con il compagno di avventura.
Inoltre, visto che sterzo e ruote sono disarticolati, se si gira in senso antiorario le ruote si rivolgono controintuitivamente a destra. Viceversa se si compie l'operazione opposta.
All'inizio, il guidatore ignaro prova una strana sensazione di spiazzamento poiché avverte il carretto dissociato rispetto al proprio corpo e alla propria volontà. Infatti, quando si butta tutto a sinistra scopre con sorpresa di dirigersi dalla parte opposta.
Il carretto va in una direzione e il nocchiero dall'altra.
Il tutto mette a disagio, anche se dopo un po' ci si abitua.
In fondo lo si può considerare un'efficace metafora per denunciare l'ambivalenza e la conseguente imprevedibilità della vita. Come se le mete prefissate le si possa raggiungere solo dopo aver affrontato contraddizioni inesplicabili. Spesso dovendo remare contro il senso comune.
Per questo bisogna essere preparati a puntino e il carretto azzurro della ciclofficina sembra fatto apposta.
Una sorta di scuola guida esistenziale efficacissima e a disposizione di tutti.
Per altri versi lo si può invece pensare come una sorta di fantasticazione meccanica progettata per il puro gioco. Ovvero una produzione senza scopo se non quello di incentivare l'intrattenimento fine a se stesso. Sebbene lo si possa comunque ritenere utile per saggiare il punto estremo dove può spingerci la fragilità del nostro essere precario.
Al limite fino a una spanna dal sole, grazie all'ausilio di gracili ali sempre lì lì sul punto di sciogliersi.
In questo caso si spalanca di nuovo la via dell'abisso. Quel vuoto sempre presente, nonostante i vani tentativi di schivarlo e aggirarlo, capace di attirare verso di sé quei viaggiatori dell'ignoto come un buco nero. Il che succede ogni volta quando si tende troppo la corda fino a spezzarla. Allora ci si spiaccica velocemente al suolo e si torna con i piedi per terra.
Nonostante ciò non ci si ferma.
Rattoppate le ferite si prova a costruire altre ali, sospinti se possibile da una disperazione ancora superiore.
In fondo altro non si può fare se non giocare ancora.
Rischiare di nuovo tutto.
È una pulsione più forte di ogni altra.
Senza questa energia si tornerebbe a essere solo macchine banali, ovvero automi schiavizzati oramai senza più scarti residuali e dissonanze da sanare. Quel rumore di fondo capace di fare ancora la differenza tra sé e il mondo. Insomma il termometro necessario per misurare il livello di dissociazione dal proprio destino. Oltre che della distanza da colmare nel caso si pensi impudentemente di sanarla. Anche al costo di accettare di dover correre sul filo della follia.
Non troppo tempo fa ci si era messi in viaggio per Imola per celebrare il funerale dell'automobile in occasione della parata carnevalesca dei fantaveicoli ecologici, pazzi e stravaganti realizzati con materiale di riciclo.
Davanti viaggiava il carro con sopra una bara nera circondata ai lati da tanti ceri accesi. Dietro tutti i membri stralunati della ciclofficina in processione su delle bici colorate a scandire giaculatorie del tipo:
Santa Graziella piena di grasso, il pignone sia con te. Sia fatta la tua volontà etc. etc.
Giunti a metà strada, come era prevedibile il carro decide di cambiare improvvisamente direzione, nonostante il tentativo di governarlo da parte dei conducenti.
I due ignari malcapitati presi dalla concitazione reagiscono secondo le più consolidate abitudini. Cioè sterzando istintivamente senza ottenere però grandi risultati.
Pian piano il carro si dirige fuori della carreggiata mentre sul prato verde cominciano a segnarsi due lunghe strisce devianti verso il fosso. Poi di botto si piega di lato e sprofonda inghiottito nel canale scomparendo dalla vista.
Per quelli dietro, rimasti congelati a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, sembrava la fine.
Un attimo di silenzio lancinante durato fino a quando qualcuno dal carro non ha dato segni di vita.
Marco, rimasto eroicamente seduto sulla barca che affondava, alla fine riemerge tra la vegetazione e il fango come se nulla fosse successo.
Al suo fianco c'è anche Michele trascinato a sua volta con la fissa dentro il canale.
Dopo averlo raddrizzato e riportato sulla carreggiata si riscontra una ruota divelta e le forcelle storte.
Ma niente paura.
Senza perdersi affatto d'animo, sospinti da nuove energie, si ripara alla bella e meglio il danno.
Il carro alla fine va ancora.
Ha resistito anche a questa disavventura.
Grande!
Ne siamo sorpresi e ammirati.
Innanzitutto per la robustezza esibita nonostante l'apparente fragilità.
Non sembra vero.
Qualcuno pensa al miracolo.
Recuperata anche la bara con il suo contenuto, si riparte.
Dopo averla scampata per l'ennesima volta, a fine giornata si rivive insieme ogni singola mirabolante avventura. Mentre ognuno si ripete in cuor suo:
Anche questa è fatta.
Insomma tutto è bene quel che finisce bene.
Come nei migliori film drammatici, tipo quelli alla Frank Capra, in cui alla fine si riesce a rovesciare a proprio vantaggio le debolezze costitutive, non senza un pizzico di fortuna.
È vero, a volte va male e non la si racconta.
Ma tanto cambierebbe qualcosa?
Il gran gioco della Vita non ne sarebbe influenzato più di tanto.
Invece per chi ha vissuto in prima persona quelle esperienze apparentemente insignificanti le cose sembrano cambiare. Almeno si potrà dire di aver provato a prendersi gioco del destino.
Senza esagerazione però.
Al massimo cercando di portare le sue regole fino al limite presupposto.
Niente più.
Sapendo in ogni caso che la volta successiva tutto verrà di nuovo messo in discussione.
Comunque sia questa domenica è passata meno noiosa del solito.

Casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra

Stamattina hanno trovato Mondino steso di fianco al suo letto.
Senza vita.
La madre, ovvero zia Gina, assicura al telefono si sia trattato di infarto.
Era pure tutto nero in volto.
Infarto no?
Che ne dici?
Boh...
Ma fosse anche suicidio...
Tanto sarebbe stata comunque la stessa cosa.
Fine di un'esistenza travagliata e deragliante.
Spesso delirante.
Tra pasticche calmanti, rimbotti confusi contro il mondo e Mondino.
Tutto si era tramutato indistintamente in un nemico ostile.
A partire proprio dalla stessa vita.
Un'esistenza marginale.
Eppure presente e reale anch'essa.
Trascinata faticosamente tra la gelateria “bene” del paese dove era solito fare colazione, il più “popolare” bar della stazione, la strada per il fiume e la casa di campagna antistante.
La sua prigione per oltre cinque decadi.
Tra una fuga e un mesto ritorno.
Nel tentativo inutile di ribellarsi al proprio destino da paria.
Come tanti suoi simili.
Almeno fino a quando non si sono esaurite le soluzioni possibili.
Allora si è fermato e si è lasciato distruggere localmente in silenzio.
Lontano da tutto e da tutti.
Aspettando come un animale ferito a morte di tirare le cuoia il più velocemente possibile.
Non senza tremiti e convulsioni.
Pronto istintivamente a scagliarsi con la bava alla bocca contro chiunque avesse tentato di avvicinarsi.
Anche lui ha compiuto fino in fondo il suo destino.
Come tutti.
Come tutto.
Prima o poi.

The funeral party

C'è più gente del previsto.
Non sono passato a casa.
Da lontano vedo le macchine ferme pronte per la processione.
No, sono venuto solo per rendere testimonianza di un'esistenza apparentemente inutile.
Tutte le sovrastrutture simboliche, i riti... no, quelli non mi interessano.
Anzi, tendo preferenzialmente a schivarli.
Meglio la compagnia di un cadavere, piuttosto.
Almeno è oramai privo di maschere.
In qualche modo è solo vita nuda, sebbene orientata verso altre dimensioni esistenziali.
Comunque sfidando tutte le coincidenze possibili sono riuscito a essere puntuale all'appuntamento.
Addirittura ho una manciata di minuti d'anticipo d'amministrare.
Il tempo di prendere un caffé in un baretto a.r.c.i. di campagna, dove il caffé costa solo settanta centesimi.
Certo, non ho potuto evitare del tutto il contatto con gli autoctoni.
Nella fattispecie un vecchietto posseduto da qualche spirito che pretendeva la precedenza mostrando il pugno teso sulle righe pedonali.
Lui con la macchina.
Chissà cosa aveva di così urgente?
Comunque bevo il mio caffé americano lunghissimo.
Vado al bagno.
Infine mi rivesto perché fuori c'è un vento freddo e pungente.
Ora sono pronto per il grande evento.
Mentre mi incammino verso il bivio per la chiesa, si intravede in avvicinamento una carovana di auto rigorosamente in fila.
La casa del morto è solo a due o trecento metri.
Però nessuno viene a piedi.
Sarà per il freddo... mah...
Siamo sincronizzati come due ruscelli confluenti nel medesimo bacino.
Alla fine ci si mescola e ci si contamina a vicenda.
Così, riesco a vedere passare davanti la fila delle macchine tirate a lucido.
I volti sono per lo più adombrati.
C'è chi porta gli occhiali scuri.
Comunque sono tutti vestiti sobriamente e con ordine.
Le macchine si fermano.
Uno dietro l'altro scendono gli occupanti.
Tra di essi ci sono anche la mamma e zia Gabriela.
Ci salutiamo.
La zia ha pure gli occhi lucidi.
Eh si, da un po' ha cominciato a sentire la morte vicina al suo fianco.
Sebbene nel frattempo la veda intenta a mietere nei paraggi.
E questo la terrorizza ulteriomente.
Ma chi non si trova nelle sue stesse condizioni?
Sotto a chi tocca...
Oggi a te... domani a me...
Sono questi i suoi probabili pensieri...
Finalente si entra in chiesa.
Sono le dieci e trenta in punto.
Si inizia.
Ah da quando sono sceso dalla corriera ascolto a busso la playlist rock.
Non voglio essere contagiato dal clima locale e mi sono barricato.
Ho eretto muri sonori di noise frapposti fra me e loro.
La messa comincia.
Vedo la gente segnarsi con la croce.
Intanto sotto scorrono gli Have a Nice Life.
Il brano selezionato random dal lettore dj è The future.
Che dire...
Per non destare troppa attenzione mi sposto in una cappella laterale.
La gente nel frattempo è intenta a alzarsi e a sedersi generando pattern ritmici di ola.
Tra un brano e l'altro si frappone monocorde la voce amplificata del prete.
Ma dura poco.
Il tempo per il lettore di caricare un nuovo brano.
Ecco allora i Portishead con Carry on.
Grazie Dio per la musica.
E grazie per i Portishead.
Questa è l'unica preghiera che riesco a formulare al momento.
D'un tratto, sebbene sia seduto in disparte, intento a scrivere sopra la rivista Forme di vita, titolo del tutto appropriato viste le circostanze, alcune persone sfidano il mio isolamento e si avvicinano con la mano tesa.
Ah, siamo già allo scambio della pace.
E famo sto scambio.
Ora siamo tutti più fratelli.
Sebbene poi provi a salutare una di quelle persone dopo, all'uscita.., ricevendo come controparte un intimorito freddo saluto.
Vabbé, almeno ci si sta avvicinando al gran finale.
Dopo pochi minuti, ecco pronunciare il fatidico...
Ammeneee!
Vai si torna a casina...
Ovviamente Dio, Morte, terremoti, tsunami, umani in divisa e no, subumani, animali, insetti, microrganismi, virus, meteoriti, inclinazioni dell'asse terrestre, glaciazioni, tegole, auto in corsa, vasi cadenti etc, etc, etc.... permettendo.
Un ultimo particolare.
Oggi ho scoperto finalmente il suo vero nome.
Edmondo.