mercoledì 23 giugno 2010

Il mulino di Amlethi

Oggi è una giornata storta.
La logica conseguenza dopo l'ennesimo crollo di un mondo.
Di punto in bianco tutto ciò in cui hai investito e con cui ti sei dilettato perde di valore e di senso. Diventa anonimo e indifferente. In questa situazione di lutto non puoi far altro se non ritirare i tentacolari investimenti ritraendoti in disparte. Derealizzando il mondo circostante e depersonificandoti. No, non si tratta di una ritirata, ma di un rifiatare. Un passo indietro per un nuovo balzo chissà verso dove. Intanto però resta la via della sospensione e dell'arresto momentaneo. Tanto in tale frangente non si potrebbe produrrebbe nulla di proficuo. Sto ancora riflettendo se la serpe insinuatasi strisciando sin dentro casa sia una manna dal cielo capace di pulire con il suo veleno i miei occhi accecati. Forse ora mi sono appropriato di una nuova visione della realtà a me prossima meno distorta e idealizzata. Comunque in mancanza di qualsiasi spinta motivazionale non voglio far prevalere un sentimento di stanchezza e di debolezza. Per questo provo a attivare in modo autonomo nuove energie grazie al movimento fisico. Così decido di fare un giro in bici verso i colli. Non troppo distante, per non smarrire il richiamo regressivo della casa alla fine sempre a portata di mano.
Prendo la strada per San Luca con sullo sfondo la chiesa della Madonna salvatrice dalla peste. Almeno stando alle tradizioni dei bolognesi disposti ogni anno a scarrozzarla a braccia tra la collina e la piazza cittadina andata e ritorno, toccando le quindici stazioni della via crucis lungo il cammino per un totale di circa cinque chilometri. Non sono certo bruscolini e senza allenamento adeguato voglio proprio vedere come ci si arriva a valle e poi di nuovo a monte. È la stessa strada percorsa dai fervidi pellegrini disposti a trascinarsi su per i gradini in pietra con le ginocchia nude. Per espiare qualche colpa o chissà per quale altro incomprensibile motivo. Comunque, nonostante l'era globalizzata, la società dello spettacolo mediatica, qualcuno si cimenta ancora in tale sforzo solitario senza troppi riflettori attorno.
Ho appena percorso ventun chilometri e quattrocento metri, sono a circa metà del cammino preventivato per oggi e prossimo al santuario.
Il cielo è sereno sebbene spazzato da un vento caldo capace di toglierti il respiro. Ma non demordo e tiro le moltipliche fino al limite.
Il santuario con la sua mole imponente è sempre più vicino.
Poche pedalate decise e sono già sotto. Vedo le mura rosse prossime e il porticato aperto come due braccia avvolgenti. Almeno per chi sta sotto.
Scollino.
Inizio la discesa e con essa divoro il porticato posto al mio fianco. Senza freni mi lascio andare come un corpo morto. L'aria fende la superficie sudata seminuda accarezzandola come una lama arroventata.
Lacrimo.
È ora di svoltare bruscamente e di attraversare il portico per cambiare lato di percorrenza. Da lì inizia il tratto più irto. La mitica salita, ops discesa delle orfanelle.
Si, oggi è proprio una giornata storta. Senza ombra di dubbio.
Sotto la volta stretta del portico mi fronteggia di colpo una macchina nera. È un Suv poderoso contro cui nulla posso se non spiaccicarmi come un moscerino.
Tiro i freni con forza.
Forse ce la faccio a fermarmi senza danno.
Le ruote posteriori si inchiodano, ma non sbando.
Nella frazione di un secondo le distanze si annullano.
Vedo i particolari cromati della macchina e i vetri scuri come specchi in cui infrangersi.
Screeeeeck.... Spuum!
Dopo pochi secondi la ruota esplode consumata dall'asfalto abrasivo come carta vetrata.
Non mollo e tiro ancora di più i freni.
Il metallo del cerchione sfiora l'asfalto producendo un rumore secco e penetrante come lo stridore del gesso sulla lavagna.
Mi sento rabbrividire e i peli si fanno irsuti.
Mancano pochi metri all'impatto.
Due... uno... la bici si arresta.
Anche per stavolta salvo.
Ci si guarda negli occhi.
Il guidatore al volante è raggelato ma non si ferma neanche un po'. Mi schiva e accelera come non fosse successo nulla.
Lui sopra il Suv.
Mi rimane solo l'odore dolciastro della benzina bruciata.
Ispeziono il danno.
Niente da fare.
Il copertone è andato, strappato come la carta crespa di un cioccolatino. Mi rimane solo da percorrere tutta la via crucis in discesa. Da bravo occasionale pellegrino contro voglia e contro la mia volontà. Per giunta a piedi nudi vista l'inadeguatezza delle scarpe da ciclista vecchio stile per camminare su strada.
L'asfalto è caldo e pieno di sassolini appuntiti.
Stringo i denti e i freni. Perché la discesa è irta e la bici nonostante sia in alluminio e in carbonio scivola verso valle più in fretta di me.
Seguo la fascia d'ombra rimasta di fianco al portico giusto per non abbrustolire le suole come due piadine.
Intanto la bici geme.
È il metallo del cerchione a non trovare pace, anch'esso insofferente per la superficie ruvida e rovente.
La temperatura aumenta.
Poi il portico devia in faccia al sole.
Non c'è più ombra.
Inizio a elevare le prime giaculatorie.
Dopo poco si trasformano in un autentico rosario.
Ogni passo sulla brace ardente fa partire un ave alla madonna. Così uno dopo l'altro sgrano i nodi della coroncina.
Alla fine arrivo a valle.
I piedi si sono riempiti di vesciche.
Oramai non riesco quasi più a camminare.
Posso solo poggiare la pianta sana dei piedi.
La camminata si fa sempre più irregolare e impacciata.
Ma non mollo.
I miei pensieri vanno verso tutti quei pellegrini volontari.
No non c'è bisogno di cercarsela.
La sfiga arriva comunque.
Basta avere pazienza.
Arrivo a destinazione ai piedi della collina. Casa di Emilio, il mio samaritano preferito. Ho modo di rifocillarmi e nutrirmi oltre di aggiustare il mezzo. Neanche mi trovassi in un'oasi nel deserto.
Troppa grazia per la madonna.

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